#NarcoFiles

La culla del potere dei narcos. Il matrimonio fra latifondo bananiero e paramilitari
Nel nord della Colombia i latifondisti sono sempre andati a braccetto coi paramilitari. I soldi degli imprenditori delle banane hanno permesso loro di diventare i maggiori esportatori di cocaina del mondo
06 Novembre 2023

IrpiMedia
Voragine

Il 6 novembre 1988, sul quotidiano l’Unità compare un piccolo trafiletto: «Colombia Ucciso un industriale italiano». Manlio Scagliarini Monfredini, 27 anni, direttore commerciale dell’azienda di banane Banacol viene crivellato di pallottole mentre sta rincasando nella sua villa del quartiere El Poblado, a Medellin. Secondo fonti investigative dell’epoca, scrive il quotidiano comunista, l’omicidio sarebbe legato alla «tensione sindacale esistente nella regione bananiera dell’Urabá», la provincia colombiana che si affaccia sul Mar dei Caraibi, al confine con Panama. È qui che, fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, nasce Banacol, fondata da alcuni azionisti fuoriusciti da Unibán, la Unión de Bananeros de Urabá. Ben presto, all’interno dei sindacati dell’azienda, si infiltrano alcuni gruppi armati. Ed è proprio in questo contesto che sarebbe maturato l’omicidio di Monfredini.

L'inchiesta in breve
  • A partire dagli anni Ottanta cresce esponenzialmente la cocaina che dalla Colombia arriva in Europa nascosta fra le scatole di banane. Nella regione non si produce solo la maggior parte delle banane colombiane, ma anche la foglia di coca, dalla cui raffinazione si ricava la cocaina. Per il controllo del traffico di polvere bianca, si scontrano gruppi guerriglieri marxisti-leninisti e paramilitari di estrema destra
  • Alla fine degli anni Novanta, diversi gruppi paramilitari si coalizzano in una struttura “ombrello”, le Autodefensas Unidas de Colombia (AUC). Caduti gli storici cartelli che controllavano il mercato della cocaina, le AUC diventano la più grande organizzazione di narcotrafficanti del mondo
  • In Urabá le AUC si macchiano di centinaia di crimini: omicidi, massacri, espropri, sparizioni forzate, torture. Tuttavia, non è solo spedendo cocaina in tutto il mondo che le AUC sostengono le proprie attività criminali. Le piantagioni di banane, e i loro proprietari, giocano un ruolo decisivo
  • Secondo le confessioni di ex paramilitari, le aziende bananiere dell’Urabá hanno finanziato, fino ai primi anni Duemila, le AUC, destinando al gruppo milioni di dollari frutto dell’esportazione delle banane. Fra queste, c’è la produttrice Banacol, che dal 2004 possiede il marchio Chiquita in Colombia
  • Nonostante l’ufficiale smobilitazione delle AUC, dalle sue ceneri sono nati gli “gli Urabeños”, anche noti come “Clan del Golfo”, ad oggi il più pericoloso gruppo armato del Paese. E le esportazioni di cocaina dalla loro regione, l’Urabá, verso l’Europa, non si sono mai fermate. Continuando a sfruttare i container delle banane
  • Nessuna sentenza giudiziaria ha accertato che Banacol abbia continuato ad avere rapporti con i paramilitari dopo la smobilitazione delle Autodefensas Unidas de Colombia. Tuttavia, negli ultimi dieci anni, il nome dell’azienda è comparso in numerosi casi in cui container di banane, caricati al porto di Turbo e diretti in Europa, sono stati usati come copertura per spedire cocaina
  • La maggior parte delle spedizioni provenienti da Banacol in Italia sono arrivate a Dole, una delle più grandi multinazionali produttrici di frutta. In molti supermercati di tutta Europa si trovano banane Banacol a marchio Dole. A vendere banane Dole di origine colombiana sono anche i maggiori marchi della grande distribuzione italiana
  • Sebbene Banacol faccia affari con i maggiori marchi di frutta al mondo, sapere chi la possiede è impossibile. La proprietà dell’azienda, infatti, si nasconde dietro una fitta rete di aziende offshore, alcune delle quali hanno finanziato politici sono legati al partito Centro Democratico dell’ex presidente Alvaro Uribe, da tempo accusato di avere connessioni con i paramilitari e di aver beneficiato dei loro finanziamenti

