#GiudiziUniversali
Marta Bellingreri
Costanza Spocci
Venti uomini vestiti in arancione inginocchiati a terra sono bendati. Indossano tutti dei paraorecchi, come quelli utilizzati nei poligoni di tiro, e sono disposti in due file da dieci con i capi rivolti verso una rete col filo spinato. In mezzo a loro c’è un corridoio dove camminano due militari. Sui fianchi, al di là delle gabbie, altri militari guardano i detenuti, ammanettati e inermi. La foto è stata scattata l’11 gennaio 2002 nella prigione militare americana di Guantanamo Bay, a Cuba. Dietro l’obiettivo c’è Shane T. McCoy, fotografo della Marina degli Stati Uniti, che ha fatto questo e altri scatti su incarico del Dipartimento della Difesa Usa con lo scopo di documentare le attività del Ministero.
McCoy all’epoca non aveva idea che questa sarebbe diventata una delle foto più celebri del XXI secolo, e nemmeno che avrebbe segnato l’inizio di uno scandalo devastante per l’amministrazione di George W. Bush e le sue politiche di detenzione negli Stati Uniti.
L'inchiesta in breve
- Nella giustizia internazionale vengono applicati dei doppi standard così come è evidente dai crimini degli Stati Uniti d’America compiuti a Guantanamo e in Iraq rimasti impuniti. Alcuni avvocati però hanno provato a perseguire legalmente l’ex Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, l’ex Direttore della CIA George Tenet e diversi militari di alto livello, denunciandoli in Germania per tortura, grazie al principio della giurisidzione universale
- Il caso Rumsfeld nasce dall’euforia seguita all’arresto, seppure breve, del dittatore cileno Pinochet dopo il quale avvocati come l’americano Reed Brody e il tedesco Wolfgang Kaleck si sono messi a mappare possibili casi di crimini di massa da poter perseguire con il supporto della giurisdizione universale
- Il non successo del caso Rumsfeld mostra che senza la volontà politica degli Stati non si può ottenere giustizia
- Nonostante gli insuccessi legati ai doppi standard, a Dakar in Senegal, in una lunghissima battaglia portata avanti dalle vittime della dittatura di Hissène Habré, verrà condannato l’ex dittatore ciadiano
- L’applicazione della giurisdizione universale in un Paese africano, il Senegal, mostra come questo principio universale sia fondamentale per la giustizia contro i crimini di massa atroci e così come il precedente Pinochet aveva ispirato le vittime ciadiane, loro hanno ispirato tanti altri Paesi, come il Gambia contro l’ex dittatore Jammeh
Non un avvocato qualunque
Erano i primi mesi del 2002. In Afghanistan e Pakistan alcuni alleati locali degli Stati Uniti avevano raccolto centinaia di sospetti combattenti stranieri e membri di al-Qaeda consegnandoli alle forze statunitensi. In tutto 780 detenuti erano arrivati a Guantanamo. All’epoca la CIA non aveva ancora creato la sua rete di prigioni segrete, ma era solo questione di tempo.
Dal suo studio di Berlino, mentre la pioggia scroscia contro le finestre, Wolfgang Kaleck ricorda quando ha ricevuto la chiamata da New York che ha cambiato il corso della sua carriera. Era il Center for Constitutional Rights (CCR), un’organizzazione di difesa legale di New York fondata dal suo mentore, l’avvocato statunitense Michael Ratner. C’era una legge del 2002 che permetteva l’applicazione della giurisdizione universale ai tribunali tedeschi, gli aveva detto Ratner, e lui e il suo centro credevano che Kaleck fosse l’uomo adatto a un’impresa che si prospettava molto complicata: perseguire alti esponenti del governo degli Stati Uniti, dell’esercito e dei servizi di intelligence per torture e crimini contro l’umanità.
Torture a Guantanamo
Esattamente un mese dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, l’allora presidente degli Stati Uniti George W. Bush, pronuncia il discorso che inaugurerà due decenni di “guerra al terrore” su scala globale: «L’attacco è avvenuto sul suolo americano, ma è stato un attacco al cuore e all’anima del mondo civilizzato. Il mondo si è unito per combattere una guerra nuova e diversa, la prima, e speriamo l’unica, del XXI secolo. Una guerra contro tutti coloro che cercano di esportare il terrore e una guerra contro i governi che li sostengono o li ospitano».
