#NarcoFiles

Banane e cocaina, l’antica alleanza tra Clan del Golfo e ‘ndrangheta
La più longeva alleanza fra diverse mafie è quella fra il Clan del Golfo colombiano, nato dagli ex-paramilitari delle AUC, e le ‘ndrine della Locride. Ancora oggi trafficano coca usando le banane come copertura
08 Novembre 2023

IrpiMedia
Voragine

«Se c’è bisogno parlo con un amico mio e gli facciamo la festa se parla troppo». Il messaggio è del 5 gennaio 2021, e passa per una chat criptata. Viene dal Brasile, da quello che all’epoca era uno dei latitanti più ricercati del mondo, Rocco Morabito. Il canale di comunicazione, che i partecipanti credono sicuro, è dedicato all’organizzazione di una grossa importazione di cocaina dal porto di Turbo (Colombia). Milioni di euro in ballo sia come investimento iniziale, che come profitti promessi. Con queste cifre, e questi soggetti, è meglio non scherzare.

Specialmente quando poi le minacce vengono da uno come Rocco Morabito, uno dei maggiori narcotrafficanti della ‘ndrangheta. Un nome di peso: broker abilissimo, con alleanze storiche con le più potenti organizzazioni di narcos dell’America Latina, dal Primeiro Comando da Capital in Brasile al Clan del Golfo in Colombia, fino al cartello di Sinaloa in Messico. Ha contatti con trafficanti di droga e armi in Medio Oriente, nonché entrature in tutti i porti d’Europa. Ma soprattutto, lavora per uno dei più potenti clan di ‘ndrangheta di sempre, i Morabito alias Tiradrittu di Africo, colonna portante del mandamento Ionico della ‘ndrangheta. Insomma, essere minacciati da Tamunga, nomignolo che origina dalla sua passione per un vecchio fuoristrada tedesco, il Munga della Dkw, non è cosa da prendere alla leggera. La ‘ndrangheta però, la violenza la usa solo quando strettamente necessaria, e la maggior parte delle volte basta il nome a risolvere gli screzi. Da Belo Horizonte a Antioquia, dei Morabito basta l’eco.

L'inchiesta in breve
  • L’alleanza tra paramilitari di Urabá, in Colombia, e la ‘ndrangheta calabrese inizia più di trent’anni fa ma resta solidissima. Cambiano i nomi delle organizzazioni, ma restano saldi gli affari che riempiono l’Europa di cocaina
  • Le indagini Eureka e Tre Croci hanno dimostrato come due dei narcotrafficanti più pericolosi e legati al clan Morabito di Africo abbiano trafficato nel 2020 e 2021 tonnellate di cocaina acquistate dal Clan del Golfo e partite dal porto di Turbo
  • Tra i broker che hanno lavorato con il Clan del Golfo ci sono Rocco Morabito, all’epoca latitante in Brasile, e Bartolo Bruzzaniti, all’epoca basato in Costa d’Avorio. Entrambi prediligevano lavori “ditta su ditta”, utilizzando carichi di banane per nascondere la polvere bianca
  • Incrociando i dati del leak della Procura Generale Colombiana ottenuti da #NarcoFiles con fonti open source in Colombia e Europa, IrpiMedia con Occrp e Voragine ha potuto dimostrare come alcuni dei principali carichi organizzati dai broker della ‘ndrangheta di Africo viaggiavano in carichi di banane dell’azienda Banacol
  • L’azienda non risulta essere stata indagata, forse anche per difficoltà oggettive non essendo al momento possibile capire chi siano i titolari effettivi, protetti dietro giurisdizioni offshore come il Belize
  • Le banane di Banacol sono distribuite da Dole in tutta Europa. In Italia possono essere trovate in molti dei maggiori supermercati come Lidl, Coop, Esselunga

È un’eco che origina da un’alleanza stretta più di trent’anni fa, forse il primo “super-cartello” della storia della criminalità organizzata. Lo testimonia Salvatore Gomez Mancuso detto El Mono (il biondo), capo delle ormai sciolte Autodefensas Unidas de Colombia, uno dei maggiori gruppi paramilitari del Paese, in un interrogatorio svoltosi nel 2019 ad Atlanta (Stati Uniti) alla presenza anche della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria. Caduti gli storici cartelli di Medellin e di Cali, le AUC erano diventate i maggiori produttori di cocaina al mondo. Fra la fine degli anni Novanta e gli inizi del nuovo millennio hanno rapporti con i più abili broker della ‘ndrangheta quali Santo Scipione (basato proprio a Medellin fino alla recente morte nel 2019), Roberto Pannunzi e Natale Scali.