La notizia dell’uccisione di un giovane direttore d’azienda nella lontana Colombia non ha alcuna eco, e il caso viene ben presto dimenticato. Di certo non viene messo in relazione con un altro fenomeno, che cambierà per sempre la criminalità organizzata mondiale. A partire da quegli anni infatti, cominciano a crescere esponenzialmente le quantità di cocaina che, proprio dai porti dell’Urabá, quello di Turbo in particolare, arrivano in Europa.

Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, i sequestri di cocaina sudamericana in Europa e negli Stati Uniti si misuravano nell’ordine di grandezza delle decine di grammi. Negli anni Settanta però la polvere bianca entra in un nuovo ciclo di consumo popolare. Se alla metà del decennio il “cartello di Medellin” di Pablo Escobar commerciava appena quaranta chilogrammi di cocaina a settimana, agli inizi degli anni Ottanta si diffonde il crack – una cocaina in cristalli da fumare, economica e facile da distribuire –, e le vendite dei narcos colombiani iniziano a contarsi in tonnellate.

Alla fine di quel decennio le forze dell’ordine italiane iniziano a sequestrare, nascosti fra gli scatoloni di banane, panetti di cocaina colombiana. Nel 1989 al porto di Livorno vengono trovati 53 chili di cocaina su una bananiera ecuadoregna in arrivo da Turbo. Altri 10 chili, lo stesso anno, vengono sequestrati a Salerno sulla bananiera filippina Royal Refrees. Anche in questo caso la droga era stata imbarcata a Turbo. Fra il 1990 e il 1991 due mercantili della stessa compagnia armatrice, il Pacific Star e l’Atlantic Star arrivano a Vado Ligure (Savona) cariche di banane e di 800 chili di polvere bianca, che viene sequestrata. Le spedizioni all’epoca venivano organizzate dal “cartello di Medellin”, in uno dei loro porti preferiti per il traffico di droga: quello di Turbo, appunto.

Il quotidiano L’Unità del 6 novembre 1988 in cui viene riportata l’uccisione a Medellin (Colombia) dell’industriale Manlio Scagliarini Monfredini, al tempo direttore commerciale della società Banacol. A partire da fine anni ’80, comincia a crescere esponenzialmente il traffico di cocaina in partenza dalla regione di Urabà verso l’Europa

L’edizione del 21 settembre 1990 de La Stampa in cui si da notizia del duplice sequestro di cocaina – 780 Kg in totale – proveniente dal porto di Turbo (Colombia) e diretto in Liguria su due navi appartenenti alla medesima società armatrice

L’odore della frutta, si legge nelle cronache dell’epoca de La Stampa, veniva sfruttato dai narcotrafficanti per nascondere la presenza dello stupefacente al fiuto dei cani antidroga. Usare la rotta delle banane per importare cocaina dalla Colombia è conveniente, e anche la criminalità organizzata calabrese entra nella partita: a luglio 1991 la Guardia di finanza arresta dieci persone, trovando «prove di un coinvolgimento diretto di uomini della ‘ndrangheta nel traffico di cocaina». Si tratta di trafficanti legati al clan Piromalli, in grado di importare, in poco più di un anno, oltre 400 chili di polvere bianca, nascosta nelle banane, per poi smerciarla a distributori in Lazio e Lombardia.