Il piano di Bush per scovare e fermare terroristi in tutto il mondo prevede non solo l’intervento militare in Afghanistan (7 ottobre 2001) e in Iraq (20 marzo 2003), ma anche azioni diplomatiche e sanzioni per negare santuari e finanziamenti a individui che il Dipartimento della Difesa e l’intelligence identificano come terroristi.
È in questo contesto politico e di regime di sicurezza straordinario che l’amministrazione Bush forgia le sue politiche antiterrorismo, supporta figure di spicco come il vicepresidente Dick Cheney, il Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld e il direttore della CIA George Tenet: sono tutti alti funzionari che, insieme al presidente, giocheranno un ruolo fondamentale nell’istituzione di Guantanamo e nel trattamento dei suoi prigionieri.
Il centro di detenzione militare di Guantanamo Bay nasce sulla spinta di alcuni comandanti USA in Afghanistan che chiedono di non doversi occupare dei prigionieri nemici in loco, così che i loro uomini possano dedicarsi solo al combattimento sul campo. Guantanamo è il luogo prescelto dell’amministrazione a questo scopo: dispone di una base navale sufficientemente grande, sicura e soprattutto si trova a Cuba, in territorio straniero, per cui è fuori dalla portata dei tribunali statunitensi ma è anche è abbastanza vicina perché i funzionari governativi possano recarvisi con facilità da Washington.
L’11 gennaio 2002 i primi venti prigionieri arrivano a Guantanamo bendati e legati. Loro e tutte le 780 persone che verranno detenute nei vent’anni successivi sono definiti «combattenti illegali» e non «prigionieri di guerra». Questa distinzione consente all’amministrazione Bush di non applicare le Convenzioni di Ginevra sui prigionieri, perché se applicata, in particolare la Terza Convenzione, obbliga le parti belligeranti a fornire ai detenuti uno standard minimo di assistenza, ovvero un alloggio sicuro, cibo adeguato e cure mediche. Secondo le Convenzioni di Ginevra, agli Stati che le hanno ratificate è severamente vietato sottoporre i prigionieri a violenza, tortura o trattamenti crudeli e degradanti: sono 196 i Paesi che le hanno ratificate, compresi gli Stati Uniti e l’Afghanistan.
Decidendo intenzionalmente di non identificare i presunti combattenti di Al Qaeda e dei Talebani come prigionieri di guerra, gli Stati Uniti si permettono di detenere a lungo termine i sospetti terroristi a Guantanamo e di utilizzare commissioni militari speciali per processarli. Molti detenuti del campo, tra l’altro, saranno in seguito ritenuti poco o per nulla legati ad Al-Qaeda o ai Talebani.
A Guantanamo i prigionieri per la maggior parte provengono da Afghanistan, Arabia Saudita, Yemen e Pakistan. Contro di loro, per estorcere informazioni, l’amministrazione Bush autorizza pratiche di interrogatorio coercitivo che sfociano in vere e proprie torture da parte della CIA e delle forze armate. I detenuti in custodia negli Stati Uniti sono stati picchiati, sbattuti contro i muri, costretti in piccole scatole e sottoposti a waterboarding, ovvero a finte esecuzioni in cui hanno sopportato la sensazione di annegare. Due presunti prigionieri di alto livello di al-Qaeda, Khalid Sheikh Mohammed e Abu Zubaydah, sono stati sottoposti a waterboarding rispettivamente 183 e 83 volte. Altre vessazioni si traducono in lunghi periodi di isolamento, privazione del sonno, del cibo e dell’acqua, esposizione a freddo o caldo estremo e buio totale con musica ad alto volume per settimane intere, percosse, posizioni di stress, rasature forzate, alimentazione forzata e umiliazioni sessuali.
Tenet, il direttore della CIA, predispone che diversi detenuti vengano trasferiti illegalmente in Paesi come la Siria, l’Egitto e la Giordania, dove possono essere più facilmente torturati. In parallelo l’amministrazione istituisce anche un programma illegale di detenzione segreta della CIA in cui i prigionieri sono tenuti in prigioni segrete, senza avvisare le loro famiglie e senza avere accesso al Comitato internazionale della Croce Rossa.