Racconta Mancuso che all’inizio del millennio le ‘ndrine del mandamento ionico, ovvero quelle di Platì, San Luca e Africo, assieme ai Mancuso di Limbadi, vogliono creare un’alleanza speciale tra loro e i paramilitari delle AUC. Natale Scali viene mandato come ambasciatore: i calabresi chiedono di poter avere l’esclusiva per il mercato europeo di tutta la coca prodotta dalle AUC. L’accordo non viene finalizzato, perché i paramilitari preferiscono avere «mano libera sulla scelta degli acquirenti», ma la ‘ndrangheta verrà comunque trattata con un occhio di riguardo.

NarcoFiles: il nuovo ordine criminale

NarcoFiles è la più vasta inchiesta giornalistica sul narcotraffico mai realizzata. Inizia con l’accesso a un leak di e-mail senza precedenti dall’Ufficio della Procura Generale della Colombia. I dati sono stati consegnati dagli hacker ai centri di giornalismo e media Organized Crime and Corruption Reporting Project (Occrp), Centro Latinoamericano de Investigación Periodística (CLIP), Vorágine e Cerosetenta / 070. All’inchiesta hanno lavorato più di 40 media e giornalisti di 23 Paesi in America Latina, Europa e Stati Uniti. A partire dagli indizi trovati all’interno del leak, e sviluppando i temi incrociando i dati con ricerche indipendenti, i giornalisti del consorzio hanno portato avanti decine di inchieste che rivelano i diversi modi in cui i gruppi di criminalità organizzata si evolvono, si espandono e sperimentano nel mondo di oggi, mietendo nuove vittime lungo il percorso

È grazie a questo patto che Rocco Morabito, rimasto latitante in America Latina dal 1994 fino al 2017, e poi ancora dalla sua evasione di galera nel 2019 fino all’arresto definitivo a maggio 2021, ha esportato per trent’anni cocaina colombiana lavorando sia dalla Colombia che dal Brasile. Dopo essere riuscito a fuggire dal carcere di Montevideo, si era rimesso subito al lavoro, restando nascosto in Brasile. In quel periodo, svela la recente indagine Eureka, si sarebbe avvalso della collaborazione di un parente letteralmente dall’altra parte del mondo, in Costa d’Avorio. Si tratta di Bartolo Bruzzaniti, che aveva fatto di Abidjan la propria casa.

Nell’indagine Eureka sono confluiti vari filoni, portati avanti dalla Direzione Distrettuale Antimafia (Dda) di Reggio Calabria, dalla Dda di Milano e dalla Dda di Genova. L’insieme di questi filoni, ha aiutato i giornalisti di #NarcoFiles a ricostruire questa storia. IrpiMedia ha provato a contattare i legali sia di Bruzzaniti che di Morabito, ma senza ricevere risposte.

Bartolo Bruzzaniti, imprenditore in Costa d’Avorio

Bruzzaniti è una vecchia conoscenza di IrpiMedia. Nel 2015, pubblicati da l’Espresso, avevamo scritto come Bruzzaniti avesse scontato una condanna per narcotraffico in modo particolare. Bruzzaniti infatti, nel novembre 2011, comincia a scontare le pene alternative al carcere come impiegato in un’azienda di biocarburanti di proprietà della moglie. Poco dopo, un’azienda di biocarburanti del vercellese (implicata nello scandalo rifiuti Ama in Senegal) contratta Bruzzaniti per gestire una fabbrica di olio di palma di Dabou, a 50 km da Abidjan. In Costa d’Avorio Bruzzaniti ci si trasferisce con tutta la famiglia, apre una succursale dell’azienda di biocarburanti e con il fratello Antonio apre anche una import-export e la catena di ristoranti Pasta & Pizza, gestita poi dal fratello assieme ad un libanese.  Quest’ultimo è stato accusato, a giugno 2022, di far parte di un gruppo di imprenditori che, con la complicità di attori istituzionali, avrebbe importato in Costa d’Avorio due tonnellate di cocaina, sequestrate ad aprile 2022. Un anno dopo, a luglio 2023, Bruzzaniti è stato arrestato proprio in Libano.

