Tunisia, la mattanza degli squali
Il mare tra Sicilia e Tunisia è abitato da specie protette di squali. Il mercato del pesce tunisino, privo di regole, ne sta mettendo a rischio la sopravvivenza. E minaccia l’intero ecosistema marino
14 Luglio 2020

Cecilia Anesi
Giulio Rubino

Porto di Kelibia, nord-ovest della Tunisia. Di fronte, l’isola di Pantelleria e a poco meno di cento miglia nautiche Mazara del Vallo, la punta più occidentale del sud della Sicilia. È uno dei tratti di mare dove si pescano gli squali, a 400 metri di profondità.

È il 3 aprile 2020. Non è ancora sorto il sole, ma al mercato del pesce del porto non si dorme. Una dozzina di grossi squali, sanguinanti, pescati e riversati su dei bancali di legno, attirano l’attenzione e la curiosità dei compratori. Sono tutti requin griset, come li chiamano i pescatori qui, in italiano detti “capopiatto” e in latino Hexanchus griseus. Giacciono appoggiati in bella mostra a pancia in giù, pronti ad essere acquistati da intermediari che poi li distribuiranno ai supermercati. Tutt’attorno, in una morsa, una quarantina di uomini con mascherine: siamo in pieno lockdown, ma la pesca non si ferma. Neppure quella allo squalo.

Lo squalo capopiatto non è, in Tunisia, una specie protetta. In Europa la sua pesca è regolamentata e limitata, ma trattandosi di una specie molto migratoria è difficile che si possa proteggere efficacemente se non si armonizzano le legislazioni. Secondo l’Iucn (Unione internazionale per la conservazione della natura) il suo stato di conservazione è Near Threatened, che vuol dire meno in pericolo di altre specie, ma comunque in declino.

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Localizzazione di Kelibia, Tunisia 

In tutto il Sahel tunisino, la regione costiera che va dal golfo di Hammamet fino a quello di Gabès, lo squalo è parte della cucina tradizionale. Con i numeri delle catture in costante crescita e nessuna vera e propria distinzione fra la cattura di specie protette e quelle invece consentite, questa pratica rischia però di distruggere per sempre non solo gli squali, ma tutte le riserve ittiche del Paese. Su circa 63 specie di squalo presenti, oltre il 40% rientrano nella categoria protetta. Per Kelibia, piccola cittadina famosa per le sue spiagge meravigliose, la pesca è una delle principali fonti di reddito, specialmente da quando il turismo internazionale soffre di alterne fortune. Da qui andando a sud fino a Zarzis, accanto all’isola di Djerba, la pesca è un’attività di primaria importanza.

Ci sono migliaia di barche da pesca nel Golfo di Gabes, che catturano squali ogni giorno. E se la maggior parte delle catture registrate avviene per errore (bycatch è il termine tecnico, “catture accessorie”) non mancano barche che cercano attivamente squali di grosse dimensioni. Queste flotte di pescatori utilizzano i palangari (lunghe reti attaccate tra loro e con lenze nel mezzo) per catturare gli squali e mentre a sud si catturano solo durante certe stagioni, a nord, a Kelibia, la caccia avviene durante l’intero arco dell’anno. Nonostante la carne di squalo non sia particolarmente redditizia dal punto di vista commerciale, e la maggior parte delle specie siano protette.

Con i numeri delle catture in costante crescita e nessuna vera e propria distinzione fra la cattura di specie protette e quelle invece consentite, questa pratica rischia però di distruggere per sempre non solo gli squali, ma tutte le riserve ittiche del Paese

Il palangaro

Il palangaro – detto anche palamito o coffa – è una tipologia di rete da pesca. È costituita da un cavetto detto “lenza madre” a cui si applicano in tutto fino a duecento “braccioli” (lenze più piccole), alla cui estremità è applicato un amo con un’esca. I “braccioli” sono disposti a distanza regolare l’uno dall’altro. I palangari tradizionali hanno in tutto cento ami. A intervalli regolari vengono posizionati galleggianti e piccole boe satellitari che permettono il posizionamento a giusta profondità dell’attrezzo e il suo recupero qualora la lenza madre si spezzasse. Il palangaro “derivante” (detto così perché in balìa delle correnti marine) di regola, ha una lunghezza massima di 50 chilometri dall’inizio alla fine. Viene “calato” la sera in mare a circa 20-25 metri dalla superficie e il suo recupero – che in gergo è definito “allestire” – avviene la mattina presto.

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Gli scatti su Facebook prova della mattanza

Le prove della mattanza degli squali a Kelibia sono ingenuamente scattate dagli stessi pescatori. Quella stessa mattina del 3 aprile, ad esempio, un profilo Facebook chiamato “Il marinaio di Kelibia” pubblica un video dei venti squali capopiatto esposti al mercato del porto. Dietro, un edificio riconoscibile in foto pubblicate dal profilo Facebook ufficiale del mercato del pesce del porto: Il Marchi. Dai social network si evince che è in questo magazzino che viene venduto tutto il pesce raccolto dalla flotta di Kelibia, squali inclusi. Il pesce si può acquistare di persona, oppure online direttamente dal sito de Il Marchi che, pubblicizza, può farlo arrivare fresco in qualsiasi parte del Paese entro 24 ore.

