#NarcoFiles

Cocaina dappertutto. L’espansione della produzione fuori dalle Ande
Con la fine del controllo esercitato da FARC e paramilitari, la produzione della cocaina arriva fino in America Centrale. E anche l’Europa si riempie di laboratori di raffinazione della polvere bianca
10 Novembre 2023

Jonny Wrate
David Espino
Jody García
Angélica Medinilla
Enrique García
Víctor Méndez
Arthur Debruyne
Yelle Tieleman
Brecht Castel
Juanita Vélez

Lo scorso febbraio, la polizia colombiana intercetta la sorprendente telefonata di un narcotrafficante di Bogotà con un cliente messicano. Il colombiano, infatti, invece di parlare come al solito dell’organizzazione di viaggi, porti e carichi di copertura, si vanta che «c’è un sacco di prodotto disponibile, già pronto a Denver, Miami o nei Caraibi». Solo dieci anni fa, una logistica del genere sarebbe stata impensabile. La cocaina, questo il prodotto di cui parla il narcos al telefono, avrebbe dovuto arrivare dalla Colombia, maggiore produttore mondiale, o dalle uniche altre regioni in cui è sempre cresciuta la foglia di coca, quelle andine fra Perù e Bolivia.

I tempi però sono cambiati. La cocaina, dice il trafficante al telefono, è stata infatti prodotta in Guatemala, un paese oltre duemila chilometri a nord della Colombia, fino a oggi sempre stato solo un punto di passaggio lungo le rotte per il Nord America. La coca piantata lì, invece, ha «dato buoni risultati» spiega l’uomo intercettato al suo socio. «Cento scatole di scarpe bianche di lusso», dice, riferendosi al nome in codice dei chili di cocaina, «e i “cuochi” sono pronti a iniziare a raffinarla in Guatemala e Messico».

Questa conversazione, recuperata nel leak della procura colombiana alla base del progetto #NarcoFiles, offre un esempio di un fenomeno importante, e ancora relativamente poco noto: la delocalizzazione della produzione di cocaina fuori dal suo alveo tradizionale, la regione andina del Sud America, verso i Paesi dell’America Centrale.

L'inchiesta in breve
  • La coltivazione delle piante di coca si sta spostando dalle regioni tradizionali verso l’America Centrale, sostituendo sia le coltivazioni legali che quelle illegali di marijuana e oppio
  • Le informazioni raccolte dal team di #NarcoFiles mostrano che soprattutto Messico, Guatemala e Honduras sono i Paesi più colpiti da questo fenomeno
  • I narcotrafficanti colombiani stessi stanno spingendo per questa espansione, sia nelle Americhe che oltreoceano. In Europa infatti cominciano a comparire decine di laboratori per la raffinazione della cocaina, spesso gestiti da “cuochi” colombiani
  • Con il moltiplicarsi dei produttori e dei compratori, il mercato internazionale della cocaina si complica, con nuove rotte, nuove tecniche di trasporto e nuovi gruppi di criminalità organizzata che guadagnano potere e influenza

Di tentativi del genere, fatti da gruppi di trafficanti, si parla già da anni. Poter coltivare la coca più vicino ai luoghi dove si vende, infatti, ha grandi vantaggi economici e logistici, ma fino agli ultimi anni la delocalizzazione non aveva veramente preso piede. Oggi però il mercato è cambiato: dopo lo scioglimento, almeno formale, dei paramilitari delle AUC (Autodefensas Unidas de Colombia) e l’accordo di pace del 2016 fra i guerriglieri delle FARC (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia) e il governo colombiano, le decine di piccoli gruppi che producevano cocaina “sotto contratto” per una di queste due grandi organizzazioni sono diventati improvvisamente freelance. Questo significa non solo che sono liberi di vendere a chi vogliono, ma soprattutto che possono mettere in pratica tutte le idee a cui evidentemente pensavano da anni, e che però andavano contro il regime di “oligopolio” che ha dominato il narcotraffico colombiano per anni.

Proprio l’intercettazione in cui si parla di cocaina coltivata in Guatemala fa parte di un’indagine su una cellula criminale fuoriuscita dalle FARC.

Oltre alla coltivazione delle piante, anche la raffinazione della cocaina sembra spostarsi sempre di più fuori dalla Colombia. Addirittura oltreoceano, e specialmente in Europa, dove sono state trovate dozzine di laboratori.