Mentre il mercato europeo si satura di cocaina, la Colombia delle piantagioni di coca è un «santuario di droga e violenza», scrive Alan Weisman in un reportage per il New York Times Magazine ripubblicato in Italia da La Stampa. I gruppi paramilitari, nati come bande armate private al soldo dei ricchi proprietari terrieri per affrontare i rapimenti e le estorsioni della guerriglia rivoluzionaria, ben presto entrano in affari con i narcotrafficanti, facendo la guardia alle loro partite di droga. In uno di questi gruppi, attivo nella colombia nordoccidentale entra, a metà degli anni Novanta, un grande proprietario terriero, figlio di un immigrato campano di Sapri, Salvatore Mancuso Gómez, al fianco del fondatore e comandante Carlos Castaño.

La guerra civile in Colombia

Il conflitto in Colombia inizia negli anni Sessanta, con la contrapposizione fra lo Stato e i gruppi guerriglieri insurrezionali di ispirazione marxista-leninista, fra cui le Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (FARC) e Ejército de Liberación Nacional (ELN). Nati per difendere i contadini dalle violenze dei paramilitari assoldati dai proprietari terrieri, i guerriglieri si finanziano entrando in modo sempre più diretto nel traffico di droga. Tanto per gli uni, quanto per gli altri, il narcotraffico è una fonte fondamentale di finanziamento.

Col boom della cocaina negli anni Ottanta cresce la forza dei gruppi paramilitari, che per il controllo del mercato degli stupefacenti si scontrano con i guerriglieri. Fra il 1985 e il 2018 sono morte 450.000 persone a causa del conflitto, di cui la stragrande maggioranza civili uccisi dai paramilitari. Nel 2016 le FARC e il governo colombiano hanno firmato uno storico accordo di pace mentre, a giugno 2023, l’ELN, il maggior gruppo guerrigliero rimasto, ha siglato con le autorità un cessate il fuoco.

Alla fine degli anni Novanta, diversi gruppi paramilitari regionali si coalizzano in una struttura “ombrello”, le Autodefensas Unidas de Colombia (AUC), con al vertice Castaño, i suoi fratelli e l’italo-colombiano Mancuso. In parallelo al consolidamento delle AUC, il mercato della droga cambia. Gli storici cartelli che controllavano il mercato della cocaina, quello di Medellin e quello di Cali, cadono uno dopo l’altro, lasciando paramilitari e guerriglieri a combattere per le aree di coltivazione e raffinazione della coca. I profitti della guerra trasformano le AUC nella più grande organizzazione di narcotrafficanti del mondo, con un esercito stabile di oltre 30.000 soldati.

Due militari della Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (FARC) pattugliano una strada nel mezzo della giungla colombiana a marzo 1988 – Foto: Pedro Ugarte/Getty
Paramilitari della Autodefensas Unidas de Colombia (AUC) nelle montagne fuori Bogota, capitale della Colombia, nel gennaio del 2000 – Foto: Carlos Garcia/Getty

In Urabá le AUC di Castaño e Mancuso si macchiano di centinaia di crimini: omicidi, massacri, espropri, sparizioni forzate, torture. Intere comunità vengono sfollate, e le loro proprietà comprate da proprietari terrieri legati ai paramilitari. Tuttavia, non è solo spedendo cocaina in tutto il mondo che le Autodefensas sostengono le proprie attività criminali. Le piantagioni di banane, e i loro proprietari, giocano un ruolo decisivo.

Il ruolo dei bananieri

A confermare i rapporti fra i paramilitari delle AUC e le aziende bananiere dell’Urabá, fra cui Banacol, è lo stesso Salvatore Mancuso Gómez, rimasto al vertice del gruppo fino alla loro parziale smobilitazione, avvenuta nei primi anni Duemila a seguito di un accordo di pace con il governo colombiano. Altissimo e con pochi capelli nelle foto in cui viene tratto in arresto dalla Dirección Central de Policía Judicial e Inteligencia, «el Mono», “la scimmia” Mancuso viene estradato negli Stati Uniti nel 2008. L’anno prima, in un interrogatorio di fronte alla procura colombiana, Mancuso spiegava: «L’industria delle banane guadagna miliardi di dollari all’anno, di cui ai gruppi di autodifesa rimaneva […] un centesimo di dollaro a scatola». Per dare un’idea della cifra, in un accordo stipulato da Chiquita nel 2005 con esportatori colombiani, fra cui Banacol, veniva richiesto di garantire un minimo di banane spedite da Turbo pari a 8 milioni e 700 mila scatole di banane all’anno.