Il presidente George W. Bush autorizza in persona il programma di detenzione segreta della CIA, e non eserciterà mai la sua autorità per fermare i maltrattamenti o punire i responsabili. Il suo vice, Dick Cheney, è responsabile diretto per l’approvazione del waterboarding e di altre forme di tortura e maltrattamento nel programma di interrogatorio della CIA: pratiche stabilite dal “Comitato dei principi” del Consiglio di sicurezza nazionale (NSC) di cui lui era membro.
Il Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld ha approvato metodi di interrogatorio illegali che hanno facilitato l’uso di torture e maltrattamenti da parte del personale militare statunitense in Afghanistan e in Iraq.
I funzionari dell’amministrazione Bush hanno sviluppato e ampliato le loro decisioni e autorizzazioni iniziali sulle operazioni con i detenuti anche di fronte al dissenso interno ed esterno, compresi gli avvertimenti che molte delle loro azioni violavano il diritto internazionale e nazionale. E quando le tecniche di interrogatorio illegali sui detenuti si sono diffuse ampiamente al di là di quanto esplicitamente autorizzato, questi funzionari hanno chiuso un occhio, senza fare alcuno sforzo per fermare le pratiche.
In base al principio della giurisdizione universale si può intraprendere un’azione legale in tribunali nazionali nei casi dei cosiddetti “crimini fondamentali”, come i crimini di guerra o i crimini contro l’umanità, anche se gli atti criminali sono avvenuti in territorio straniero. Questo in teoria è possibile ma non è affatto scontato che poi si verifichi, spiega Kaleck: «Il primo requisito necessario perché questo avvenga è la volontà politica».
Identificato come il più noto avvocato tedesco specializzato in giurisdizione universale della Germania, Kaleck, oggi sulla sessantina, aveva iniziato la sua carriera lavorando a Berlino Est da occidentale e per l’opposizione di sinistra della DDR, con lo scopo di accedere agli archivi della Stasi. Si era confrontato con la giustizia internazionale per la prima volta nel 1998, entrando a far parte come attivista e avvocato della Coalizione contro l’impunità, che si occupava dei desaparecidos in Argentina.
«Ero euforico, e così lo erano molti avvocati come me provenienti da altri Paesi, perché pensavamo di poter davvero agire a livello transnazionale», racconta Kaleck. L’euforia era scoppiata con la cattura a Londra dell’ex dittatore argentino Augusto Pinochet proprio nel 1998. Era stato il primo arresto di un ex capo di Stato basato sul principio della giurisdizione universale e aveva lasciato un’eredità di dimensione globale. «Il mondo si era improvvisamente capovolto – ricorda Kaleck – la sua detenzione aveva decisamente confermato le nostre ipotesi sulla giurisdizione universale».
Le denunce contro Donald Rumsfeld
Pochi giorni prima della chiamata di Ratner a Kaleck, il 28 aprile del 2004 un programma d’inchiesta della rete televisiva americana CBS, 60 minutes, aveva mostrato al mondo intero altre fotografie: un uomo incappucciato e vestito di nero in piedi su un cubo, con le braccia come se fosse inchiodato in croce e con i cavi elettrici alle dita; detenuti nudi, incappucciati e ammassati gli uni sugli altri, con soldati statunitensi che in posa sorridevano prendendosi gioco di loro; altri uomini nudi, o in tuta arancione, vessati, picchiati, minacciati e umiliati. Le immagini erano scattate sempre da contractor e soldati americani, ma questa volta provenivano dal carcere di Abu Ghraib in Iraq.
«Ho presentato una denuncia penale di 160 pagine a un procuratore tedesco per conto di quattro sopravvissuti iracheni torturati ad Abu Ghraib e del Center for Constitutional Rights con sede a New York», racconta Kaleck. Tra il 2004 e il 2006, Kaleck continua a collaborare con il CCR con denunce dirette contro l’ex Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, l’ex Direttore della CIA George Tenet e diversi militari di alto livello, accusandoli di aver violato la Convenzione ONU contro la tortura e il Codice tedesco dei crimini contro il diritto internazionale.
Le denunce penali, concentrate sull’impunità dei principali rappresentanti del governo, delle forze armate e dei servizi di intelligence, si basavano sul principio della giurisdizione universale, sancito dal sistema giuridico tedesco, perché nei casi in questione non sono stati avviati procedimenti giudiziari nei Paesi di origine degli autori né delle vittime, e neppure da parte di tribunali internazionali.