Bartolo, Tamunga, paramilitari e serbi

Come hanno ricostruito i carabinieri di Locri, a marzo 2020 Bartolo Bruzzaniti viene invitato da Rocco Morabito a partecipare all’organizzazione di carichi di cocaina nascosti in banane da Turbo. Sul tavolo, Bruzzaniti deve portare i suoi contatti al porto di Gioia Tauro, Tamunga quelli con il Clan del Golfo. Non è semplice però per Morabito andare di persona in Colombia, del resto è uno degli uomini più ricercati al mondo. Si appoggia quindi a un gruppo serbo di fiducia, che a Medellin può garantire economicamente per lui. A dirigere il gruppo è Srdan Durasovic, un fedele collaboratore di Morabito che per lui mantiene i contatti con i fornitori colombiani. Ma Durasovic è molto di più di un tramite: secondo gli inquirenti è stato un vero socio e basista per la fuga di Tamunga, sia nascondendolo nel suo ristorante italiano di Montevideo, sia ricevendo i fondi per la latitanza da parte dei parenti calabresi, compreso lo stesso Bruzzaniti.

Il contatto dentro il Clan del Golfo portato da Durasovic, è invece un tale Peke Negro. «Rappresenta i paramilitari, fa i lavori per loro, controlla i porti», scrive Durasovic ai soci calabresi, aggiungendo: «Hanno la fabbrica, comandano a Turbo». Peke Negro parla direttamente coi calabresi, in chat. A loro racconta di avere una «finca» (fattoria, per la coltivazione della coca) e una «raffineria», e manda foto di piante di coca e del processo di raffinazione della pasta base. Peke Negro interviene anche sulla logistica, suggerisce di importare usando lo schermo di una spedizione legale fra due aziende sotto il loro controllo: «Ditta a ditta» la definisce, e per quanto riguarda quella europea da usare è «meglio se compra già in Colombia, banane», ottime quelle bio raw.

Foto del porto di Turbo (Colombia), snodo cruciale per il trasporto su acqua dei prodotti Banacol. L’autorità portuale di Turbo controlla anche i piccoli porti fluviali di Zungo e Nueva Colonia, entrambi gestiti da Banacol

Le conversazioni però, che avvenivano tutte cifrate sul sistema SkyEcc, si interrompono. Per gli inquirenti diventa così impossibile tracciare le spedizioni precise importate dall’alleanza Bruzzaniti-Tamunga, che con tutta probabilità sono finite per arrivare in Europa con successo, contribuendo a rafforzare l’alleanza e la ricchezza dei clan.

L’unica traccia che lega nuovamente Turbo ai serbi e al gruppo di Tamunga arriva un anno, e vari cambi di cellulari cifrati, più tardi. I narcos calabresi questa volta sono in contatto con un nuovo gruppo di serbi a cui Tamunga è arrivato grazie a un narcotrafficante «giordano» detto «Don Ciccio» che il serbo descrive come «quello arrestato in Turchia». Secondo l’analisi di IrpiMedia, si tratterebbe di Waleed Issa Khamays, arrestato proprio in Turchia nel 2020. Quest’ultimo ha lavorato per oltre 30 anni fianco a fianco a Tamunga, prima da Milano e poi dal Brasile, facendo da cardine tra la ‘ndrangheta e il Primeiro Comando da Capital.

Duemila chili di cocaina nelle banane Banacol

Oggi, come Morabito, anche Bruzzaniti è stato preso. Solo 4 mesi fa a Jounieh, in Libano, è stato arrestato mentre era a cena in un ristorante di lusso. Le indagini Tre Croci della Guardia di Finanza Gruppo di Gioia Tauro e Eureka poi, ne tratteggiano un profilo da instancabile narcotrafficante, che gestisce una miriade di comunicazioni in contemporanea: con i portuali a Gioia Tauro, con i fornitori sudamericani, e con il fratello in Costa d’Avorio. Scrive in quattro lingue, italiano, spagnolo, francese e inglese. E spesso lavora anche di notte, «la notte la faccio giorno» dice, per assicurarsi che i carichi vengano organizzati bene dall’altra parte del mondo, in Colombia. Viene da Africo, nella Locride, ma tratta con tutti e si allea anche con il potente broker della Camorra Raffaele Imperiale (attivo in Olanda all’epoca). Non ci sono confini, geografici o culturali che siano. E questo suo savoir-faire gli vince il contatto con la più forte squadra di portuali corrotti di Gioia Tauro, che conta tra le file anche un doganiere.

