Come i clan usano gli e-wallet per riciclare denaro sporco

Come i clan usano gli e-wallet per riciclare denaro sporco

Matteo Civillini

Il manuale del riciclaggio di capitale mafioso italiano via gioco d’azzardo prevede, secondo quanto emerso in anni di indagini, tre passaggi. Primo: aprire una società in un Paese che non fa troppe domande durante la procedura per richiedere la licenza per il gioco online. Secondo: creare una rete di centri scommesse in Italia dove i giocatori possono venire a conoscenza del marchio e fare le loro puntate direttamente. Il controllo del territorio esercitato dai clan facilita il lavoro alle aziende mafiose. Terzo step, il più difficile: trovare un metodo di pagamento per far transitare i soldi tra le agenzie italiane e la case madre all’estero.

Data l’origine illecita – sono infatti proventi di attività dell’organizzazione criminale – devono passare il più inosservati possibile. Dalle casse delle piattaforme di gioco passano però fino a diverse centinaia di migliaia di euro al giorno: la possibilità di controlli delle autorità finanziarie e antiriciclaggio è molto alta. Le banche tradizionali sono obbligate a segnalare possibili operazioni sospette, tra cui vengono inquadrate anche quelle che hanno un ammontare particolarmente rilevante. A chi rivolgersi, quindi?

La risposta, secondo le indagini, sono alcuni istituti di moneta elettronica, operatori finanziari meno noti al grande pubblico, che si sono ricavati una nicchia di affari servendo clienti ad alto rischio, in gran parte nel mondo del gioco online. Il vantaggio: consentono spostamenti di denaro pressoché immediati che secondo gli investigatori «sfuggono ai sistemi di tracciabilità in Italia».

La moneta elettronica è l’equivalente digitale del denaro contante, memorizzato su un dispositivo elettronico o su un server remoto. Gli istituti di e-money non hanno filiali fisiche ma forniscono ai clienti account online dove caricare e gestire la valuta elettronica.

#Gambling

Come i clan usano gli e-wallet per riciclare denaro sporco

Veloci e meno tracciabili dei conti correnti tradizionali, i servizi di portafoglio elettronico sono la frontiera più tecnologica del riciclaggio: come girano i proventi del gioco d’azzardo infiltrato dalle mafie

Dopo il caso Wirecard

Wirecard, l’ex gioiellino tedesco della fintech finito in bancarotta nell’ambito della più importante inchiesta internazionale mai fatta finora sul settore della tecnofinanza, è stata tra le società che hanno gestito pagamenti digitali e trasferito fondi illeciti di siti di scommesse infiltrati dalla mafia. Ma non è l’unica. Anzi, stando alle carte di diverse indagini antimafia, altri due tra i più importanti servizi di moneta elettronica sono coinvolti: Skrill e Neteller. Il primo è Global Payment Partner del Milan da maggio 2020; il secondo nel mondo del calcio sponsorizza il Crystal Palace, una delle squadre di Londra in Premier League, e sovvenziona l’Italian Poker Tour dal 2013.

Un tempo rivali, oggi Skrill e Neteller fanno parte dello stesso gruppo: il colosso dei pagamenti digitali Paysafe. Sede sull’Isola di Man e proprietà in mano a due tra i più grandi fondi di private equity al mondo, Blackstone Group e CVC Capital Partners. Per avere un’idea della potenza di fuoco, Blackstone in Italia è il fondo che si è comprato il 20% di Versace e la storica sede del Corriere della Sera, mentre CVC è in trattativa da maggio per acquistare il 20% della Serie A di Calcio.

Il loro prodotto di punta sono gli e-wallet, salvadanai virtuali collegati a un indirizzo email, dove gli utenti possono depositare o prelevare denaro, e inviarne ad altri dal proprio conto.

Wirecard, l’ex gioiellino tedesco della fintech finito in bancarotta nell’ambito della più importante inchiesta internazionale mai fatta finora sul settore della tecnofinanza, è stata tra le società che hanno gestito pagamenti digitali e trasferito fondi illeciti di siti di scommesse infiltrati dalla mafia. Ma non è l’unica

È possibile che Skrill, Neteller e la capogruppo Paysafe non fossero a conoscenza dei legami degli operatori di gambling con la criminalità organizzata. Ma, in quanto organismi finanziari regolamentati, devono aderire ai più alti standard anti-riciclaggio e segnalare ogni operazione sospetta.

