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Gianfranco Bertoli, l’uomo dei misteri della strage della Questura
Era il 17 maggio 1973. Obiettivo il ministro Rumor. Sullo sfondo le vicende di piazza Fontana. Cinquant’anni di silenzi, omissioni e menzogne, tra la pista anarchica e l’eversione nera
09 Settembre 2022

Andrea Ballone

A Giovanni

Èil 17 maggio 1973, un uomo percorre il tratto che da piazza Duomo a Milano conduce a via Fatebenefratelli, la sede della questura, dove si sta tenendo la commemorazione del dirigente della squadra politica della questura, ucciso un anno prima, Luigi Calabresi, il commissario “Finestra” come lo chiamano extraparlamentari e anarchici. L’accusa è quella di avere “suicidato”, gettandolo da una finestra della questura, l’anarchico Giuseppe Pinelli. Era stato fermato dagli inquirenti nell’ambito delle indagini per la strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Sono passati quattro anni dall’episodio, ma la ferita è ancora aperta, perché il processo è in corso e perché gli anni Settanta sono anni di grandi divisioni politiche.

A commemorare Calabresi a Milano c’è Mariano Rumor, che è ministro dell’interno, proprio come lo era il giorno della strage alla Banca nazionale dell’agricoltura. Sono passati quasi quattro anni, ma molte cose sono cambiate. La violenza politica è aumentata. Il 12 aprile, proprio a Milano, è stato ucciso da una bomba a mano, lanciata da alcuni manifestanti di estrema destra, l’agente di polizia Antonio Marino.

Pietro Valpreda e la strage di piazza Fontana

Il 12 dicembre 1969 alla Banca nazionale dell’agricoltura di Milano esplode una bomba che uccide 16 persone. In un primo tempo vengono accusati Pietro Valpreda e gli anarchici del Ponte della Ghisolfa, ma si scoprirà che la matrice è neofascista. Il giorno prima dell’attentato, Pierangelo Bertoli andrà a casa dell’anarchica Augusta Farvo a cercare Amedeo Bertolo, anarchico del Ponte della Ghisolfa, che negherà sempre di aver conosciuto Bertoli. In quei periodi a casa della Farvo viveva proprio Valpreda.

Con una bomba in tasca nel centro di Milano

Così come sta girando armato l’uomo che da piazza Duomo sta andando alla commemorazione dell’omicidio Calabresi. Reca con sé una bomba a mano “ananas”, che scaglierà a breve contro un gruppo di persone. L’episodio sarà ricordato nei libri di storia come la strage della Questura.

«Verso le ore 11:00 di ieri, – recita il primo rapporto giudiziario sulla strage – al termine della cerimonia per lo scoprimento del busto del Commissario Capo di P.S. dr. Luigi Calabresi, avvenuta nel cortile della Questura di Milano, un individuo, che sostava sul marciapiedi opposto a quello dove è ubicato l’ingresso della Questura stessa, ha lanciato in direzione dell’ingresso medesimo un ordigno, che è esploso. La Forza pubblica in servizio sul posto ha subito tratto in arresto l’attentatore, il quale, dopo essere stato sottratto ad un tentativo di linciaggio da parte dei numerosi presenti, è stato portato negli uffici della Questura. Qui è stato trovato in possesso, tra l’altro, di un passaporto intestato a tale MAGRI Massimo, nato a Bergamo il 30.7.1942, che lo stesso attentatore ha subito indicato come falso. Egli ha quindi dichiarato oralmente di chiamarsi Bertoli Gianfranco, in oggetto indicato, e di essere arrivato a Milano la sera precedente proveniente da Haifa, via Marsiglia. La deflagrazione ha provocato la morte di Bartolon Gabriella, nata a Milano il 6.1.1950 ed il ferimento di altre 42 persone, generalizzate nell’allegato elenco».

In realtà le persone uccise sono 4: Felicia Bartolozzi, 60 anni; Gabriella Bortolon, 23; Federico Masarin, 30; Giuseppe Panzino, 63) e i feriti 52.

Di questa vicenda sono gli unici dati certi, perché sta per cominciare una storia fatta di menzogne, ritrattazioni e fantasie, che non trovano conferme. La storia di Gianfranco Bertoli, l’uomo che morirà dopo quasi trent’anni dalla strage, portando con sé uno dei più grandi misteri della storia d’Italia, ma che allo stesso tempo è ancora egli stesso un mistero mai svelato. Perché davvero abbia gettato quella bomba, dove l’abbia trovata e soprattutto se l’abbia fatto da solo, sono i grandi dubbi che ancora aleggiano su questa vicenda.