Poliziotti antidroga colombiani installano dell’esplosivo in un laboratorio per la produzione di cocaina gestito dalle FARC nel gennaio 2011 – Foto: AFP, Guillermo Legaria/Getty

Mancuso era venuto a sapere dello schema di finanziamento delle aziende di banane perché, dice, era stato invitato dal comandante delle AUC, Carlos Castaño, a partecipare ad alcune riunioni. Convocati dal leader dei paramilitari, a queste riunioni erano presenti molti imprenditori bananieri di Urabá. Fra questi, c’era Raúl Hasbún, l’uomo che simboleggia l’unione fra le AUC e l’industria delle banane. «Alla fine del 1997, Raúl Hasbún, alias “Pedro Bonito”, un imprenditore bananiero di Urabá, insieme al comandante del “Bloque Bananero” (il gruppo paramilitare attivo fra Turbo e Belén de Bajirá, ndr), raggiunse un accordo con i direttori delle imprese Chiquita Brands, Banacol, Unibán, Probán, Doll e Del Monte – racconta ai procuratori Salvatore Mancuso –, che consisteva nel pagare ai gruppi di autodifesa un centesimo di dollaro per ogni cassetta di banane che lasciava la Colombia». In un altro interrogatorio, di qualche mese successivo, il secondo in comando delle AUC parla di tre centesimi a scatola.

I rapporti fra le AUC e la ‘ndrangheta

Salvatore Mancuso ha continuato a parlare, anche a molti anni di distanza dall’estradizione negli Stati Uniti. In un interrogatorio svoltosi nel 2019 ad Atlanta, alla presenza delle autorità giudiziarie della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria e del Ros (Raggruppamento Operativo Speciale) dei Carabinieri, Mancuso ha ricostruito i rapporti fra la sua organizzazione paramilitare e trafficanti di droga legati alla ‘ndrangheta. Una volta caduti gli storici cartelli di Medellin e di Cali, le AUC diventano i maggiori produttori colombiani di cocaina. Fra la fine degli anni Novanta e gli inizi del nuovo millennio alcuni broker della ‘ndrangheta, come Roberto Pannunzi, Santo Scipione (basato proprio a Medellin fino alla morte, avvenuta di recente) e Natale Scali, sono riusciti a mettere in piedi una collaborazione stabile con le AUC, che è stata una delle chiavi del grande successo della mafia calabrese.

Ai primi del 2000, dopo una prima importazione di 1.200 chili di cocaina, Natale Scali inoltra, in rappresentanza di un cartello di ‘ndrine, una richiesta di accordo ai paramilitari di Mancuso: i calabresi chiedono di poter avere l’esclusiva per il mercato europeo di tutta la coca prodotta dalle AUC. L’accordo non viene finalizzato, perchè i paramilitari preferiscono avere «mano libera sulla scelta degli acquirenti», ma la ‘ndrangheta, soprattutto le cosche della Locride, verrà da allora trattata con un occhio di riguardo.

Mancuso vive attualmente negli Stati Uniti, dove è stato condannato a 16 anni per traffico di droga. Nel 2020 è uscito di prigione, ma è ancora accusato in Colombia per aver compiuto 5.200 crimini violenti. Nelle foto più recenti lo si vede completamente pelato, con la barba curata e il volto incorniciato da occhiali squadrati con la montatura spessa. Una recente inchiesta di InsightCrime pubblicata anche su IrpiMedia ha raccontato di come, a cavallo del nuovo millennio, l’imprenditore italiano Giorgio Sale abbia aiutato Salvatore Mancuso a riciclare i proventi del traffico di cocaina in Europa, frutto dei suoi rapporti privilegiati con la ‘ndrangheta.

