2 Luglio 2021 | di Giulio Rubino
Nessun Paese vuole vedersi cucito addosso lo status di paradiso fiscale. Nonostante alle orecchie delle multinazionali possa essere un termine quasi allettante, evocativo di sicurezza e segretezza per il capitale privato all’ombra delle palme su spiagge bianchissime, negli ultimi anni sono pochi i Paesi che possono continuare a mantenere questa condizione senza danni tanto alla propria reputazione quanto agli affari. Dopo che moltissime inchieste giornalistiche hanno rivelato come migliaia e migliaia di miliardi di dollari, una porzione significativa di tutta la ricchezza globale, scompaia ogni anno dentro questi paradisi, libera da tasse, responsabilità sociali, o anche solo di un proprietario chiaramente identificato, anche le organizzazioni internazionali, Unione europea in primis, hanno cominciato a discutere di limiti e regolamentazioni per evitare che i grandi contribuenti di tutto il mondo potessero continuare a giocare sporco.
La classifica dei paradisi fiscali
Secondo il Tax Justice Network, nell’edizione 2021 del loro Corporate Tax Haven Index, cioè una sorta di classifica dei paradisi fiscali, i Paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) conquistano i primi sei posti della classifica dei Paesi che favoriscono l’abuso fiscale. Il Corporate Tax Haven Index mette in fila ogni giurisdizione in base a quanto il sistema fiscale e finanziario permette alle multinazionali di spostare i profitti fuori dal Paese in cui fanno affari, e dove quindi pagano meno tasse di quello che dovrebbero. L’indice valuta ogni sistema legale e tributario con un “haven score” da 0 a 100 in base alla possibilità di abuso fiscale per le aziende. Il punteggio viene combinato con il volume dell’attività finanziaria condotta nel paese dalle multinazionali (Global Scale Weight) per calcolare quanto abuso fiscale viene facilitato dal paese (CTHI Value) e in che percentuale ne sono responsabili a livello mondiale (CTHI Share).
Uno dei più importanti – e più indagati – paradisi fiscali d’Europa è sicuramente il Lussemburgo, che prima ancora dell’inchiesta OpenLux (pubblicata a febbraio 2021 da IrpiMedia insieme a un consorzio di testate internazionali guidate da Le Monde e Occrp), era già finito al centro del dibattito internazionale con la pubblicazione dell’inchiesta LuxLeaks.
Sembrava che dopo lo scandalo il Paese si fosse “convertito” a una maggiore trasparenza fiscale, soprattutto rispetto allo scambio di informazioni con gli altri Paesi europei. In fondo c’è tutto un sistema previsto dalle ultime direttive europee in materia fiscale che spinge i Paesi a una maggiore collaborazione nell’ottica di prevenire forme di “concorrenza sleale” sul fisco. Eppure anche questo sistema può essere aggirato attraverso il meccanismo delle “lettere informative”.
Partiamo però dall’inizio, il 2014, quando il Lussemburgo è diventato agli occhi dell’opinione pubblica uno degli epicentri dell’evasione fiscale in Europa.
Le segnalazioni di infrazione ricevute dall’autorità antiriciclaggio del Lussemburgo
LuxLeaks, cosa è cambiato per davvero
Luxleaks, inchiesta nata dalle rivelazioni del whistleblower Antonine Deltour, ex dipendente di PricewaterhouseCoopers (PwC), nel 2014 aveva rivelato come i cosiddetti tax ruling, accordi privati fra grandi corporazioni e autorità fiscali, nel Granducato riuscissero ad abbattere fin quasi a zero le tasse pagate da grandi aziende multinazionali.
Dopo la pubblicazione dell’inchiesta, il Lussemburgo si era attirato molte critiche da parte del resto dei Paesi europei, e in particolare il dibattito aveva portato a una importante decisione da parte della Commissione Europea: i tax ruling non potevano più essere segreti. La decisione è diventata legge anche in Lussemburgo nel 2016.