Un grosso squalo è anche un trofeo; sbarcato sulle banchine del porto attira curiosi e, soprattutto, clienti. È anche per questo che i pescatori tunisini tendono a mettere sui social network tutte le fotografie di squali che pescano e che riportano a riva, tanto i capopiatto, quanto quelle di specie espressamente protette, che non possono essere in alcun modo catturate ne tantomeno commercializzate. Come gli squali bianchi, i mako, gli squali grigi, le mante, le razze, i pesci chitarra: tutti pesci protetti anche in Tunisia che vengono ugualmente presi ed esposti come macabri trofei. Una ricerca sui profili Facebook legati al porto di Kelibia e alle aziende di pesca della zona rivela un bollettino di morte per squali, razze ed elasmobranchi di ogni tipo. Solo nel 2019, stando a i post, sono stati catturati ed esposti squali bianchi, mako, anche un esemplare di diavolo di mare, una manta abbastanza rara. Andando indietro nel tempo, non si contano i casi di specie protette finite nel mercato del pesce locale.

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Gli scatti dei pescatori su Facebook / IrpiMedia. Scorri le immagini

«La maggior parte degli squali pescati in Tunisia sono pescati per errore, ma c’è un 20% che invece è proprio pesca illegale. Ci sono due flotte pescherecce che li vanno a cercare, una è quella di Kelibia e una è quella di Zarzis, nel sud, vicino alla Libia».

Sami Mhenni

Houtyat

Mediterraneo zona di pesca e di incroci pericolosi

Secondo Sami Mhenni, presidente e fondatore di Houtyat, associazione che si occupa di ricerca e sensibilizzazione rispetto al problema della pesca delle specie protette, la maggior parte delle catture avviene per errore e il mercato interno assorbe la quasi totalità del consumo di carne di squalo. Ma non a Kelibia e Zarzis: «È qui che avviene la maggior parte della pesca illegale allo squalo», spiega Jamel Jrijer, marine program manager al WWF nord-Africa. «La maggior parte degli squali pescati in Tunisia avviene per errore, ma c’è un 20% che invece è proprio pesca illegale. Ci sono due flotte pescherecce che li vanno a cercare, una è quella di Kelibia e una è quella di Zarzis, nel sud, vicino alla Libia».

Houtyat ha raccolto alcune testimonianze tra i pescatori, ma nessuno vuole metterci la faccia per paura di ritorsioni: il tratto di mare tra Kelibia e la Sicilia non è solo la zona dove si pescano gli squali. È anche la zona dove si incontrano le due flotte pescherecce, quella tunisina e quella siciliana: i tunisini vendono soprattutto tabacco e pesce di contrabbando ai siciliani. Diversi studi dimostrano che una quota importante di ciò che viene venduto in Italia come pesce spada in realtà è squalo: le due specie hanno infatti una tipologia di carne apparentemente simile, almeno a uno sguardo inesperto. L’ipotesi è quindi che parte di questo finto pesce spada sia in realtà squalo pescato dai tunisini e venduto di contrabbando.

La zona grigia delle catture non dichiarate

Alla vendita all’estero si aggiunge il ricco mercato delle pinne di squalo, usate in Asia o nei ristoranti cinesi d’Europa per preparare zuppe considerate una leccornia. Secondo Fabrizio Serena, Co-Regional Vice Chair dello IUCN Shark Specialist Group for Mediterranean e Ricercatore dell’Istituto per le Risorse Biologiche e le Biotecnologie del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), il problema principale è la mancanza di informazione e preparazione, tanto nei pescatori, quanto nelle autorità che sarebbero preposte al controllo. «I pescatori non sanno riconoscere quali specie sono protette – spiega – i regolamenti si aggiornano di continuo ed è necessario prevedere dei programmi di informazione diretti a loro. Il Gfcm (Consiglio generale della pesca nel Mediterraneo) sta lavorando molto sui Paesi del Nord Africa. Dovevo io stesso fare un intervento proprio in Tunisia questa primavera, ma la pandemia ci ha bloccato».

La Tunisia non fa parte dell’Unione europea naturalmente, ma tramite il Gfcm recepisce in teoria il regolamento stabilito dalla convenzione di Barcellona, che stabilisce quali specie devono essere rilasciate immediatamente, vive, e quali devono essere perlomeno registrate e la loro cattura accidentale comunicata alle autorità preposte. La registrazione però non avviene, anche perché non tutte le catture “accidentali” avvengono in buona fede. Jamel Jrijer ci racconta che ci sono almeno due attori che rendono più difficile l’adozione di misure a tutela degli squali: gli intermediari che rivendono il pesce a supermercati e hotel e i pescatori di frodo veri e propri. Questi ultimi non hanno problemi a mettersi contro le autorità. Sono compatti e protetti. «Sono come una mafia – spiega Jamel – ben organizzati: se vengono attaccati dal governo o dai media, rispondono. E hanno entrature in alto, hanno l’appoggio dei sindacati, che in Tunisia sono fortissimi, tanto da decidere chi deve guidare un ministero e come». Chi ha provato ad opporsi, o anche solamente a controllare i pescherecci e a sequestrare gli squali pescati, ha fatto una brutta fine. Quei guardacoste che ci hanno provato, ci spiegano gli attivisti locali, sono stati picchiati e le loro auto sono state date alle fiamme.