Hasbún, che del “Bloque Bananero” è stato uno dei vertici, secondo Mancuso ha svolto un cruciale ruolo di connessione: «È stato l’uomo che ha fatto da ponte tra i produttori di banane e i gruppi di autodifesa all’inizio, attraverso di lui sono state fatte tutte le trattative sulle banane». Un anno dopo l’interrogatorio di Mancuso, lo stesso Hasbún di fronte ai magistrati colombiani cita «Banacol come società che finanziava le Autodefensas Unidas de Colombia AUC che operavano nella zona di Urabá». Il modello che Hasbún aveva messo in piedi funzionava talmente bene che Vicente Castaño – fratello del fondatore delle AUC, Carlos – gli aveva ordinato di replicarlo nella città costiera di Santa Marta. L’ex paramilitare Mauricio Roldán ha dichiarato che Hasbún si è incontrato con «molte più persone delle aziende banane che contribuivano, [fra cui] c’erano Dole e Banacol».

Salvatore Mancuso Gómez, leader della Autodefensas Unidas de Colombia (AUC), incontra i giornalisti nel dicembre 2004, poche settimane prima dell’accordo di pace tra le AUC e il governo colombiano – Foto: Luis Acosta/Getty

A Santa Marta, l’accordo fra bananieri e paramilitari non ha avuto lo stesso successo che in Urabá. Qui, il patto ha fruttato alle AUC milioni di dollari. Secondo la procura colombiana, l’operazione è durata dal 1997 al 2004. Solo dalle casse di Banacol e delle sue filiali, sono transitati ai paramilitari oltre 7,5 milioni di dollari. Ma a pagare, secondo le dichiarazioni degli ex-AUC, sono state anche altre grandi industrie delle banane di Urabá, fra cui Unibán, Banadex e Probán.

I soldi di Banacol, per il tramite di Hasbún, non hanno soltanto cementato il potere di uno dei più violenti gruppi criminali al mondo. Hanno anche contribuito alla cacciata dei contadini che coltivavano banane in Urabá. Lo racconta una sentenza del 2020 emessa dal Tribunale civile di Antioquia. A causa della guerra civile milioni di colombiani sono stati costretti ad abbandonare la propria terra, o questa è stata loro illegalmente sottratta, spesso dalle forze armate e dai paramilitari loro alleati. Un gruppo di contadini ha chiesto la restituzione dei propri terreni, appartenenti alla tenuta «La Niña», nel comune di Turbo.

«Nel 2003 – si legge nella sentenza –, Felipe Echeverri, un imprenditore del settore delle banane, si recò nel villaggio sostenendo di essere il rappresentante del presunto proprietario del terreno “La Niña”, citando come tale Raúl Emilio Hasbún, un riconosciuto leader paramilitare». L’imprenditore è accompagnato da uomini armati, paramilitari appartenenti al “Bloque Bananero”. «Arrivò reclamando la proprietà della terra, obbligando i contadini a pagare quattro milioni di pesos per ogni ettaro occupato». Il pagamento sarebbe stato possibile per mezzo di sconti tramite Banacol, a cui alcuni dei contadini vendevano le banane che coltivavano. Questo, scrivono i giudici, ha avuto «conseguenze devastanti sulla stabilità socio-economica» dei contadini, costringendoli a vendere la terra, ai prezzi imposti dai compratori e, di fatto, «interrompendo il loro progetto di vita».

La giustizia, però, procede molto a rilento. Sebbene il “Bloque Bananero” di Hasbún sia stato ufficialmente smobilitato nel 2004, solo nel 2018 quattordici uomini d’affari, tra cui diversi ex direttori di Chiquita Brands e Banacol, sono stati accusati di associazione a delinquere e finanziamento di gruppi paramilitari. La procura colombiana ha dichiarato il finanziamento dei gruppi paramilitari da parte delle aziende bananiere di Urabá un crimine contro l’umanità. In tribunale, il capo del “Bloque Bananero” Hébert Veloza ha dichiarato: «I coltivatori di banane sono responsabili quanto o più di noi per tutto quello che è successo a Urabá». Sono gli imprenditori del settore bananiero, secondo il leader dei paramilitari, i veri vincitori della guerra civile. «Nessuno di loro sta pagando, nessuno di loro è in arresto, nessuno di loro è indagato, nessuno di loro ha versato denaro per il risarcimento».