Lo ha scoperto la prima indagine sulle squadre di portuali corrotti, Tre Croci appunto, che grazie alle chat di SkyEcc ha ricostruito il dietro le quinte delle grandi spedizioni di cocaina della ‘ndrangheta che dall’America Latina entrano a Gioia Tauro. Tra queste, la più significativa è proprio un carico del gruppo Bruzzaniti-Imperiale. Il container, sequestrato il 18 marzo 2021, conteneva banane dell’azienda Banacol e 2.226 chili di cocaina purissima. Il consorzio #NarcoFiles lo ha potuto confermare confrontando e incrociando informazioni del leak e informazioni contenute nelle misure cautelari del Tribunale di Reggio Calabria.

Banacol è il quarto maggior esportatore di banane colombiane, con sede a Medellin, nella regione di Urabá, dove si coltivano la maggior parte delle banane del Paese. È un’azienda enorme, con un intero scalo portuale privato presso il porto fluviale di Zungo e Antioquia, vicino a Turbo. Ha anche una struttura societaria particolarmente complessa e in continuo divenire ma sempre caratterizzata da una totale segretezza sugli azionisti della società. Quel che è certo, è che i manager Banacol hanno avuto comprovati rapporti con i paramilitari delle AUC in passato, e che alcuni container con banane spediti dall’azienda negli ultimi 14 anni sono stati sequestrati perché pieni di cocaina.

«Gli approdi fluviali di Zungo e Nueva Colonia fanno parte del porto di Turbo, e sono completamente gestiti da Banacol e da un’altra azienda di banane. Sugli imbarcaderi ci sono i magazzini con le scatole di banane pronte a essere caricate, e appena dietro agli imbarcaderi, le piantagioni. E sono porti facili da usare per chi ha già infiltrato la filiera delle coltivazioni di banane. Da lì i container vengono portati con delle chiatte fino in alto mare e lì vengono issati sulle portacontainer che aspettano in rada», spiega a IrpiMedia una fonte di polizia che ha indagato per anni sul narcotraffico in Urabá. «A Medellin, dove c’è la sede Banacol, non c’è nemmeno un vero e proprio ufficio logistico».

Una logistica complicata

È Bruzzaniti a tirare le fila dell’importazione della Colombia. Siamo agli inizi dell’avventura, e Bruzzaniti ha novità, ha trovato il contatto colombiano giusto per inviare grossi carichi usando la modalità ditta su ditta, considerata più sicura del “rip off” (ovvero borsoni nascosti nel container). Riferisce a Imperiale di avere inserito una nuova persona nella squadra, che dalla Colombia organizzerà per loro le spedizioni. «Compa abbiamo anche questa diretta da Turbo ma devo capire bene adesso. Quello che abbiamo messo in squadra si è sbilanciato ma sembra sicuro di quello che dice» e ovvero che ha l’entratura giusta e la cocaina si sarebbe caricata presso il «magazzino Cabana gruppo Dole».

In una immagine che uno dei portuali corrotti inviava ai complici, si possono vedere chiaramente le istruzioni arrivate (via Bruzzaniti) sul «magazzino che carica per noi» cioè il deposito compiacente che avrebbe consentito loro di occultare il carico di droga. Dall’immagine, si capisce tramite il codice EAN che si tratta di banane Banacol, che ha il codice 14071 (40 iniziale sta per Colombia).

Indicazioni su dove disporre le casse di banane contenenti i panetti di cocaina all’interno del container. Immagine estratta dall’ ordinanza di custodia cautelare del Tribunale di Reggio Calabria
Le istruzioni inviate da uno dei portuali corrotti ai sodali in merito al carico di banane in arrivo a Gioia Tauro. Immagine estratta dall’ ordinanza di custodia cautelare del Tribunale di Reggio Calabria
Panetti di cocaina adagiati sul fondo di una cassa di banane, pronti per essere coperti con la frutta. Immagini estratte dall’ ordinanza di custodia cautelare del Tribunale di Reggio Calabria

A questo punto, alla squadra di portuali calabresi, veniva inviata una foto che mostrava come sarebbero stati nascosti i panetti di cocaina tra le banane, e come poi posizionare il tutto nei container. I portuali, dal canto loro, mandavano degli schemi su come posizionare le casse all’interno del container, affinché a Gioia Tauro potesse passare senza problemi.