Paysafe, raggiunta da IrpiMedia dice di disporre di «meccanismi di compliance onnicomprensivi affinché venga scongiurato l’utilizzo irregolare dei servizi». «Una traccia elettronica delle transazioni completate da un cliente è sempre disponibile – specificano da Paysafe – e se identifichiamo un comportamento sospetto, blocchiamo immediatamente gli account e, se appropriato, segnaliamo tale attività alle autorità responsabili».

Paysafe ha segnato ricavi per 525 milioni di dollari nel 2019. Un successo frutto di un’astuta mossa commerciale: servire una di quelle nicchie di mercato in rapida crescita ma che le banche tradizionali non vogliono toccare, il gioco d’azzardo online. Nel 2017, ultimo anno in cui Paysafe ha divulgato dati dettagliati, il settore rappresentava il 45% dei ricavi totali di Paysafe. Fino a qualche anno prima il gambling pesava fino al 95%, a detta dei vertici dell’azienda.

Vuoi fare una segnalazione?

Diventa una fonte. Con IrpiLeaks puoi comunicare con noi in sicurezza

È possibile che Skrill, Neteller e la capogruppo Paysafe non fossero a conoscenza dei legami degli operatori di gambling con la criminalità organizzata. Ma, in quanto organismi finanziari regolamentati, devono aderire ai più alti standard anti-riciclaggio e segnalare ogni operazione sospetta

«L’esempio perfetto del perché un consumatore possa voler usare una Paysafecard è la situazione in cui non possiede una carta di credito. Vuole utilizzare il denaro contante. E forse vuole rimanere anonimo»

Top manager PaySafe agli azionisti

Perché il mercato europeo

L’inarrestabile ascesa di Skrill e Neteller affonda le radici nel boom dei siti di scommesse e casinò virtuali dei primi anni Duemila. Fondata nel 2001 a Londra, Skrill è diventato il primo istituto di moneta elettronica a ricevere la licenza dalla Financial Conduct Authority, l’autorità di vigilanza dei mercati finanziari britannica. Nato due anni prima Neteller dalle menti di due canadesi, Stephen Lawrence e John David Lefebvre, Neteller nel 2004 si è trasferito nel Regno Unito per quotarsi su un listino della borsa di Londra, raccogliendo 70 milioni di dollari.

La strada del successo sembrava segnata, ma nel gennaio 2007 i due fondatori sono stati arrestati dall’FBI con l’accusa di aver gestito transazioni illecite per 10 miliardi di dollari favorendo l’accesso di clienti americani ai siti di scommesse offshore. Negli Usa il solo fatto di giocare d’azzardo online è illegale. Costretta a chiudere battenti negli Stati Uniti e pagare una multa da 136 milioni di dollari, da allora Neteller si è concentrata sul mercato europeo.

Tra i benefici a lungo termine degli e-wallet, scriveva Neteller nel rapporto annuale del 2009, ci sono «l’anonimato, la sicurezza e la flessibilità nel gestire soldi online».

Un concetto ripetuto nel 2015, quando il colosso dei pagamenti elettronici ha lanciato la PaysafeCard, una sorta di buono che arriva fino a 100 euro che si può acquistare in supermercati, benzinai o edicole e poi utilizzare online, inserendo un codice pin. «L’esempio perfetto del perché un consumatore possa voler usare una Paysafecard è la situazione in cui non possiede una carta di credito. Vuole utilizzare il denaro contante. E forse vuole rimanere anonimo», spiegava anni fa un top manager agli azionisti

I soldi di Centurionbet

Tra i clienti dei sistemi di pagamento di Paysafe c’è stata fino al 2017 Centurionbet, società maltese di gambling controllata dai Martiradonna, famiglia vicina alla criminalità organizzata barese. Centurionbet gestiva il marchio Bet1128, che all’apice del successo vantava diverse decine di centri scommesse in Italia, Spagna e Sudamerica, e un fatturato annuale stimato in oltre 100 milioni di euro. Secondo le indagini che hanno portato alla stop dell’attività nel maggio 2017, Francesco Martiradonna, burattinaio occulto di Centurionbet, aveva stretto rapporti con diverse famiglia di ‘ndrangheta e cosa nostra per la diffusione del brand. Francesco Martiradonna è stato condannato dal Tribunale di Catanzaro a 11 anni e 4 mesi in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa.

Secondo gli investigatori, la quasi totalità dei soldi in entrata e uscita su Bet1128 passavano da Skrill, Neteller e PaysafeCard. Dall’analisi dei documenti contabili della società emerge come in una sola giornata gli introiti accumulati sulle tre piattaforme superassero i 220mila euro.