«Io e Wolfgang abbiamo iniziato a collaborare con il caso Rumsfeld, siamo entrati in contatto attraverso il nostro mentore, Michael Ratner», ricorda Reed Brody, un avvocato americano che nel frattempo era stato soprannominato “Cacciatore di dittatori” e che era coinvolto nel caso con Kaleck. Entrambi trascorrevano giorni e notti a casa di Ratner a Manhattan. «È lì che Kaleck ebbe l’idea di costruire un caso direttamente contro Rumsfeld…sembrava molto tedesco – scherza Brody riferendosi al suo collega avvocato – ma era chiaramente un fratello, qualcuno che la pensava come me».
Nonostante però gli sforzi congiunti di una rete transnazionale di legali, tra cui Brody e Ratner, le denunce dei casi contro il segretario alla Difesa degli Stati Uniti Donald Rumsfeld e altri (2004 e 2006) vengono respinte.
Richiedere prove a uno Stato i cui funzionari governativi sono in qualche modo coinvolti nei presunti crimini è infatti complicato, tanto più che il coinvolgimento del governo complica l’accesso a vittime, testimoni e prove documentali, oltre a impedire l’esame degli attori e delle agenzie statali responsabili dei reati. Ma c’è anche un’altra ragione: l’esercizio delle attività giudiziarie richiede la volontà politica a livello nazionale e paneuropeo, e nella maggior parte dei Paesi europei i pubblici ministeri hanno un’ampia discrezionalità nel decidere se avviare o proseguire un’indagine penale.
Perseguire i crimini universali anche dall’Europa
Il lato positivo, spiega Kaleck, è che con il caso contro Rumsfeld «sono entrato in contatto con altri avvocati per i diritti umani a Londra e a New York e ho avuto accesso anche a molte università… e così ho visto quanto lavoro si può fare a questo livello con i professionisti giusti e una buona struttura». Così nel 2007-2008 l’avvocato, supportato da una rete di legali, stabilisce la nascita di ECCHR, l’European Center for Constitutional and Human Rights, che si fonda sui principi base del lavoro sulla giurisdizione universale e di protezione dei diritti umani. Un’organizzazione che sarà cruciale per lo sviluppo futuro della giurisdizione universale, come vedremo nella terza puntata.
Dal processo contro Rumsfeld, Kaleck svilupperà anche una tesi, che nel 2015 diventerà un libro: Double standards: International Criminal Law and the West. Qui Kaleck identifica un doppio binario su cui marciano i governi occidentali quando si tratta di impugnare la giurisdizione universale. Secondo l’avvocato, la pratica di perseguire i crimini internazionali rimane selettiva perché «gli Stati occidentali, quelli che propugnano appelli in favore dei diritti umani universali, si oppongono a perseguire i propri crimini, o la loro complicità nei crimini di altri Stati». In altre parole, l’Occidente rispetta gli standard legali internazionali finché serve ai suoi interessi, come insegnano il caso Rumsfeld o il massacro di Kunduz in Afghanistan. Quando si tratta di perseguire dittatori africani, invece, la giurisdizione universale è acclamata come arma di giustizia anche da governi come quello degli Stati Uniti.
Strage all’ospedale di Medici senza Frontiere
Alle 2:08 di sabato 3 ottobre 2015, una cannoniera AC-130 degli Stati Uniti spara 211 proiettili sull’edificio principale dell’ospedale di Medici senza Frontiere (MSF) di Kunduz, in Afghanistan, dove i pazienti dormivano nei loro letti o venivano operati in sala operatoria. L’attacco aereo dura circa un’ora, come riporterà poi MSF, con l’edificio principale dell’ospedale che viene sottoposto a precisi e ripetuti attacchi aerei, mentre gli edifici circostanti sono rimasti per lo più intatti.
Durante gli attacchi aerei, le squadre di MSF chiamano in continuazione le autorità militari per fermare l’attacco, ma senza successo. Tra le 42 vittime si contano 24 pazienti, 14 membri del personale e 4 assistenti. Trentasette sono le persone ferite.