«Nessuno di loro sta pagando, nessuno di loro è in arresto, nessuno di loro è indagato, nessuno di loro ha versato denaro per il risarcimento»
Hébert Veloza, leader dei paramilitari del Bloque Bananero, riferendosi agli imprenditori del settore bananiero colombiano

Ufficialmente, dal 2006 le Autodefensas Unidas de Colombia si sono sciolte. Tuttavia, alcuni gruppi paramilitari che formavano le AUC hanno smobilitato solo formalmente, semplicemente consegnando al governo vecchie armi ormai inutilizzabili. Dalle ceneri della struttura paramilitare delle AUC è nata così un’organizzazione di narcotrafficanti, il più potente gruppo armato illegale in Colombia, conosciuto come “gli Urabeños” o il “Clan del Golfo”. Usano la regione di Urabá come base, ma sono attivi in tutta la Colombia. Difficile sapere quante tonnellate di coca hanno gestito negli anni, ma, come ha raccontato IrpiMedia, solo nel 2022 e solo attraverso il porto di Trieste nel 2022 gli Urabeños hanno inviato oltre quattro tonnellate di cocaina in Italia, per acquirenti legati alla ‘ndrangheta e ai clan balcanici.

Infiltrazioni

Nonostante il recente arresto del leader degli Urabeños, Dairo Antonio Úsuga detto “Otoniel”, la cocaina non ha mai smesso di prendere, dal territorio da cui il gruppo prende il nome, la via dell’Europa. E spesso, per farlo, continua a nascondersi nei carichi di banane. Nessuna sentenza giudiziaria ha accertato che Banacol, fra i maggiori produttori di banane dell’Urabá, abbia continuato ad avere rapporti con i paramilitari dopo la smobilitazione delle Autodefensas Unidas de Colombia. Tuttavia, negli ultimi dieci anni, il nome dell’azienda è comparso in numerosi casi in cui container di banane, caricati al porto di Turbo e diretti in Europa, sono stati usati come copertura per spedire cocaina. In una rogatoria internazionale presentata dalla Fiscalia colombiana alle autorità italiane nel 2022 si legge che «​​attraverso le esportazioni effettuate dalla C.I. BANACOL S.A.S. mediante spedizioni di frutta, dal 2014 circa, sostanza stupefacente “cocaina” è stata trasportata in diversi Paesi europei, tra cui l’Italia».

Secondo liste di sequestri ricostruite dal progetto #NarcoFiles, almeno a partire dal 2009 è stata trovata cocaina nascosta in spedizioni in partenza dalle banchine Banacol dei porti di Zungo e Nueva Colonia, entrambi dipendenti dalla capitaneria di Turbo.

La capitaneria di Turbo controlla infatti quattro porti, di cui due, Zungo e Nueva Colonia appunto, sono gestiti da Banacol. Si tratta di porticcioli, con alcune banchine appena, collegati per mezzo di canali agli oltre 300 chilometri di costa del golfo di Urabá. Da questi piccoli porti, distanti circa un’ora dalla città di Turbo, i container vengono caricati su chiatte, e da lì sulle bananiere che passano il canale di Panama dirette verso l’Europa.

Analizzando documenti giudiziari, emerge che due container di banane spediti da Banacol alla multinazionale di frutta Dole sono stati sequestrati al porto di Gioia Tauro, in Calabria, nel novembre 2019, a una settimana di distanza l’uno dall’altro, perché carichi di cocaina. Nel primo caso, quasi 1.200 chili di cocaina erano stati occultati all’interno delle scatole di banane collocate nelle ultime file del container. La droga, nonostante i destinatari precisi siano per il momento ignoti, sarebbe dovuta arrivare alla ‘ndrangheta.