Le chat cifrate tra i portuali e Bruzzaniti permettono davvero di immergersi nel mondo dei narcotrafficanti internazionali. I portuali inviano al broker un esempio di container di banane che arrivavano a Gioia Tauro e che non vengono mai controllate (nemmeno con controllo sanitario), tutti con sigilli Banacol. Secondo le indicazioni del doganiere, sarebbero serviti dei container identici per inviarele due tonnellate di Bruzzaniti.

Il 23 dicembre 2020 Bruzzaniti spinge per partire, e chiede ai portuali di Gioia Tauro se sono pronti: «Cumpa cortesemente fatemi sapere se procediamo per altro lavoro che è tutto pronto per domani». Bruzzaniti vuole dividere i 2.000 chili in due container da far viaggiare in contemporanea, ma il doganiere a Gioia Tauro lo sconsiglia. O uno solo, o due in due momenti diversi. Bruzzaniti spiega però che la sua organizzazione ha il permesso di spedire la cocaina dal porto di Turbo solamente in quella specifica settimana, e per questo non avrebbero potuto frazionare la partita in due momenti diversi. Secondo gli inquirenti, questo elemento suggerisce che l’organizzazione di Bruzzaniti avesse «una sorta di “lasciapassare” dai cartelli che controllavano lo scalo portuale di Turbo, utile a servirsi di quell’area per l’intera settimana», come se il Clan del Golfo preveda delle finestre di tempo specifiche per ogni cliente o socio.

A Gioia Tauro, nel frattempo, i portuali sono preoccupati per via dei molti sequestri che si stanno facendo al loro scalo. Secondo loro ci sono «troppe persone che mandano qua [a Gioia Tauro]». L’affollamento dei carichi su questa rotta è un problema anche per i trafficanti stessi. Bruzzaniti asserisce che «abbiamo anche cercato di stoppare i piccoli ma è un fiume in piena». Con i portuali di Gioia Tauro concordano che «gli albanesi sono dei kamikaze» perchè usano la modalità «rip off» e quindi i carichi rischiano di più, mentre la modalità usata da Bruzzaniti a Turbo, sarebbe stata sicura.

Commentando i sequestri avvenuti, Bruzzaniti spiega che al porto di Turbo gli unici affidabili sono coloro che trattano da duemila chili in sù. «Compà con gente apposto da lì non partono 500/1000 dovete parlare di duemila in su». Mentre gli altri si «vendono a vicenda», questi secondo Bruzzaniti “controllano” il porto di Turbo, che, anche per lui evidentemente «è casa nostra [..] sono amici da 25 anni».

La spedizione, probabilmente a causa delle preoccupazioni sui sequestri, viene rinviata ancora. Due mesi dopo, a febbraio 2021, il problema dei controlli appare invece sul lato Colombiano. Bruzzaniti e Imperiale hanno appena ricevuto un messaggio dal loro contatto a Turbo, e devono valutare come procedere. La polizia sta controllando l’80% dei container e ci sono stati sequestri. In più, dice il contatto, «ci sono altri due gruppi che hanno chiesto di usare la stessa impresa», ma “gli amici” hanno detto di no perché preferiscono lavorare con Bruzzaniti e Morabito.

Finalmente, il 23 febbraio 2021 il contatto colombiano fa sapere che a Turbo sono pronti, e che adesso serve solo portare i soldi da Medellin per pagare chi ha organizzato il carico.

Il colombiano chiede poi a Imperiale se vogliono fare lavori su Rotterdam dove loro hanno ottime entrature. «Abbiamo un ottimo sistema ditta su ditta» dice, «abbiamo la frutta di Dole sulle navi di Dole. Abbiamo un controllo molto buono: possiamo mandare pedane dove vogliamo e loro controllano solo il 5% delle pedane». Il sistema però è riservato ad acquirenti grossi: « Il minimo è 4 tonnellate» spiega.

Un murales dedicato a Pablo Escobar a a Medellin (Colombia) – Foto: Raul Arboleda/Getty
Armi e 500 Kg di cocaina sequestrati dalla polizia colombiana a Medellin (Colombia) nel 2008 – Foto: Raul Arboleda/Getty

Due giorni dopo Mario comunica che «il lavoro è fatto», ovvero il container è stato “contaminato” (ovvero la cocaina è stata nascosta tra le banane), e che la nave è pronta a partire.