L’analisi cronologica dei fatti che si sono susseguiti, durante e immediatamente dopo gli attacchi aerei, dimostra che non c’era alcuna ragione per cui l’ospedale dovesse essere colpito. Non c’erano combattenti armati o combattimenti nell’area dell’ospedale. Un documento interno di MSF descrive una situazione in cui i pazienti bruciano nei loro letti, il personale medico è decapitato o perde gli arti e altre persone sono prese di mira e colpite dagli aerei mentre fuggono dall’ospedale in fiamme. Alcuni medici di MSF e altro personale medico sono stati uccisi mentre cercavano di raggiungere un’altra zona del compound nel tentativo di mettersi in salvo.
Sulla base del diritto internazionale umanitario, MSF aveva raggiunto l’accordo di rispettare la neutralità dell’ospedale con tutte le parti in conflitto. A seguito dell’attacco, gli Stati Uniti hanno dapprima dichiarato che il bombardamento fosse stato effettuato per difendere le forze statunitensi sul terreno e in seguito il comandante John F. Campbell ha riconosciuto la propria responsabilità dichiarando si trattasse di un errore; il presidente USA, Barack Obama, ha chiamato MSF per scusarsi. Nonostante la richiesta di una commissione d’inchiesta indipendente internazionale da parte di MSF, non è mai stata fatta chiarezza sulle intenzioni dietro quello che gli Stati Uniti hanno anche definito inizialmente un «danno collaterale» e poi un «errore umano».
Un rapporto finale del Pentagono, pubblicato il 29 aprile 2016, ha riaffermato che si è trattato di un incidente e che quindi non è annoverabile come crimine di guerra. Sedici membri delle forze armate statunitensi sono stati puniti a seguito dell’indagine, anche se nessuno è stato accusato penalmente. Dodici membri del personale coinvolti nell’attacco sono stati puniti con «la sospensione e la rimozione dal comando, lettere di biasimo, consulenza formale e un’ampia riqualificazione». Il governo degli Stati Uniti ha dichiarato che sono state effettuate più di 170 ricompense – tremila dollari per i feriti e seimila dollari per i morti- e che sono stati stanziati 5,7 milioni di dollari per la ricostruzione dell’ospedale.
Per questa ragione c’è molto scetticismo sull’uso dei processi internazionali e dei tribunali ad hoc, uno scetticismo diffuso tra quello che Kaleck definisce quel “Sud globale” che percepisce la giustizia internazionale come un’arma strumentale nelle mani dei più potenti. Per questo, a parere suo e di molti suoi colleghi come Reed Brody, è necessario prendere coscienza che se la giustizia penale internazionale è una questione politica, come dimostrano sia l’impunità di Rumsfeld che di Pinochet, allora anche le vittime possono impugnare una giustizia penale internazionale che difende i diritti umani e utilizzarla come strumento di lotta contro i loro carnefici. E il compito di avvocati come Kaleck e Brody è di porre le basi perché questo sia possibile.
Il doppio standard ancora determina il ricorso o meno alla giurisdizione universale, per questo sarà difficile per il momento vedere incriminato il presidente degli Stati Uniti o un suo segretario di Stato. Il delicato equilibrio tra volontà politica, intreccio storico e raccolta delle prove è cruciale perché un processo contro un capo di Stato o un alto ufficiale possa avere luogo. Ma il successo della giurisdizione universale si misura al di fuori dei confini dell’Occidente: ed è così che un ex dittatore africano alle sbarre, ha creato un nuovo importante precedente.
Il Senegal e lo Statuto di Roma del 1998
Nell’estate dello Statuto di Roma per la creazione della Corte Penale Internazionale, nel 1998, c’è un particolare che l’avvocato americano Reed Brody nota immediatamente: il primo Paese a ratificare è il Senegal. Brody ha una buona memoria e gli verrà incontro quando nel gennaio del 2020 a Dakar, la capitale del Senegal, si siede a parlare con un uomo che allora non sapeva avrebbe fatto parte della sua vita per almeno i successivi vent’anni: si chiama Souleymane Guengueng ed è originario del Ciad. Il precedente dell’arresto di Pinochet aveva portato Brody e il suo team a creare una mappa in cui venivano tracciati i viaggi dei dittatori, provando ad identificare il momento, il dittatore, il Paese in cui un arresto sarebbe stato possibile.