Chi è Gianfranco Bertoli

Nato a Venezia nel 1933, Gianfranco Bertoli ha origini umili. Il padre è sarto, la madre casalinga. Il padre è un uomo autoritario e il piccolo Gianfranco ne subisce il piglio, tanto da diventare presto un ribelle. Ma non proprio in senso politico. La vita di Gianfranco scorre tranquilla fino a 16 anni quando un giorno decide di recarsi a scuola portando con sé una pistola, che un suo compagno userà in classe, esplodendo un colpo. Bertoli viene espulso da tutte le scuole, abbandona la famiglia e inizia un girovagare tra lavoretti che spesso fatica a mantenere e piccoli crimini. In quegli anni conoscerà quello che sarà a lungo il suo compagno di vita: l’alcol. E naturalmente il carcere, dal quale Bertoli entra ed esce a Venezia, sua città natale, con una certa frequenza.

Una foto scattata poco dopo l'attentato alla Questura di Milano - Foto: Wikipedia

Una foto scattata poco dopo l’attentato alla Questura di Milano – Foto: Wikipedia

La famiglia presto lo abbandona e lui diventa un randagio, dormendo spesso in strada. Fino a quando nel 1971 non decide di abbandonare l’Italia, anche perché rischia di finire in carcere, a causa di un cumulo di piccoli reati, per andare a vivere in un kibbutz, una tipica comunità israeliana dove si fa vita comunitaria. Chi gli è vicino nell’esperienza israeliana lo ricorda come un uomo piuttosto introverso e taciturno, un solerte lavoratore e una persona dal grande impegno politico, che si dichiara anarchico. Bertoli segue con attenzione alla radio le vicende italiane, soprattutto quelle legate al commissario Calabresi. A qualcuno nel kibbutz racconterà di conoscere bene Pino Pinelli e di avere frequentazioni con gli anarchici del circolo del Ponte della Ghisolfa, del quale Pinelli stesso faceva parte. Nel kibbutz stringe tuttavia anche strane amicizie con personaggi dell’estrema destra e riceve una volta al mese una lettera dall’Italia, precisamente da Mestre.

Tre giorni, tanti dubbi

Gli inquirenti si concentrano subito sulla ricostruzione dei tre giorni precedenti la strage e su come li abbia trascorsi lo stesso Bertoli, ma anche sull’origine del suo passaporto. Nella sua prima versione dice di essere un anarchico che ha agito da solo per vendicare la morte di Pinelli. A riprova del fatto ci sarebbe la frase pronunciata dal lancio della bomba, che era indirizzata al ministro dell’interno Rumor, ma che è finita a lato e ha colpito cittadini innocenti: «Viva Pinelli, viva l’anarchia». Frase che però i poliziotti che erano sul posto dicono di aver sentito solo dopo il lancio della bomba.

Gianfranco Bertoli - Foto: Wikipedia

Gianfranco Bertoli – Foto: Wikipedia

Bertoli sostiene di essere partito l’8 maggio da Haifa, in Israele, di essere arrivato in nave a Genova, di avere proseguito per Marsiglia, dove è rimasto tre giorni e poi di essersi recato in treno a Milano. E a questa versione ci sono riscontri, stante l’illogicità della scelta di andare da Genova a Marsiglia in nave per raggiungere Milano in treno.

Nel capoluogo lombardo arriva il giorno prima della strage, lascia i bagagli alla stazione centrale, e poi si reca a una pensione in via Vitruvio. Dice di non aver incontrato nessuno né a Marsiglia né a Milano, dove il giorno prima dell’attentato trascorre il pomeriggio (dalle 16:00 alle 20:00) cambiando il denaro, andando in piazza Duomo e girovagando. Tutto questo con una bomba in tasca, che sarebbe stata rubata nel kibbutz, con la quale avrebbe attraversato tre Paesi senza incappare in nessun controllo.

«La mattina del 17 – riporta la prima sentenza di condanna – esce di buon’ora (alle 7:30 secondo il teste Benzoni), compra il Corriere della Sera, dove apprende che ci sarà la manifestazione in Questura alle 10:30, prende il metrò per piazza Duomo e a piedi si reca in via Fatebenefratelli; ivi, a suo dire, giunge alle 10:40, avendo intenzione di arrivare a cerimonia già iniziata. Ritiene che la manifestazione durerà ancora parecchio e allora va a prendere un cognac in un bar distante circa 50-100 metri dall’ingresso della Questura. Esce, si accorge che la manifestazione è finita e alcune auto già vanno via. Si avvicina in fretta all’ingresso della Questura e dal marciapiedi opposto lancia la bomba in direzione delle autorità che stanno uscendo; il lancio però riesce corto, l’ordigno rotola lateralmente all’ingresso di 5-6 metri e poi esplode».