Diversi elementi rivelano che le banchine di Banacol a Turbo sono oggetto di molteplici tentativi di contaminare i carichi in partenza con la polvere bianca. Nel 2020, l’autista di un camion è stato fermato con quasi 300 chili di cocaina nascosta negli scatoloni delle banane «al molo del Terminal Portuale n. 2 di Urabá (controllato dalla società esportatrice di banane “Banacol”)», si legge in un’informativa della polizia giudiziaria colombiana. Nello stesso anno, un agente della narcotici, ha dichiarato in un rapporto di essere stato ripetutamente «avvicinato dalle forze di pubblica sicurezza e dal personale esterno del porto di Urabá Banacol affinché collaborasse con il gruppo criminale che cerca di portare i narcotici nei container, contaminando il carico di banane legali che parte per i porti europei».

Foto del porto di Turbo (Colombia), snodo cruciale per il trasporto su acqua dei prodotti Banacol.

L’autorità portuale di Turbo controlla anche i piccoli porti fluviali di Zungo e Nueva Colonia, entrambi gestiti da Banacol.

I tentativi di infiltrare spedizioni legittime non avvengono solo sulle banchine. Nel 2019, durante un controllo a un container su una nave alla fonda nel porto di Bahia Colombia, la Guardia Costiera apre un container già chiuso dal sigillo dell’azienda proprietaria della merce, Banacol. All’interno, accanto agli scatoloni di banane, ci sono tre pacchetti contenenti una polvere bianca pressata e un sigillo di sicurezza esattamente identico e con lo stesso numero di quello appena aperto per entrare nel container. Segno che dopo che le banane erano state caricate e il container sigillato da Banacol, qualcuno, in possesso di un sigillo contraffatto esattamente identico, era entrato, aveva caricato la cocaina, e poi aveva richiuso il container.

Supermercati e politica

Nonostante la presenza di evidenti segnali di pericolo nella catena di approvvigionamento delle banane colombiane, le esportazioni verso l’estero non ne hanno mai risentito. Secondo l’Observatory of Economic Complexity, nel 2021 la Colombia è stato il quarto esportatore mondiale di banane, per un valore di oltre un miliardo di dollari. I principali compratori sono stati il Belgio, gli USA, il Regno Unito, l’Italia e la Germania. Nel nostro Paese le importazioni di banane colombiane sono cresciute da 99,5 milioni di dollari nel 2018 a 111 milioni di dollari nel 2021. Secondo i dati dell’associazione colombiana di categoria Augura, nel 2022 quasi il 60% di tutte le banane della Colombia sono state prodotte in Urabá. Nella regione, Banacol è il quarto maggior esportatore.

In Italia, i dati commerciali mostrano che la maggior parte delle spedizioni provenienti da Banacol sono arrivate a una società registrata alle Bermuda, Transfrut Express Limited. Secondo documenti contenuti nei Paradise Papers – un leak di informazioni societarie provenienti dalla società di servizi offshore Appleby – Transfrut ha come azionista Dole Fresh Fruit International. Altre spedizioni di Banacol verso l’Italia sono state ricevute da Tropical Fruit Europe LLC, un’azienda registrata nel Nord Carolina (Stati Uniti), il cui proprietario è Dole Food Company, Inc.

La maggior parte delle spedizioni provenienti da Banacol in Italia, dunque, sono arrivate a Dole, una delle più grandi multinazionali produttrici di frutta. In molti supermercati di tutta Europa si trovano banane Banacol a marchio Dole. L’azienda non ha mai risposto direttamente alle domande di IrpiMedia. A vendere banane Dole di origine colombiana sono i maggiori supermercati italiani: Coop, Esselunga, PAM Panorama, Lidl. In un documento del 2023, Lidl indicava fra i suoi fornitori di secondo livello nel Regno Unito anche Banacol. Alla richiesta di commento di IrpiMedia, Lidl Italia ha risposto, spiegando: «Una parte delle banane vendute nei nostri punti vendita proviene dall’azienda Dole che abbiamo immediatamente contattato chiedendogli una dichiarazione su questo tema. Dole respinge tutte le accuse e ci tiene a precisare che Banacol sottoscrive annualmente il Codice di Condotta di Dole».