Il carico, che viaggia sul container SZLU9126219, un refrigerato da 40 piedi, parte da Turbo per giungere a Gioia Tauro diretto a una ditta di frutta esotica di Catania. La cocaina dovrà essere poi recuperata dai portuali corrotti, a Gioia Tauro.

Mentre il container è in viaggio però, l’8 marzo 2021, i narcos vengono a sapere che SkyEcc – il sistema di telefoni cifrati che utilizzavano fino a quel momento – era stato hackerato dalla polizia. I trafficanti, immediatamente, spariscono. Arrivato al porto, il container non viene toccato. «Si può quindi ipotizzare che i sodali abbiano deliberatamente scelto di sospendere l’attività, evitare il coinvolgimento del funzionario doganale infedele e – di fatto – abbandonare il container appena sbarcato al proprio destino», scrive il giudice per le indagini preliminari nella richiesta di misure cautelari.

Banacol, dal 2009

Secondo le liste di sequestri che #NarcoFiles ha potuto visionare, inoltre, almeno dal 2009 le autorità colombiane hanno effettuato sequestri di cocaina nascosta in spedizioni in partenza dalle banchine Banacol. In una recente rogatoria internazionale presentata dalla Procura colombiana alle autorità italiane si legge che «​​attraverso le esportazioni effettuate dalla C.I. Banacol s.a.s. mediante spedizioni di frutta, dal 2014 circa, sostanza stupefacente “cocaina” è stata trasportata in diversi Paesi europei, tra cui l’Italia». Dall’analisi di documenti allegati, emerge che due container di banane spediti da Banacol a Dole Europe sono stati sequestrati al porto di Gioia Tauro nel novembre 2019, a una settimana di distanza l’uno dall’altro, entrambi carichi di polvere bianca. Secondo la rogatoria, la droga, era destinata alla ‘ndrangheta.

Non c’è alcuna prova che Banacol sia a conoscenza della cocaina nascosta tra i carichi delle proprie banane. Tuttavia è fuor di dubbio che le banchine dell’azienda a Turbo siano uno dei porti d’imbarco più presi di mira dai trafficanti colombiani. Nel 2020, l’autista di un camion è stato fermato con quasi 300 chili di cocaina nascosta negli scatoloni delle banane «al molo del Terminal Portuale n. 2 di Urabá (controllato dalla società esportatrice di banane “Banacol”», si legge in un’informativa della polizia giudiziaria colombiana. Nello stesso anno, una fonte di polizia riferisce di essere stato «avvicinato dalle forze di pubblica sicurezza e dal personale esterno del porto di Urabá Banacol affinché collaborasse con il gruppo criminale che cerca di portare i narcotici nei container, contaminando il carico di banane legali che parte per i porti europei».

Il monitoraggio e i controlli al porto di Gioia Tauro, dove arrivavano i container con banane e cocaina del gruppo di Bartolo Bruzzaniti, da parte della Guardia di finanza

I tentativi di infiltrare spedizioni legittime non avvengono solo sulle banchine. Nel 2019, durante un controllo a un container su una nave alla fonda nel porto di Bahia Colombia, la Guardia Costiera apre un container già chiuso dal sigillo dell’azienda proprietaria della merce, Banacol. All’interno, accanto agli scatoloni di banane, ci sono tre panetti di cocaina e un sigillo di sicurezza esattamente identico e con lo stesso numero di quello appena aperto per entrare nel container. Segno che dopo che le banane erano state caricate e il container sigillato da Banacol, qualcuno, in possesso di un sigillo contraffatto, era entrato, aveva caricato la cocaina, e poi aveva richiuso il container.

«Le banane sono fondamentali per spedire la cocaina perché sotto lo scanner doganale questa si confonde molto bene con le scatole di banane. Per questo motivo, i trafficanti tendono a non utilizzare altre merci, come il legname, dove la cocaina è più facile da individuare», spiega a IrpiMedia una fonte esperta di porti.