L’obiettivo principale, a detta dell’imputato, sembra Rumor: «Sarei stato lieto di gettare la bomba a Rumor. Purtroppo non mi accorsi del momento in cui uscì dal cortile perché ero nel bar», racconta – e ancora – «Quando gettai la bomba ero convinto che stava uscendo Rumor e Zanda Loy (Efisio, all’epoca prefetto di Savona. Sarà il capo della polizia tra il 1973 e il 1975, ndr). Non vidi partire l’auto di Rumor; l’avessi vista avrei aperto la portiera e ivi gettato la bomba».

Le tante contraddizioni di un uomo confuso e spaventato

La versione del sedicente anarchico però non sta in piedi. Alla pensione di Marsiglia dice di aver dormito tre notti, ma la proprietaria lo smentisce: il letto è stato rifatto una volta sola. Le altre volte dove è stato? Chi ha incontrato? Anche il racconto delle giornate milanesi non torna. Dichiara di aver evitato di prendere contatto con qualsiasi persona per non compromettere nessuno nella sua azione, trattandosi di azione individuale.

Eppure il suo amico veneziano Rodolfo Mersi, ex sindacalista Cisnal e iscritto all’Msi, lo smentisce: Bertoli avrebbe trascorso la sera precedente l’attentato a casa sua. Bertoli telefona alle 20:30 a casa dell’amico dove c’è la moglie, che raggiunge alle 21:00. Mersi arriverà tra le 23:00 e le 23:15 e dopo accompagnerà Bertoli alla stazione Centrale. Questo passaggio è importante, perché sembra avere premura di arrivarvi per la mezzanotte, «come se avesse un appuntamento», dirà la moglie di Mersi. Rientrerà alla Pensione Italia di via Vitruvio tra le 00:45 e l’1:30. Mersi e la moglie aggiungono alla loro testimonianza un elemento che apparirà più chiaro nel corso degli anni: dicono che Bertoli avrebbe detto di «essere invischiato in cose dalle quali non poteva uscire».

Anche la ricostruzione degli orari della strage è confusa. Bertoli sostiene di essere arrivato sul posto alle 10:40, ma alcune testimonianze, due baristi e alcuni poliziotti, lo collocano in zona almeno 40 minuti prima e secondo la testimonianza di un agente di polizia sarebbe stato anche in compagnia di due uomini, dei quali poi produce una descrizione. Inoltre Bertoli dice di aver appreso dal giornale che quel giorno si teneva la commemorazione della morte di Calabresi. Insomma racconta agli inquirenti di aver attraversato il Mediterraneo con una bomba in tasca, senza nemmeno sapere se ci fosse l’obiettivo del suo attentato.

Dalle indagini emerge che quella mattina a pochi passi dalla strage si trova un personaggio, che ha già avuto un ruolo nelle trame italiane. Non è chiaro che cosa ci faccia in quel momento, ma la circostanza è curiosa. Si tratta di Enrico Rovelli, uno dei testi che accusa Valpreda nel processo per piazza Fontana, nonché informatore dei servizi segreti con il nome in codice di “Anna Bolena”. Rovelli è un impresario musicale e proprietario di locali. Negli anni a venire aprirà la nota discoteca rock a Milano, il Rolling Stones, e sarà anche manager di Vasco Rossi. Quella mattina ha un appuntamento con un giovane cantautore modenese, Corrado Bacchelli, passato poi alla storia come produttore di alcuni successi di Alan Sorrenti.

Rovelli è stato un informatore di Calabresi e ora lo è di Vito Panessa, l’uomo di fiducia del defunto commissario. Rovelli anni prima fece una soffiata sul passaporto che Bertoli aveva in mano, appartenente all’estremista di sinistra di Bergamo Massimo Magri. Bertoli dirà di averlo ricevuto da un arabo incontrato a Milano, ma Calabresi anni prima – su suggerimento di Rovelli – indagava proprio sul fatto che gli era stato fornito dagli anarchici del Ponte della Ghisolfa, il circolo milanese frequentato da Pietro Valpreda, l’anarchico in quel momento accusato della strage di piazza Fontana.