Il Consiglio generale della pesca nel Mediterraneo

Il Consiglio generale della pesca nel Mediterraneo è un organismo che regolamenta la pesca nel Mediterraneo. Ne fanno parte 23 Paesi che si affacciano su questo mare, più l’Unione Europea. Il Gfcm ha il potere di introdurre regolamentazioni vincolanti per i suoi membri per tutto quanto riguarda la pesca e l’acquacoltura. Ha competenza per tutto il Mediterraneo e per il Mar Nero.

«I pescatori non sanno riconoscere quali specie sono protette – spiega – i regolamenti si aggiornano di continuo ed è necessario prevedere dei programmi di informazione diretti a loro».

Fabrizio Serena

IUCN e CNR

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Omertà e complicità tra pescatori di frodo e intermediari

Quel che è certo, è che c’è molta omertà. Gli intermediari che acquistano lo squalo da porti come Kelibia, sanno che le specie sono protette e che potrebbero incorrere in problemi. Allora, per farle entrare nel circuito legale, tagliano gli squali a pezzi così da venderli mischiati a specie non protette o a fare passare le fette come pesce spada. Ristoranti, supermercati, catene di grande distribuzione e hotel che acquistano poi questi pezzi di squalo, sanno bene cosa acquistano. E lo fanno perché conviene: la carne di squalo ha un ottimo rapporto peso – prezzo. È una carne economica rispetto ad altri pesci. Così, con il diffondersi dei pacchetti turistici all inclusive offerti da molti hotel di zona, un grosso squalo può rappresentare al contempo un significativo risparmio economico per “riempire” un buffet di pesce e un’attrazione turistica vera e propria.

Gli intermediari che acquistano lo squalo da porti come Kelibia, sanno che le specie sono protette e che potrebbero incorrere in problemi. Allora, per farle entrare nel circuito legale, tagliano gli squali a pezzi così da venderli mischiati a specie non protette o a fare passare le fette come pesce spada

Naturalmente per fermare chi pesca di frodo non basta certo una campagna d’informazione rivolta ai pescatori. Secondo Fabrizio Serena, però, nella maggior parte dei casi adottare misure repressive nei confronti dei pescatori potrebbe essere addirittura controproducenti.

«Il rischio di sanzioni, che in Italia possono anche andare nel penale, desta molte preoccupazioni nei pescatori – spiega Serena -. Noi chiediamo invece un sistema simile a quello che già esiste per tartarughe e mammiferi marini, dove il pescatore può comunicare alla capitaneria di porto la cattura. Questa a sua volta contatta il più vicino istituto di ricerca, che procede alla registrazione e alla liberazione dell’esemplare catturato. Se non si fa così il pescatore che prende lo squalo, per evitare problemi, finisce per venderlo illegalmente».

L’importanza della protezione della specie

La popolazione di squali del Golfo di Gabès è una risorsa preziosa e tutelarla è importante per tutto il Mediterraneo, ma in particolare per gli stessi pescatori tunisini. Lo squalo, chiarisce Fabrizio Serena, è un predatore apicale, in cima alla catena alimentare del mare e la sua scomparsa può avere effetti devastanti sugli stock di pesce della zona. «In North Carolina quando hanno sterminato gli squali grigi che tenevano sotto controllo la popolazione delle rinottere (una specie di razza, ndr) queste si sono moltiplicate enormemente, distruggendo del tutto gli stock di capesante da cui i pescatori dipendevano», aggiunge il ricercatore. Risultato: l’intera industria è fallita.

Gli stessi squali grigi, assieme ai Mako, ai pesci chitarra e pesci violino che nel nord del Mediterraneo sono già considerati localmente estinti, hanno nel Golfo di Gabès il loro habitat di riproduzione e sono una preziosissima risorsa faunistica per la Tunisia. Proteggerli non sarebbe nemmeno particolarmente difficile.

Secondo il dati del Wwf che IrpiMedia ha potuto consultare, una porzione significativa degli squali presi per errore nelle reti e nei palangari viene ritrovata viva, e potrebbe essere facilmente rilasciata. Eppure, in contrasto con le raccomandazioni del Gfcm, la ricerca rileva che il 100% di questi esemplari viene abbattuta e commercializzata.

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CREDITI

Autori

Cecilia Anesi Giulio Rubino

Editing

Lorenzo Bagnoli