NarcoFiles: il nuovo ordine criminale

NarcoFiles è la più vasta inchiesta giornalistica sul narcotraffico mai realizzata. Inizia con l’accesso a un leak di e-mail senza precedenti dall’Ufficio della Procura Generale della Colombia. I dati sono stati consegnati dagli hacker ai centri di giornalismo e media Organized Crime and Corruption Reporting Project (Occrp), Centro Latinoamericano de Investigación Periodística (CLIP), Vorágine e Cerosetenta / 070. All’inchiesta hanno lavorato più di 40 media e giornalisti di 23 Paesi in America Latina, Europa e Stati Uniti. A partire dagli indizi trovati all’interno del leak, e sviluppando i temi incrociando i dati con ricerche indipendenti, i giornalisti del consorzio hanno portato avanti decine di inchieste che rivelano i diversi modi in cui i gruppi di criminalità organizzata si evolvono, si espandono e sperimentano nel mondo di oggi, mietendo nuove vittime lungo il percorso

Per comprendere meglio questa evoluzione, i giornalisti del progetto #NarcoFiles hanno incrociato le informazioni provenienti dal leak con documenti giudiziari da diversi Paesi del Centro e Sud America, nonché con fonti anche interne al mondo dei trafficanti. Nonostante parte della produzione e della raffinazione si stia spostando fuori dalla Colombia, i narcos colombiani rimangono fondamentali per il traffico di cocaina, grazie alla loro expertise tecnica e chimica.

E più i laboratori si spostano oltreoceano, più cresce il ricorso a complesse tecniche di trasporto – come quella (già utilizzata in passato) di impregnare prodotti tessili con cocaina liquida da estrarre a fine trasporto – che rendono i carichi ancora più difficili da tracciare.

Il narcotraffico sta attraversando una «fase di innovazione», sostiene Leonardo Correa, coordinatore del SIMCI (Sistema integrato di monitoraggio delle Coltivazioni Illecite) delle Nazioni Unite. Il risultato è che una fetta sempre più grande del traffico di droga si muove fuori dalle reti e dai cartelli noti, e sempre più gruppi di criminalità organizzata internazionale stanno guadagnando rilievo nel mercato globale della cocaina.

Secondo i dati del ministero dell’Interno del Guatemala, ottenuti tramite richieste di accesso agli atti, la produzione di coca è infatti schizzata alle stelle in pochissimi anni. La prima piantagione nel Paese era stata trovata appena cinque anni fa, nel maggio 2018. Nel giro degli ultimi anni ne sono state scoperte altre 216, quasi tutte nel nord-est del Paese. Nei vicini Honduras e Messico, le autorità stanno rilevando lo stesso fenomeno, e anche il Belize nel 2022 ha scoperto la sua prima piantagione autoctona di coca.

Le nuove frontiere della cocaina

Fra le dense foreste e le piantagioni di caffè della Costa Grande, nello stato messicano di Guerrero, il villaggio di El Porvenir a un primo sguardo sembra quasi abbandonato. Appena una dozzina di case, poche strade vuote e un campetto da pallacanestro lasciato ad arrugginire al sole sono tutto ciò che c’è da vedere. Tuttavia, è in questo villaggio sonnacchioso che passa oggi una delle frontiere dell’espansione del mercato della cocaina.

Le coltivazioni illecite, controllate dai cartelli locali, non sono cosa nuova. Qui per decenni le comunità locali hanno coltivato marijuana e papavero da oppio, accanto alle sementi più tradizionali come cocco, mango e, soprattutto, caffè. Ma dopo il collasso dei prezzi del caffè negli anni Novanta, le coltivazioni illegali sono diventate per i contadini una delle pochissime fonti di sopravvivenza. Oggi che anche il prezzo dell’oppio è precipitato a causa della diffusione del fentanyl, un oppioide sintetico molto più potente dell’eroina, molti hanno deciso di dedicarsi alla coca.

«È la nuova economia, la diversificazione dei raccolti illeciti», dice Arturo García Jiménez, leader delle comunità locali di El Porvenir, a El Universal, partner di Occrp in questo progetto. Delle 171 piantagioni di coca distrutte dalle autorità messicane fra il 2020 e il 2023 quasi tutte erano nella regione di Costa Grande, nello stato di Guerrero. La grande maggioranza di queste erano collocate negli ejidos, fattorie a proprietà condivisa come El Porvenir.