La definizione: Tax ruling
Sono accordi che gli Stati stringono con le multinazionali allo scopo dichiarato di rendere più certo il meccanismo di tassazione di chi lavora e fattura in tutto il mondo. Dovrebbero su carta evitare i meccanismi di elusione fiscale attraverso cui le grosse aziende cercano di ridurre la base del loro imponibile. Il sistema, però, funziona solo se c’è la completa trasparenza nelle comunicazioni tra autorità fiscali.
In realtà, la situazione attuale non sembra essere però troppo lontana da quella del 2014. Secondo le ricerche di IrpiMedia, in collaborazione con il Süddeutscher Zeitung, Le Monde, El Mundo e Woxx, con il supporto di Tax Justice Network e The Signals Network, sembrerebbe che esistano ancora metodi per aggirare le nuove regolamentazioni, metodi noti e avallati dalle stesse autorità lussemburghesi.
L’arma fiscale
Il diritto tributario internazionale è forse una delle materie più complesse al mondo, e gli stessi apparati governativi raramente hanno a disposizione le competenze che invece si prestano agli interessi privati. Non è raro infatti che gli stessi studi di tributaristi che fanno consulenza ai governi per definire le regole del gioco, si offrano a prezzi ben più alti alle multinazionali per aiutare ad aggirarle.
Come si potevano portare a zero o quasi le tasse effettive pagate dalle grandi aziende nel Granducato?
Un tax ruling, in generale, è un accordo fra un contribuente e l’autorità fiscale, che permette di sapere in anticipo quanto si pagherà di tasse in base alla “struttura fiscale” presentata. Detto nel più banale dei modi, nella sua accezione positiva consiste in una richiesta, da parte di un contribuente, di avere chiarezza su come il fisco applicherà le leggi su di lui. Ma siccome ogni Paese tassa o meno diversi tipi di flussi di denaro, interessi, derivati o altro, nella prassi il tax ruling è diventato uno dei più efficaci strumenti di elusione fiscale a disposizione delle grandi aziende.
Di fatto le aziende studiano nel dettaglio le differenze fra i sistemi fiscali dei vari Paesi, e spostano tipi diversi di profitti nei Paesi dove questi non sono tassati o sono tassati pochissimo. Per esempio, le succursali A e B di una multinazionale possono decidere di creare una società di comodo C, un’azienda di facciata che funge solo da schermo, in un paradiso fiscale. Questa azienda C chiede un tax ruling al Paese che la ospita per assicurarsi, ad esempio, che i profitti da royalties non siano tassati, o che un certo tipo di interessi vengano considerati come aumenti di capitale e quindi anch’essi esentati da tasse.
A questo punto, facendo in modo di trasferire all’azienda C tutti i tipi di profitti che ci si è assicurati in anticipo non saranno tassati, si può contemporaneamente abbattere l’imponibile nei Paesi dove sono residenti le aziende A e B, e mantenere le proprie imposte nel Paese C a un livello minimo.
Essendo questi accordi, fino a poco tempo fa, segreti, non c’è neanche modo per i Paesi A e B di rendersi conto che stanno subendo un danno fiscale, orchestrato legalmente con la complicità di un altro Stato. Utilizzando i tax ruling in questo modo, il Lussemburgo ha potuto tenersi fuori dalle liste nere e grigie dei paradisi fiscali. Di fatto, l’aliquota d’imposta legale in Lussemburgo è al 26%, ben più alta dei livelli che le aziende finivano effettivamente per pagare.
Anche quando identificati con chiarezza, spesso i problemi sono legati alla limitata giurisdizione di ciascun Paese, circostanza che impedisce di mettere in piedi soluzioni efficaci a meno che non siano largamente condivise a livello globale.
Il fisco, in fondo, è un’altra arma nel gioco delle supremazie globali e viene usato apertamente dagli Stati per ottenere vantaggi sui loro competitor: ogni Paese cerca di attirare più investimenti possibili negoziando vantaggi con i potenziali investitori. Affinché però il sistema sia giusto, le regole del gioco devono essere uguali per tutti. Al contrario, il tema della concorrenza sleale è emerso in modo deciso anche a livello europeo, specialmente rispetto all’Olanda e al suo regime fiscale vantaggioso che ha attirato moltissime aziende, comprese alcune pubbliche o partecipate come Eni ed Enel.