A utilizzare certamente Banacol negli anni sono stati anche altri broker della ‘ndrangheta. A febbraio 2011, il famoso narcotrafficante si San Luca Bruno Pizzata, organizzava proprio con i paramilitari del Clan del Golfo una spedizione di banane e cocaina da Turbo. Il container era stato inviato da Banacol, aveva fatto tappa a Santa Marta, e aveva proseguito fino a Anversa. Alcuni anni dopo, nel 2016, gli Aquino di Maasmechelen hanno ricevuto carichi di cocaina in banane Banacol al porto di Anversa. Una pratica, quella di usare carichi di banane di Urabá, che gli Aquino hanno proseguito fino almeno a gennaio 2022, anche se non è stato possibile ricostruire con certezza quali aziende bananiere siano legate ai carichi post 2016.
Gli Aquino sono una famiglia di narcotrafficanti di origine calabrese basata in Belgio, a Maasmechelen, che lungo il confine Belgio-Olanda ha creato un impero del narcotraffico.

Nell’ambito di un’indagine della procura federale del Limburgo, a fine settembre 2020 viene arrestato Lucio Aquino, il secondo di sei fratelli, con l’accusa di aver importato quasi sette tonnellate di cocaina sequestrate presso il porto di Anversa a ottobre del 2019. Il carcere però non ferma Aquino, che dalla cella mantiene i contatti grazie ad un criptofonino. Di queste sette tonnellate, al momento non si può sapere di più perché le indagini continuano. Ma stando alle prime misure cautelari, Aquino sarebbe stato in contatto diretto con i paramilitari del Clan Golfo. In una chat, parlando dei rapporti mantenuti con i fornitori di cocaina colombiani, Aquino dice «Sono colombiani del clan del Golfo, Enrique è il padrone (…) lo conosciamo in persona noi». In un’ altra chat, uno dei fornitori chiarisce la sua appartenenza: «La famiglia di mia moglie sono del clan del Golfo (…) mandano per la costa di Panama da tutti i lati (…) Turbo è la nostra casa».

Il peso sociale del traffico di cocaina da Clan del Golfo a ‘ndrangheta

Grazie alle indagini della Procura colombiana e di alcune procure italiane come Reggio Calabria, Milano e Genova si è riusciti ad analizzare almeno la punta dell’iceberg del traffico che unisce la Colombia, e in particolare la zona di Urabá, alla ‘ndrangheta. In molti casi, i trafficanti sono riusciti a portare a buon fine l’operazione di import-export e non si è pertanto riusciti ad avere informazioni precise sul numero di container, sulle aziende utilizzate per i carichi di copertura e su tutti gli attori coinvolti. Ma c’è un pattern che unisce una serie di esportazioni organizzate da gruppi diversi, hanno tutte in comune tre elementi: l’alleanza ormai trentennale tra paramilitari di Urabá e ‘ndrangheta, l’uso di tecnologia di criptazione, le aziende bananiere di Urabá come spedizioniere.

Dei moltissimi carichi di cocaina nascosti in carichi di banane di Urabá e arrivati a Gioia Tauro o altri porti italiani e europei, solo una piccolissima parte viene sequestrata. Ma i numeri, sempre in crescita, dei sequestri danno un idea di quanto il traffico sia ampio.
A Gioia Tauro «dal 2020 ci sono stati circa 150 sequestri e da gennaio 2021 a settembre 2023 sono state sequestrate oltre 38 tonnellate di cocaina», ha spiegato a IrpiMedia il Procuratore Capo della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri.

Ma è una goccia nell’oceano. Sono moltissimi i carichi di cocaina che riescono comunque a passare, e che finiscono nelle mani delle ‘ndrine calabresi che distribuiscono lo stupefacente in tutta Europa. Migliaia di chili di cocaina, che corrispondono a milioni di euro guadagnati ogni mese, miliardi e miliardi ogni anno. Facendo un rapido calcolo, solo i 2.226 chili di cocaina trafficati da Bruzzaniti con il container spedito da Banacol, avrebbero fruttato 66 milioni di euro per la ‘ndrangheta, a fronte di un investimento di circa sei milioni. Enormi profitti che si muovono sotto traccia: una parte torna in America Latina per pagare altri carichi, mentre una parte entra nel sistema economico europeo, tramite il riciclaggio di capitali nella finanza, nell’immobiliare, nell’imprenditoria e nella corruzione delle istituzioni. Le conseguenze sociali sono pesantissime, per quanto difficili da tratteggiare, sia in Europa che in Colombia.

CREDITI

Autori

IrpiMedia
Voragine

Ha collaborato

Occrp
De Tijd
Knack Magazine

Infografiche & Mappe

Lorenzo Bodrero

Foto di copertina

Occrp