Piantagioni di cocaina tra aprile 2021 e aprile 2023 negli Stati di Guerrero e Michoacan, in Messico

Gruppi di trafficanti nella regione lavorano secondo il famoso proverbio plata o plomo, soldi o piombo: «o lavori con noi, o muori».

In passato, altre inchieste sul tema hanno dimostrato che questi gruppi di criminali prendono di mira membri importanti delle comunità, come dottori o insegnanti, prima di iniziare a rapire o uccidere chi non collabora. Per molti cittadini locali, è più sicuro iniziare a collaborare coi trafficanti, dice García. In quanto compratori unici di questi prodotti, i cartelli fanno il prezzo, e decidono il tipo di produzione.

García ha detto a El Universal che, alcuni anni fa, un trio di colombiani è arrivato nella regione. «Credo che abbiano portato con sé le prime piante di coca, che adesso prolifera, e hanno poi ricomprato le foglie dai contadini».

Il traffico di cocaina si porta dietro una scia di omicidi e comunità sfollate, mentre i vari gruppi lottano per il controllo del territorio. Lo scorso marzo le autorità di Corrales, un ejido 15 chilometri a nord di El Porvenir, hanno detto ai giornalisti della testata messicana Milenio che l’intera popolazione di un villaggio è fuggita, dopo che un gruppo criminale non identificato ha fatto sparire tre persone. Milenio ha identificato Corrales come uno dei molti ejidos che sono caduti sotto il controllo de «La Familia Michoacana», un cartello tristemente famoso per i brutali omicidi e le decapitazioni. Poco dopo la fuga degli abitanti, l’esercito messicano ha distrutto quasi un ettaro di coltivazioni di coca in quell’ejido, secondo i dati raccolti da Occrp.

A El Porvenir, l’esercito è invece arrivato a settembre dell’anno scorso, in cerca di coltivazioni di coca. Un coltivatore di caffè del posto ha raccontato che il villaggio si è «riempito di soldati» e il cielo di droni. Eppure, appena i soldati sono andati via, i coltivatori hanno semplicemente spostato le piantagioni più su, in montagna. «La coltivazione della coca non se ne andrà facilmente», dice García, «quello che hanno distrutto è nulla rispetto a quanto stanno coltivando».

L’effetto “palloncino”

Lo spostamento delle coltivazioni avvenuto a El Porvenir è un piccolo esempio di quello che gli studiosi chiamano “effetto palloncino”. Se stringi da una parte, cercando di eradicare la produzione di coca, questa si muove semplicemente da un’altra, come l’aria dentro un palloncino. E se smantelli un gruppo di trafficanti, un altro è già pronto a prenderne il posto.

Queste dinamiche sono quelle che, in parte, stanno spingendo la produzione di coca in America Centrale. Al tempo dell’accordo di pace con le FARC, il gruppo armato controllava circa il 40% della produzione di cocaina in Colombia, secondo le stime del think tank Insight Crime. Ma la frammentazione del gruppo, invece di limitarne il potere, ha dato vita a quello che le Nazioni Unite hanno definito un «mercato libero» più competitivo, variegato e compartimentato.

«C’è una sorta di vuoto nel mercato oggi, che non riguarda solo la Colombia», spiega Correa, dello SIMCI, «le rotte che le FARC controllavano si sono interrotte, e questo ha reso possibile fare le stesse cose altrove».

Spostare la produzione più a nord garantisce anche dei vantaggi commerciali: Correa spiega che lo stesso chilo di cocaina che in Colombia si vende per 1.500-2.000 dollari, può costare anche dieci volte tanto una volta che arriva in America Centrale. Produrre cocaina più vicino al punto di vendita, in breve, garantisce margini di profitto migliori per i trafficanti, permette loro di evitare i costi del trasporto e della corruzione, e riduce anche il rischio che le merci vengano intercettate dalle autorità durante il trasporto.

Paesi che erano fino a oggi esclusivamente di transito stanno quindi diventando produttori veri e propri, con le coltivazioni spesso concentrate lungo le rotte di trasporto già esistenti, in aree remote o dove comunque la presenza delle istituzioni è minima.

Soldati dell’esercito guatemalteco eradicano piante di coca ad agosto 2022 – Foto: Ministero della Difesa del Guatemala
Soldati dell’esercito messicano durante la confisca di quattro ettari di piantagioni di coca ad aprile 2023 – Foto: Segretariato della Difesa nazionale

In Honduras, la produzione di cocaina è cresciuta rapidamente, dopo il colpo di Stato militare del 2009 nelle regioni di Colón e Olancho, entrambi punti chiave delle rotte verso il Nord America.