La pista nera e il segreto del Conte

Bertoli finisce a processo, viene condannato all’ergastolo, ma la vicenda non è finita, perché la questione giudiziaria si trascina fino agli anni Novanta. Tanto per cominciare non è chiaro se vi siano delle complicità. Chi ha armato l’attentatore? Perché tante bugie? Ma soprattutto perché tante incongruenze? Bertoli dice di avere frequentato gli anarchici veneziani, ma anche qui non ci sono riscontri. Tutti lo ricordano come un delinquente comune, con due o tre amici nell’estrema destra. Ma a margine emergono altre novità. Per esempio Bertoli è stato fino al 1960 una fonte del servizio segreto Sifar con il nome in codice “Negro”. La fonte sarebbe stata disattivata , ma nulla impedisce che possa essere stata riattivata.

Ma non solo, la notizia rimarrà ammantata di mistero, ma il terrorista sarebbe stato in forza a Gladio, la struttura parallela di difesa dal comunismo attiva in Italia fin dal 1956. Il suo nome non rientra negli elenchi “ufficiali”, resi noti nel 1990, ma è sempre stato forte il sospetto che ci fosse un elenco mai reso pubblico.

In Veneto in quegli anni è attiva un’altra organizzazione paramilitare della quale fanno parte anche uomini dello Stato, tra i quali il colonnello Amos Spiazzi. Sono i Nuclei di difesa dello Stato, ai quali appartengono anche Franco Freda e Giovanni Ventura, gli attentatori di piazza Fontana, riconosciuti, ma non più processabili.

Ma che legame ha il delinquente sedicente anarchico Bertoli con loro? La storia è di quelle che per anni rimangono sepolte e riaffiora alla metà degli anni Novanta.

Nel 1995 decide di parlare Ivo Della Costa, un funzionario del partito comunista in pensione. Lui stesso spiega di avere avuto vari contatti durante la propria attività politica con il conte Pietro Loredan, l’ennesimo bislacco personaggio di questa vicenda. Il conte viene definito dallo stesso Della Costa uno «squinternato» con «velleità pseudo-rivoluzionarie». Proprio in virtù di queste sue idee di rivoluzione, per un certo periodo aveva frequentato Della Costa, prima di incrociare la galassia nera degli ordinovisti.

Loredan ha anche un discreto portafoglio, che presto attira l’interesse della coppia Freda e Ventura, che si radunano attorno al suo locale La Falconiera a Volpago del Montello, in provincia di Treviso. Siamo alla fine degli anni Sessanta e il conte attira anche qualche informatore dei servizi segreti nella sua rete. Dopo qualche anno, nei quali i contatti tra i due sono diradati, Loredan sveglia con una telefonata alle 6:30 di mattina Della Costa. È il 15 maggio 1973, due giorni prima della strage alla questura di Milano. Il conte è agitato e fissa un appuntamento con il funzionario comunista. Loredan senza mezzi termini dice: «Questa volta spero mi diate un po’ di fiducia. A Milano, tra 48 ore succederà un attentato contro un’alta personalità del governo». Il nobile non dice molto di più e nemmeno specifica da quale orientamento politico arriverà l’attentato, ma viste le frequentazioni per Della Costa è chiaro che la matrice è neofascista. La sua, visto anche il personaggio da molti ritenuto inaffidabile, potrebbe essere l’ennesima sparata, ma il militante comunista decide di credere all’amico.

Della Costa va a Venezia e dal dirigente del comitato regionale del Veneto del Pci, l’onorevole Ceravolo, ed espone quanto sa. I due salgono in auto e partono per Milano. Ceravolo ha avvertito la sede centrale del partito comunista, riuscendo a fissare un appuntamento con Giancarlo Pajetta, l’ex ragazzo rosso, negli anni Settanta divenuto esponente di punta del partito. Pochi giorni dopo, Della Costa apprende della strage: capisce che i suoi sforzi sono stati vani, visto che la strage si è compiuta.

Loredan da quel giorno sparisce dall’Italia, finirà in Argentina dove ha dei possedimenti, proprio come Giovanni Ventura. Solo negli anni Novanta tornerà in Italia, ma i giudici che indagano sulla strage di via Fatebenefratelli non potranno sentirlo: è deceduto sei mesi prima della riapertura delle indagini. Solo Della Costa parlerà coi giudici, dopo aver letto un’intervista dello stesso Bertoli al Corriere della Sera (il quale riprende quanto l’uomo ha dichiarato al TG5 nel 1995, ndr), nella quale negava ancora una volta contatti con l’estrema destra. Altri testimoni seguiranno e confermeranno la plausibilità di quanto rivelato da Dalla Costa.