Un passaggio di una delle inchieste su Centurionbet/IrpiMedia

Dentro Centurionbet, i conti Skrill e Neteller servivano anche per gestire alcuni passaggi delicati. Come il pagamento dei centri scommesse, che accettavano giocate e liquidavano vincite in contanti, violando la legge sul gioco d’azzardo. O ancora per il pagamento in nero delle provvigioni dei cosiddetti “master”, gli agenti di zona che facevano da raccordo tra i centri scommesse e la casa madre. Il motivo lo spiega un manager di Bet1128 intercettato dagli inquirenti durante una conversazione con un aspirante “master”.

Quest’ultimo gli chiede come poter incassare migliaia di euro senza un giustificativo lecito: il manager risponde di non preoccuparsi perché utilizzando i circuiti delle carte di Skrill e Neteller non avrebbe avuto problemi. Infatti non è possibile risalire al proprietario della carta e un domani, in caso di controlli, avrebbe potuto giustificare il denaro come semplice vincita da poker.

Anche i vertici di Centurionbet avrebbero fatto affidamento su Skrill e Neteller per custodire parte del proprio patrimonio. È lì infatti che, secondo le indagini, i fratelli Martiradonna hanno trasferito i depositi bancari dell’associazione criminale, dopo aver sospettato dell’esecuzione di sequestri da parte della Guardia di Finanza. Una fonte vicina all’indagine riferisce a IrpiMedia che non è stato possibile approfondire questo aspetto finanziario per mancanza di collaborazione da parte degli istituti di pagamento.

Dentro Centurionbet, i conti Skrill e Neteller servivano anche per gestire alcuni passaggi delicati. Come il pagamento dei centri scommesse, che accettavano giocate e liquidavano vincite in contanti, violando la legge sul gioco d’azzardo

Finanziatori di latitanti a Castelvetrano

Non sarebbe successo solo a loro. Anche gli agenti della DIA di Trapani si sono trovati la strada sbarrata quando sono andati a bussare alla porta di Skrill. Indagavano sugli affari di Carlo Cattaneo, giovane imprenditore di Castelvetrano, in provincia di Trapani, a capo di decine di centri scommesse sparsi per la Sicilia Occidentale. Un business da centinaia di migliaia di euro alla settimana che, secondo gli investigatori, avrebbe anche finanziato la latitanza di Matteo Messina Denaro, ultimo capo dei capi di cosa nostra.

Grazie alle intercettazioni gli inquirenti erano riusciti a scoprire i numeri di alcune carte Skrill che l’organizzazione criminale aveva utilizzato per spostare i proventi del gioco illegale. Una pista promettente per ricostruire il flusso di denaro. Ma, «alla richiesta di fornire indicazioni sull’identità dei titolari delle carte – si legge sull’ordinanza cautelare – la società britannica ha risposto che non è possibile fornire alcuna indicazione in merito».

Paysafe spiega ancora a IrpiMedia che, in quanto istituto finanziario regolamentato, «si attiene ai suoi obblighi in modo estremamente serio». «La nostra policy – spiega un portavoce della società – è sempre dare priorità a qualsiasi richiesta di assistenza che riceviamo dalle autorità».

Nelle agenzie di Cattaneo si scommetteva con Bet17Nero, un sito con dominio “.com” non autorizzato in Italia. Una di quelle che in gergo vengono chiamate skin, ovvero piattaforme di gioco con un’interfaccia grafica distinta ma che si appoggiano su un unico sistema di gioco. A programmarle, e poi venderle ai distributori come Cattaneo, sono società di informatica, spesso localizzate all’estero.

IrpiMedia è gratuito

Ogni donazione è indispensabile per lo sviluppo di IrpiMedia

Le mille vesti di LB Group

Dietro Bet17Nero, per esempio, c’era LB Group, azienda maltese di proprietà di Sergio Moltisanti. Ragusano ma ben inserito negli ambienti che contano sull’isola, tanto da guadagnarsi l’ammissione nell’ordine dei Cavalieri di Malta. Il mercato principale di LB Group era però sempre l’Italia, dove è finita spesso invischiata in indagini antimafia. Il caso Cattaneo, innanzitutto. Ma anche John Calogero Luppino, punto di riferimento di LB Group nel trapanese, nel febbraio 2019, quando è stato arrestato con le accuse di associazione mafiosa ed estorsione. Legami pericolosi che hanno fatto perdere all’azienda attiva nel settore del gioco d’azzardo la licenza in precedenza concessa dall’autorità del gioco maltese.