Per approfondire
Lussemburgo, porto franco d’Europa
Cent’anni di privilegi fiscali. Ecco come il Granducato ha trovato il suo posto in Europa. La nuova fase della sua storia comincia nel 2014, l’anno di Luxleaks
Contando sulla sempre maggiore libertà dei capitali rispetto agli esseri umani, oggi i nuovi paradisi fiscali continuano a usare la fiscalità come una specie di campagna di marketing turistico per aziende, ma se prima questo gioco avveniva più apertamente, oggi i veri richiami si fanno per passaparola fra soggetti interessati. Come in uno speakeasy, il negozio di alcolici vietati da un Paese proibizionista, tutti gli interessati sanno benissimo dove trovare quello di cui necessitano senza rischi, ma il resto della popolazione raramente si rende conto del perché avvengano certi movimenti.
Come aggirare i tax ruling: le “lettere informative”
Da quando la direttiva europea DAC 3 (Directive Administrative Cooperation, ndr) che obbliga i Paesi a scambiare in modo automatico le informazioni sui tax ruling che effettuano sotto la propria giurisdizione entrata in vigore nel 2016, il numero di “accordi privati” in Lussemburgo è crollato vertiginosamente. Dalle centinaia che se ne facevano nel 2014, agli appena 44 del 2020.
Chi difende i tax ruling si appella alla “certezza fiscale”. Sarebbe cioè un gran sollievo per le aziende poter sapere con certezza e in anticipo quante tasse saranno richieste dallo Stato in cui sono residenti. Ma se davvero questa fosse la ratio dietro il grande interesse verso i tax ruling, e non il potenziale di abuso che contengono, non si spiegherebbe questo netto calo del numero di accordi di questo tipo effettuati nel Granducato da quanto è entrata in vigore la direttiva che obbliga a scambiare le informazioni che contengono.
Non è semplice misurare gli effetti della nuova direttiva in ambito internazionale. Di certo prima dell’introduzione della DAC 3 gli scambi di informazioni fra Stati membri riguardo i tax ruling erano quasi inesistenti: solo 11 nel 2014, contro i 13.182 del 2017. L’Italia dal 2016 ha ricevuto oltre mille comunicazioni riguardo tax ruling stipulati da altri Stati con una potenziale ricaduta sul nostro fisco, di cui l’84% viene da Olanda, Lussemburgo e Belgio. Ancora non ci sono dati però di quante tasse eluse si siano recuperate grazie a questa nuova legge.
Il numero dei nuovi tax ruling accordati ogni anno dal Lussemburgo
Sono escluse le “lettere informative”, i cui dati sono segreti
Lo scambio di informazioni tra Stati membri dell’Unione europea
I dati sono in base all’esistenza di “accordi privati”, i tax ruling
Secondo diverse fonti, tutti attuali o ex impiegati di aziende di consulenza fiscale basate in Lussemburgo, la nuova direttiva rischia di risultare obsoleta prima ancora di entrare pienamente in funzione. Infatti invece di ricorrere a un tax ruling, che è ufficiale e vincolante per le parti, si sarebbe diffusa una via informale per ottenere lo stesso risultato tramite quelle che vengono chiamate information letter. Il termine è generico e rischia anche di essere fuorviante. Parliamo qui di un tipo specifico di “lettera informativa”, in cui l’azienda comunica all’autorità fiscale del Lussemburgo la propria pianificazione fiscale e come intende ridurre la propria base imponibile.
I meccanismi effettivi, i trasferimenti di profitti, le complesse strutture di sussidiarie una dentro l’altra restano le stesse.
Secondo le fonti ascoltate, a seguito di queste lettere a volte si arriva anche a dei colloqui di persona fra i consulenti fiscali che aiutano le aziende a scrivere tali lettere e il fisco del Granducato. Alle lettere e ai colloqui, però, segue un tacito accordo informale: se l’Agenzia delle Entrate non esprime esplicitamente un dissenso alla struttura fiscale presentata nell’information letter, l’azienda può tirare un sospiro di sollievo e considerare l’accordo concluso.