Ma la seconda intuizione era stata quella di mappare anche i dittatori fuggiti dal loro Paese e residenti in altri per capire se ci fossero le condizioni per un arresto. Era il caso dell’ex dittatore ciadiano Hissène Habré che viveva proprio in Senegal fin dalla caduta del suo regime nel 1990. Nel frattempo, l’arresto di Pinochet dell’ottobre 1998 aveva ispirato anche l’associazione delle vittime di tortura ciadiane che si era formata alla caduta del regime di Habré e che nel proprio Paese non aveva trovato spazio per la giustizia. Nel 1999 cominciano a muoversi perché possano trovare ascolto altrove: la meta per entrambi, Brody e Guengueng, da due parti del mondo diverse, è dunque il Senegal.
La dittatura di Hissène Habré
Nei suoi otto anni al potere, Hissène Habré aveva compiuto crimini efferati quali tortura, violenza sessuale, omicidi politici, arresti arbitrari contro la popolazione ciadiana, soprattutto contro gruppi etnici diversi dal suo e contro gli oppositori, anche solo sospettati di essere tali, come Guengueng. Habré aveva preso il potere nell’ex-colonia francese del Ciad nel 1982, rovesciando il governo di Goukouni Wedeye. Gli Stati Uniti di Ronald Reagan avevano supportato l’avanzata militare di Habré verso la capitale N’Djamena con il supporto paramilitare segreto della CIA. Anche la Francia l’ha sostenuto per tutta la durata del suo governo, considerandolo un baluardo contro i disegni espansionistici di Muammar Gheddafi, le cui truppe allora stavano occupando il nord del Ciad.
La prigione più tremendamente nota dei tempi di Hissène Habré in Ciad era denominata La Piscine, ricavata da una piscina di epoca coloniale che Habré aveva diviso in celle e ricoperto con una lastra di cemento. I prigionieri morivano di malnutrizione e di malattie nelle celle sotterranee sovraffollate, soprattutto per il caldo insopportabile dell’estate, ma le guardie a volte aspettavano che diversi detenuti fossero morti prima di sgomberare i corpi.
Nella stanza d’albergo dove si incontrano per la prima volta, Guengueng racconta a Brody il giuramento fatto a sé stesso nelle prigioni dell’ex dittatore Hissène Habré nel 1988. A noi lo racconta invece dal suo salotto nella casa in cui oggi vive a New York, in una videochiamata. «Quando ero in prigione e le persone morivano attorno a me, ho fatto questo giuramento: semmai uscirò vivo da qua, combatterò tutta la vita per la giustizia, per ricordare le persone che sono morte tra le mie braccia». Guengueng però non si accontenta di dettagliare l’orrore che ha testimoniato in quelle prigioni ed è così che chiede a sua volta a Brody di fare una promessa: «Mi devi promettere che non ti arrenderai mai e andrai fino in fondo a questo caso».
Brody invece è in videochiamata con noi dal Gambia e ci riporta le parole esatte che ricorda di aver detto a quello che oggi chiama l’amico Souleymane, più di vent’anni prima:
«Guarda, non posso promettere come andrà, i senegalesi potrebbero non prenderla nemmeno seriamente, ma farò tutto quello che è nelle mie possibilità. Per me è un onore lavorare con una persona come te. È per questo che faccio questo mestiere. No, non mi arrenderò».
Entrambi hanno mantenuto fede alle loro parole, in Senegal li hanno presi sul serio e a otto giorni dalla prima denuncia penale di Guengueng e i suoi compagni – all’inizio erano solo in sette; a testimoniare negli anni saranno oltre novanta- l’ex dittatore ciadiano viene messo agli arresti domiciliari. Il caso di Hissène Habré processato in Senegal è diventato storia, soprattutto per il successo dell’applicazione della giurisdizione universale.
L’applicazione della giurisdizione universale in Africa
«Ciò che per me era importante nel caso del ciadiano Hissène Habré – continua Brody – era che si trovasse in Senegal, in un altro Paese africano. Ritenevamo che il principio della giurisdizione universale, per essere davvero universale, non potesse essere esercitato solo in Spagna o in Inghilterra. Così, quando abbiamo cercato di capire chi sarebbe stato il prossimo Pinochet, abbiamo capito che Hissène Habré rispondeva a questi criteri. C’era la possibilità di vedere se la giurisdizione universale potesse essere applicata in Africa».