A volte, le coltivazioni di coca vengono introdotte quasi di nascosto. Alan Ajiatas, vice-capo procuratore alla Procura guatemalteca contro il narcotraffico, ha detto al partner di #NarcoFiles Guatemala Leaks di aver notato sempre più casi in cui i contadini hanno cominciato a coltivare coca senza sapere cosa fosse.

«Hanno detto loro che “è un prodotto che vi pagheremo bene”» dice Ajiatas, «e quindi la gente ha cominciato a coltivarlo». Queste nuove coltivazioni però sono ancora poca cosa rispetto a quelle delle regioni andine. L’agenzia antidroga delle Nazioni Unite stima che solo lo scorso anno in Colombia siano stati piantati 230.000 ettari di coca. Alla fine dello scorso anno, in Guatemala le autorità hanno distrutto appena 110 ettari, e quelle messicane 39.

Ma la coltivazione continua a espandersi. I coltivatori sperimentano terreni diversi, per vedere dove la pianta di coca attecchisce meglio. Alcune piantagioni erano infatti apparse in determinate aree, come le giungle di Panama o le aree montane del Chiapas, per poi scomparire rapidamente. Quest’anno, sono state trovate per la prima volta alcune piantagioni in remoti angoli dello stato di Michoacán, in Messico.

«Cercano posti dove il raccolto dia risultati migliori», ha spiegato Ludwig Reynoso, segretario generale del governo dello stato di Guerrero a El Universal. «Ancora non hanno raggiunto un livello di qualità pari a quello della coca colombiana».

I “cuochi viaggiatori” della Colombia

A luglio 2020, un autobus privato, dai vetri oscurati, parcheggia dentro un maneggio della piccola città olandese di Nijeveen. A bordo c’è un gruppo di colombiani, e ad attenderli nelle stalle una decina di criminali olandesi che, secondo la polizia, avevano messo su il più grande laboratorio di raffinazione della coca mai visto in Olanda, in grado di produrre fino a 200 chili di polvere bianca al giorno.

Ad agosto 2020, la polizia olandese ha scoperto il più grande laboratorio di cocaina in Olanda, celato in una scuola di equitazione nella cittadina di Nijeveen – Foto: Polizia nazionale olandese

Dei 13 colombiani, tutti, tranne due, erano arrivati in Olanda solo per lavorare nella “cucina” nascosta nel maneggio: per estrarre, processare e impacchettare un’intera tonnellata di cocaina. All’arrivo, i trafficanti olandesi hanno sequestrato i loro cellulari e li hanno chiusi a chiave nel laboratorio, secondo le loro testimonianze. I “cuochi” colombiani lavoravano per un loro connazionale, Alejandro Cleves Ossa.

Sono sempre di più i laboratori che vengono scoperti fuori dall’America Latina: dall’Australia al Senegal. La polizia olandese afferma di averne sequestrati più di 60 negli ultimi cinque anni. Secondo le trascrizioni recuperate dalle polizie europee, hackerando il sistema di comunicazione criptato Encrochat, la banda olandese del maneggio ha provato diversi posti prima di trovare quello perfetto per sistemare il laboratorio. Sempre dai messaggi emerge come i colombiani avessero investito più di un milione e mezzo di euro per la realizzazione dell’impianto di raffinazione.

Gli olandesi, dal canto loro, erano poco esperti di cocaina fino a quel momento. Per almeno uno di loro era la prima esperienza in assoluto, il quale aveva gestito in passato un laboratorio di metanfetamine, ma era in cerca di un’opportunità di lanciarsi nel business della coca, dove, a suo dire, si fanno «i veri soldi».

Il laboratorio che avevano messo in piedi poteva anche vantare infrastrutture difficilmente reperibili in quelli colombiani: i generatori di corrente e i boiler erano insonorizzati, e avevano installato anche sistemi di depurazione dell’aria per evitare che il forte odore di sostanze chimiche destasse sospetti.

Raffinare la cocaina in Europa, poi, offre un’altro, sostanziale vantaggio: mentre in Sud America il commercio di precursori chimici è sempre più controllato, ed è complesso ottenere prodotti di buona qualità, come il permanganato di potassio, in Europa questi sono prodotti perfettamente legali e di libera vendita. Secondo le carte giudiziarie olandesi, nel caso del laboratorio nel maneggio di Nijeveen, i precursori venivano acquistati da intermediari, che dichiaravano sarebbero serviti per altre attività, come il restauro di opere d’arte.