«Queste lettere vengono usate per evitare i tax ruling e soprattutto lo scambio di informazioni obbligatorio che ne consegue», spiega una fonte che conosce il sistema dall’interno. Le sue affermazioni sono state confermate da altre fonti interrogate dai giornalisti di questa collaborazione, che hanno chiesto di restare anonime per timore di ripercussioni.
In teoria, almeno su carta, gli “intermediari” stessi (come gli studi di commercialisti) avrebbero dal luglio 2020 lo stesso obbligo introdotto dal DAC 3. Nel 2018 infatti la direttiva è stata aggiornata ancora e la DAC 6 introduce anche per i fornitori di consulenza finanziaria l’obbligo di informare «le autorità fiscali in merito ad alcuni meccanismi transfrontalieri potenzialmente utilizzabili a fini di pianificazione fiscale aggressiva», si legge negli atti parlamentari di approvazione della legge in Italia.
Peccato però che in molti Paesi, compreso il Lussemburgo, gli avvocati siano stati esentati da questo obbligo, rendendo forse il primo fascicolo ricevuto dalla nostra Agenzia delle Entrate in merito molto più scarno di quanto non dovrebbe essere.
Le repliche
La natura informale di questo tipo di accordo naturalmente lo rende meno affidabile per le aziende rispetto ai tax ruling veri e propri e il Ministero delle Finanze del Lussemburgo nel rispondere alle nostre domande insiste molto su questo punto: «Le lettere inviate dai contribuenti all’amministrazione fiscale non possono essere considerate tax ruling perché tali lettere non sono emesse dall’autorità fiscale e non hanno alcun effetto su di essa». Eppure, secondo le ricerche di questo consorzio, non risultano casi in cui questi accordi silenziosi non siano poi stati onorati dalle autorità lussemburghesi.
Quanto alla condivisione di queste lettere con gli altri Paesi europei, il Ministero del Granducato conferma che resterebbero riservate: «La definizione di tax ruling data dalla direttiva DAC 3 non comprende la corrispondenza fra i contribuenti e l’autorità fiscale».
In realtà, almeno su carta, la Commissione Europea si esprime in modo diverso e la DAC 3 del 2015 dovrebbe coprire ogni tipo di accordo fiscale, «indipendentemente dal carattere vincolante o non vincolante e dalle modalità di emanazione», dice il testo della direttiva. La ragione dell’obbligo di condivisione di queste informazioni non è solo formale. Esiste per permettere agli Stati che vengono defraudati degli introiti fiscali tramite questi accordi di rivalersi e pretendere il pagamento delle tasse eluse.
Le grandi aziende di consulenza fiscale del Lussemburgo non parlano volentieri di questo tema, eppure diversi impiegati di queste stesse aziende dichiarano su Linkedin di avere esperienza specifica nella scrittura delle information letters.
Ma alle domande dirette dei giornalisti le “big 4”, le grandi aziende di consulenza fiscale, si trincerano dietro il silenzio e la confidenzialità del rapporto con i loro clienti: PricewaterhouseCoopers (PwC) e Ernst & Young non hanno risposto, KPMG dichiara che «alla luce degli obblighi di segretezza con i clienti, non possiamo commentare sui servizi offerti o meno» e Deloitte, altrettanto laconicamente, spiega che è «vincolata dal segreto professionale»

LuxLetters è un consorzio di giornalisti che indaga sulle “lettere informative” del Lussemburgo. Ne fanno parte le organizzazioni internazionali Tax Justice Network (che si occupa di giustizia fiscale) e The Signals Network (che protegge gli whistleblower). IrpiMedia è partner insieme a Die Süddeutsche Zeitung (Germania), Le Monde (Francia), El Mundo (Spagna), Woxx (Lussemburgo).
In partnership con: Tax Justice Network, The Signals Network, Die Süddeutsche Zeitung (Germania), Le Monde (Francia), El Mundo (Spagna), Woxx (Lussemburgo) | Infografiche: Lorenzo Bodrero | Editing: Lorenzo Bagnoli | Foto: GukHwa Jang/Unsplash