Dopo il loro primo incontro in quella camera d’albergo, Brody e Guengueng hanno cominciato ad incontrare le altre vittime sopravvissute al feroce dittatore ciadiano per presentare una prima denuncia penale nella capitale senegalese. Ma il lavoro non partiva affatto da zero: liberato dalle prigioni di Habré, Guengueng fonda l’associazione delle vittime e raccoglie le testimonianze di 782 ex-prigionieri, molti incontrati nelle carceri da lui stesso. L’associazione con il sostegno dell’avvocata ciadiana Jacqueline Moudeïna è riuscita anche a coinvolgere le vittime di violenza sessuale, alcune stuprate dall’ex dittatore in persona, che hanno poi parlato dopo 25 anni di silenzio. I tempi della giustizia sono stati lunghi ma alla fine ce l’hanno fatta: il processo è iniziato nel 2015 in un tribunale speciale del Senegal, con il supporto dell’Unione Africana, e Habrè è stato condannato definitivamente da una Corte d’Appello nel 2017 per crimini contro l’umanità, crimini di guerra e tortura, tra cui violenza sessuale e riduzione in schiavitù.
Si tratta della prima volta che un ex capo di Stato viene condannato da un Tribunale di un altro Paese, il Senegal, che ha indagato con un budget ridotto (8,6 milioni di euro) i crimini di massa compiuti a migliaia di chilometri di distanza, due decenni dopo.
Come un effetto domino, se l’arresto di Pinochet aveva mosso le vittime ciadiane a perseguire nel loro intento di giustizia, la condanna di Habré ha portato molti altri, in Africa e altrove, a credere nelle campagne di giustizia internazionali. A incoraggiarli sono stati gli stessi ciadiani, come Clement Abaifouta, presidente dell’associazione delle vittime del regime di Habré, poco prima della sentenza d’appello, che si è recato in Gambia per incoraggiare le vittime che stanno cercando di portare davanti alla giustizia l’ex dittatore in esilio Yahya Jammeh.
«La gente si è ispirata al lavoro che avevamo fatto in precedenza per avviare il loro processo – racconta Abaifouta dal Ciad -. Il regime aveva sconvolto la mia vita. Seppellivo cadaveri in prigione… ma ne sono uscito con un carattere di ferro. Ho rinunciato a tutto per dedicarmi alla giustizia». In questi anni Abaifouta ha viaggiato per parlare con altre vittime di tortura ed ex-prigionieri in altri Paesi africani.
Ciad, un percorso democratico e di memoria molto accidentato
Nel suo Paese d’origine, invece, non si è realizzato nessun percorso democratico né il rispetto per i diritti umani che trent’anni di lotta per la giustizia volevano far sperare. Hissène Habré era stato esautorato dal suo ex capo militare, Idriss Déby Itno, che è restato al potere fino alla sua morte improvvisa nel 2021 ed è stato poi sostituito dal figlio, Mahamat Déby, con un colpo di Stato militare e la promessa di elezioni democratiche nell’ottobre 2022 che sono state posticipate al 2024: la giunta militare resta al potere. Ma la battaglia di Abaifouta per la memoria non è finita: «Spero ancora, e mi adopero, affinché il palazzo di sicurezza di Hissène Habré diventi un museo commemorativo contro quella brutale dittatura».
C’è un altro buco nella campagna per la giustizia contro la dittatura di Habré: in Senegal non si sono stabilite le complicità e responsabilità internazionali, lasciando sempre aperta la questione sollevata dall’avvocato tedesco Kaleck sui doppi standard, mentre in Ciad si sono aperti processi contro una trentina di complici dei militari. Hissène Habré è morto di Covid in prigione in Senegal nell’agosto 2020.
C’è però una grande eredità che questo caso lascia dietro di sé: l’instancabile lotta in comunione tra vittime e avvocati che hanno reso sostanziale il principio della giurisdizione universale, unito alla volontà politica del Senegal, il Paese che ha ospitato il processo. E quando l’unione di perseveranza dei difensori dei diritti umani e delle condizioni storiche-politiche si ripete, si apre una nuova strada: sarà il caso dei siriani in Germania, pochi anni dopo.
CREDITI
Autrici
Marta Bellingreri
Costanza Spocci
Editing
Lorenzo Bagnoli