Anche Esselunga, dopo essere stata contattata dalla nostra redazione, ha chiesto un commento direttamente a Dole. «Il rapporto commerciale tra Dole con Banacol ha avuto inizio anni dopo la tempistica dei presunti pagamenti ai gruppi paramilitari in Colombia. Altresì è importante evidenziare che Banacol non è mai stata coinvolta in alcun procedimento legale relativo tale questione. Separatamente, anche contro Dole sono state mosse accuse di presunti pagamenti a gruppi paramilitari in Colombia. Tutte queste affermazioni si sono rivelate infondate e sono state di fatto saldamente respinte in tutti i tribunali che hanno esaminato tali dichiarazioni», ha dichiarato l’azienda di frutta, senza entrare nel merito del problema del narcotraffico.

Il gruppo PAM ha invece precisato che le loro banane provengono da Africa ed Ecuador, e solo nel 2023 «per motivazioni legate ai trasporti e condizioni climatiche», Dole ha consegnato loro banane colombiane, per una percentuale «inferiore al 2% sul totale consegnato». Coop non ha risposto alle nostre domande.

Chi controlla Banacol

La struttura societaria di Banacol, tra Belize, Spagna, Colombia e Isole Vergini Britanniche

Sebbene Banacol faccia affari con i maggiori marchi di frutta al mondo, sapere chi la possiede è praticamente impossibile. La proprietà dell’azienda, infatti, si nasconde dietro una fitta rete di aziende offshore. Dai documenti societari consultati dai reporter di #NarcoFiles, emerge che da marzo 2023 Banacol è posseduta dalla colombiana Agrogreenland (negli anni si sono succedute altre holding colombiane), a sua volta posseduta da Greenland Investments. La maggioranza di Greenland è di una azienda delle Isole Vergini Britanniche, la Invesmar, che ha trasferito una filiale a Madrid, cambiandole nome in Greenplus Investments. Alla fine della catena societaria siede Invesmar International Investments, con sede in Belize, uno Stato in cui le informazioni su chi possiede una società non sono pubbliche. Per quanto sconosciuta, Greenland Investments è molto attiva nel finanziare le campagne elettorali di numerosi politici colombiani.

Nel 2022 ha donato 75 milioni di pesos (quasi 17 mila euro) per la campagna presidenziale del candidato conservatore, poi sconfitto, Federico “Fico” Gutierrez. Diverse altre donazioni sono andate a candidati per il congresso. Qualche settimana fa, Greenland ha finanziato di nuovo “Fico” Gutierrez, uscito stavolta vittorioso dalle elezioni a sindaco per la città di Medellín, e la deputata Veronica Arango. Molti di questi politici sono legati al partito Centro Democratico dell’ex presidente Alvaro Uribe, da tempo accusato di avere connessioni con i paramilitari e di aver beneficiato dei loro finanziamenti. Fra le imprese che hanno avuto fino a marzo 2023 quote di minoranza di Greenland c’è La Hacienda, azienda colombiana il cui rappresentante è Jaime Alberto Ortiz Franco, un personaggio menzionato in diverse inchieste sul paramilitarismo. Raúl Hasbún, l’imprenditore-paramilitare fautore dell’accordo fra AUC e imprenditori delle banane, lo ha indicato come uno dei bananieri che finanziava il suo “Bloque”. Banacol non ha risposto alla richiesta di commento inviata dai giornalisti.

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Autori

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Ha collaborato

Occrp
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Lorenzo Bodrero

Foto di copertina

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