Le chat criptate contenute nelle carte giudiziarie mostrano che il gruppo era pronto a spendere 300-400 mila euro in «liquidi», cioè precursori, mentre il laboratorio era in preparazione. «Gli olandesi avevano tutto pronto, reti di distribuzione, location, sostanze chimiche, ma mancavano di professionalità specifiche», ha detto a Occrp Martin van Nes, procuratore nazionale per il traffico di cocaina in Olanda. «Si può dire che fosse quasi un matrimonio di necessità».

Questa professionalità colombiana non è stata esportata solo in Olanda. Uno dei “cuochi”, intervistato dai colleghi spagnoli di Narcodiario per questo progetto, ha detto di aver lavorato in un laboratorio simile a quello olandese, appena fuori Madrid. Qui gestiva un team di sei persone e veniva pagato circa 450 euro a «unità», cioè a chilo di coca prodotto.

«Lo sappiamo fare e lo sappiamo fare bene», ha detto il cuoco, che ha accettato di parlare sotto condizione di anonimato. «Io sono nato in una regione dove questo è il lavoro quotidiano di tutte le famiglie. Impari a lavorare la coca prima di imparare a leggere e scrivere».

Le condizioni di lavoro degli operai del narcotraffico

Diverse indagini hanno mostrato che le condizioni di lavoro imposte ai “cuochi” che raffinano la cocaina sono spesso al limite della schiavitù, con turni di lavoro lunghissimi che spesso costringono i lavoratori a mangiare e dormire direttamente nei laboratori. Il chimico intervistato da Narcodiario per questo progetto, che ha raccontato di fare questo lavoro sin da quando era bambino, è stato raccomandato per questo lavoro da un amico della regione di Putumayo, nel sud della Colombia. Ha dovuto consegnare il suo passaporto ai trafficanti, che si sono occupati di tutti i dettagli del viaggio.

«Mi hanno semplicemente detto di andare a Cali, dove un’agenzia turistica mi ha messo in mano i biglietti da Bogotà a Parigi, e da lì al Portogallo. Ho viaggiato come fossi un turista, con tutti i documenti già a posto», racconta. Continua spiegando come sia stato prelevato a Madrid in tarda notte e poi portato in una fattoria, dove ha passato i quindici giorni successivi chiuso nel laboratorio, a respirare esalazioni chimiche. «Devi uscire dal laboratorio per respirare, anche se siamo oramai piuttosto abituati a quegli odori».

Non gli era permesso comunicare con l’esterno, racconta, e lui e i suoi colleghi erano costretti a condividere a turno le brande. Questo lavoro può essere molto pericoloso. Nel marzo 2020 ad esempio, un laboratorio clandestino in Olanda è esploso, uccidendo un intero gregge di pecore e inquinando il terreno e l’aria circostanti. I guadagni per i “cuochi” sono minimi, poche migliaia di euro per un passaggio fondamentale di un affare che frutta decine di milioni di profitti.

Il numero di laboratori di cocaina scoperti nelle province olandesi tra il 2021 e il 2022 – Fonte: Polizia olandese

Le condizioni di lavoro degli operai del narcotraffico

Diverse indagini hanno mostrato che le condizioni di lavoro imposte ai “cuochi” che raffinano la cocaina sono spesso al limite della schiavitù, con turni di lavoro lunghissimi che spesso costringono i lavoratori a mangiare e dormire direttamente nei laboratori. Il chimico intervistato da Narcodiario per questo progetto, che ha raccontato di fare questo lavoro sin da quando era bambino, è stato raccomandato per questo lavoro da un amico della regione di Putumayo, nel sud della Colombia. Ha dovuto consegnare il suo passaporto ai trafficanti, che si sono occupati di tutti i dettagli del viaggio.

«Mi hanno semplicemente detto di andare a Cali, dove un’agenzia turistica mi ha messo in mano i biglietti da Bogotà a Parigi, e da lì al Portogallo. Ho viaggiato come fossi un turista, con tutti i documenti già a posto», racconta. Continua spiegando come sia stato prelevato a Madrid in tarda notte e poi portato in una fattoria, dove ha passato i quindici giorni successivi chiuso nel laboratorio, a respirare esalazioni chimiche. «Devi uscire dal laboratorio per respirare, anche se siamo oramai piuttosto abituati a quegli odori».