L’universo neofascista intorno alla strage della Questura

Diretta derivazione del Centro Studi Ordine Nuovo, il Movimento politico Ordine Nuovo nasce nel 1969 da alcuni ex militanti del Movimento Sociale in polemica con la linea troppo morbida della segreteria. I suoi componenti sono responsabili di diversi attentati terroristici e nel 1973 viene decretato lo scioglimento dell’organizzazione, che proseguirà in modo clandestino. Gladio era un’organizzazione para militare, appartenente alla rete stay behind, organizzata dagli Usa per impedire la presa del potere dei partiti comunisti nei paesi occidentali alleati. I Nuclei di difesa dello Stato sono una presunta organizzazione militare clandestina, la cui esistenza è evidenziata solo dalle testimonianze.

Gli anni Novanta e le nuove rivelazioni

Sono passati più di vent’anni da quella strage. Le bombe che insanguinano l’Italia ci sono ancora. Ora le mette la mafia. Ma il pericolo comunista è ormai un ricordo. Il Partito addirittura ha cambiato nome e lo stesso ha fatto l’Msi, dal quale provenivano buona parte dei componenti di Ordine Nuovo. L’Italia ha vissuto un decennio di benessere negli anni Ottanta, ma i Novanta con gli scandali e le crisi economiche, stanno per presentare il conto.

Quella stessa procura di Milano che per anni indagò sulle stragi oggi è al centro delle cronache per altri motivi. Un pool di magistrati con le proprie inchieste sulla corruzione sta mettendo a ferro e fuoco la classe politica. Ma nei corridoi di Palazzo di Giustizia si lavora ancora sulle indagini degli anni Settanta. Anche perché qualcosa si è mosso. Il velo è stato squarciato da Vincenzo Vinciguerra, che già da tempo in Veneto parla di Ordine Nuovo, di contatti con i servizi segreti e con la Cia, e addirittura di una rete internazionale, dedita all’eversione.

Vinciguerra, che è già stato condannato, è una colata di rivelazioni. Parla. E tanto. Anche di quando gli ordinovisti veneti, gli chiesero di commettere l’omicidio di Mariano Rumor. L’ex esponente democristiano doveva essere punito, per aver avuto paura di dichiarare lo stato di emergenza all’indomani della strage di piazza Fontana. C’erano degli accordi con alcuni apparati dello stato. Dopo le bombe di Milano e Roma andava dichiarato lo stato di emergenza e i militari avrebbero preso il potere. Ma i troppi morti (nessuno si aspettava una strage) hanno suscitato l’indignazione pubblica. Dopo aver assistito ai funerali Rumor fece un passo indietro. E per questo doveva pagare. Vinciguerra si rifiuta di commettere l’attentato, ma gira voce che gli ordinovisti veneti stiano ripiegando su Bertoli, uomo definito «pronto a tutto». Il colpevole ideale, uno sprovveduto, facile all’alcol, che può facilmente essere fatto passare per anarchico.

Vinciguerra non è l’unico a parlare. Negli anni Novanta anche Carlo Digilio, detto “Zio Otto” conferma che c’è la volontà di colpire Rumor. L’uomo perfetto per l’operazione è proprio Bertoli, istruito dagli ordinovisti. È abbastanza per riaprire un processo che vedrà Bertoli condannato insieme a i due vertici di Ordine Nuovo: Delfo Zorzi, e Carlo Maria Maggi. L’appello ribalterà la sentenza e la cassazione lo confermerà: Bertoli per la giustizia italiana è l’unico colpevole.

Dopo aver tentato il suicidio in carcere, Bertoli ne uscirà, ma vivrà ben poco. Prostrato nel fisico trascorrerà gli ultimi anni a Livorno, entrando in contatto con i gruppi ultrà della squadra di calcio, con ambienti cattolici e dell’ultra sinistra, trovando asilo in qualche rivista anarchica dove con i suoi scritti ribadiva di essere anarchico e non neofascista. Morirà nel 2000 di cause naturali portando con sé tutti i suoi segreti. E forse anche quelli di qualcun altro.

CREDITI

Autori

Andrea Ballone

Editing

Lorenzo Bagnoli

Illustrazioni