Non gli era permesso comunicare con l’esterno, racconta, e lui e i suoi colleghi erano costretti a condividere a turno le brande. Questo lavoro può essere molto pericoloso. Nel marzo 2020 ad esempio, un laboratorio clandestino in Olanda è esploso, uccidendo un intero gregge di pecore e inquinando il terreno e l’aria circostanti. I guadagni per i “cuochi” sono minimi, poche migliaia di euro per un passaggio fondamentale di un affare che frutta decine di milioni di profitti.

Spedizioni ben camuffate

Lo sviluppo dei sistemi di raffinazione progredisce insieme a nuove tecniche di trasporto della cocaina attraverso l’oceano. Si tratta di metodi già noti dai primi anni Duemila, ma che, secondo Jorrit van den Berg, analista forense olandese, stanno crescendo molto negli ultimi anni.

La cocaina può essere infatti sia mescolata e fusa con la plastica, sia liquefatta per impregnare tessuti o altri materiali. Queste tecniche, spesso troppo complesse per essere economicamente vantaggiose, sono tornate in auge ora che gli attori su entrambe le sponde dell’Atlantico si sono moltiplicati.

“Cees”, soprannome di un 44enne olandese condannato nel 2021 per aver gestito un laboratorio di metanfetamine, ha detto a Occrp che anche lui aveva pensato di buttarsi nel mercato della cocaina. Usando queste tecniche di trasporto infatti, si risparmiano i costi del recupero della cocaina nei porti, e non è necessario avere rapporti di fiducia con le mafie che controllano le rotte. «Economicamente funziona», ha spiegato Cees, «stanno tirando fuori talmente tanto prodotto [in Sud America] che i prezzi stanno scendendo molto».

Un’indagine congiunta delle polizie colombiane, olandesi e britanniche ha rivelato che un gruppo di trafficanti stava pianificando di trasportare cocaina miscelata a olio di palma, carbone, caffè e fertilizzanti. Non è chiaro se questi piani si siano concretizzati o meno. Nel laboratorio di Nijeveen, la cocaina era arrivata dentro partite di carbone, impregnata dentro le rocce stesse. Usando solventi, il prodotto “di trasporto” viene eliminato e la coca recuperata, cristallizzata e pressata, pronta alla vendita.

È proprio qui che la professionalità dei cuochi colombiani è ancora indispensabile. In uno di questi casi, su un chilo di cocaina liquida inviata dalla Colombia alle Bahamas, il “cuoco” locale, nonostante avesse in mano le “ricette”, ovvero le formule chimiche giuste, è riuscito a recuperare appena 40 grammi di sostanza. Freek Pecht, ufficiale di coordinamento della polizia olandese, ha spiegato che i cuochi portati in Europa da questi gruppi sono spesso esattamente gli stessi che hanno lavorato la sostanza alla partenza, perchè solo loro sanno esattamente come recuperare il carico.

«Se sbagli la ricetta e le cose vanno male, ti ritrovi con pochissimo prodotto da vendere, o addirittura rischi di rovinare l’intero carico», ha dichiarato Pecht a Knack, partner belga di #NarcoFiles.

Quest’anno la polizia spagnola, nel nord ovest della Galizia, ha scoperto un laboratorio che addirittura raffinava la “pasta base”, il risultato della primissima lavorazione della pianta di coca, spesso fatta dagli stessi contadini che coltivano le foglie. Come a Nijeveen, il laboratorio aveva una capacità produttiva di centinaia di chili al giorno. La “pasta base” è ovviamente molto più economica della cocaina raffinata, il che riduce le perdite in caso di sequestri e offre un margine di profitto maggiore alla vendita in Europa, dove un chilo di prodotto puro si vende dai 25 ai 30mila euro.

Van Nes, il procuratore olandese, spiega che a Rotterdam e Anversa ci sono stati molti più sequestri negli ultimi anni, e che è quindi naturale che i trafficanti rispondano «diversificando i rischi, come qualsiasi imprenditore farebbe», variando metodi, rotte e porti di arrivo.

CREDITI

Autori

Jonny Wrate
David Espino
Jody García
Angélica Medinilla
Enrique García
Víctor Méndez
Arthur Debruyne
Yelle Tieleman
Brecht Castel
Juanita Vélez

Traduzione

Giulio Rubino

Editing

Edoardo Anziano

Infografiche

Occrp

Foto di copertina

Occrp