Da allora LB Group formalmente non opera più nel mercato del gioco online. Ma, come IrpiMedia ha potuto ricostruire, numerose skin gestite dalla società maltese non sono mai sparite. Come scommettisports.com, deabet.eu, o betxgo.com, per citarne solo alcune. Accettano ancora oggi le puntate dei giocatori, mantenendo stesso nome e stessa grafica. Con un’unica, importante, modifica: ogni riferimento alla LB Group è stato rimpiazzato con un’altra società maltese, Blue Sky Ltd.

A guidare l’azienda un altro ragusano, che curiosamente ha altri affari comuni con Moltisanti, capo di LB Group. Persa la licenza maltese, i loro siti di scommesse fanno oggi affidamento su una concessione ottenuta a Curaçao, nelle Antille Olandesi. Ma, per far sì che la macchina funzioni a perfezione ci vuole ovviamente un sistema di pagamento che permetta ai giocatori di caricare i soldi e incassare le vincite. I siti indicano come metodi di pagamento i nomi di Skrill e PaysafeCard, gli istituti di moneta elettronica preferiti dal mondo del gambling. Tutto cambia perché nulla cambi.

Paysafe ha inoltre dichiarato a IrpiMedia di fare affidamento su «solidi processi di controllo e verifica» prima di processare pagamenti per un esercente. «Siamo consapevoli dell’esistenza di operatori che affermano falsamente di offrire i nostri servizi con lo scopo di aumentare la loro credibilità», ha concluso la società.

CREDITI

Autori

Matteo Civillini

Editing

Lorenzo Bagnoli

Come la mafia ha usato Wirecard per i portali del gioco d’azzardo

Come la mafia ha usato Wirecard per i portali del gioco d’azzardo
Matteo Civillini Gianluca Paolucci

Betuniq era una società di scommesse che utilizzava un modo ingegnoso per aggirare la normativa italiana sul gioco d’azzardo e riciclare montagne di denaro. Il sistema si reggeva su due elementi: l’appoggio della ‘ndrangheta e i servizi di Wirecard, l’ex colosso tedesco del fintech, franato nel giugno scorso con un buco di due miliardi e una storia opaca ancora in gran parte da scrivere. BetUniq funzionava così: una fitta rete di agenzie camuffate da internet point dove, in teoria, i clienti avrebbero dovuto creare un proprio profilo online e scommettere senza l’intermediazione del centro.

I 3,9 milioni di euro passati da Wirecard

In realtà, le agenzie accettavano scommesse in contanti che venivano poi caricate su un unico conto alimentato da un fido concesso da Uniq Group. Società maltese a capo di Betuniq, Uniq Group disponeva di un conto corrente aperto presso Wirecard che veniva utilizzato per il trasferimento di soldi dai centri scommesse in Italia alla casa madre. Nel 2014 erano transitati su questo conto circa 3,9 milioni di euro, che secondo gli investigatori della Dda di Reggio Calabria rappresentavano una parte degli incassi illeciti derivanti dalla raccolta fisica delle scommesse.

L’agenzia europea che costruisce le frontiere in Tunisia

A metà luglio è stato siglato il Memorandum of understanding tra Ue e Tunisia, con al centro il tema migratorio. Le esigenze di Tunisi sono rappresentate all’Europa anche da un’agenzia austriaca, l’Icmpd, di un cui un documento interno svela alcuni segreti

Le madri lontane

Le migliaia di braccianti rumene e bulgare che lavorano nei campi di Italia, Spagna e Germania devono separarsi dai figli per mesi. La lontananza e la “maternità delegata” segnano i figli per sempre

Betuniq non esiste più dal luglio 2015, spazzata via dall’operazione “Gambling” della Dda reggina. Il processo d’Appello per 22 imputati si è chiuso un anno fa con sedici condanne e sei assoluzioni. Tra i reati contestati l’intestazione fittizia di beni, l’associazione per delinquere e l’associazione mafiosa. A controllare il gruppo era Mario Gennaro, ai tempi espressione delle più importanti cosche reggine della ‘ndrangheta e oggi pentito. Proprio a una serie di famiglie di ‘ndrangheta facevano riferimento le agenzie di BetUniq messa in piedi da Gennaro. È possibile che Wirecard non fosse a conoscenza dei legami degli operatori di gambling con la criminalità organizzata. Ma, in quanto organismo finanziario regolamentato, l’azienda tedesca deve aderire ai più alti standard anti-riciclaggio e segnalare ogni operazione sospetta.

Tra le tante ombre del caso, oltre alla incapacità di regolatori e controllori di intervenire malgrado i numerosi allarmi, anche la disinvoltura con la quale Wirecard si è prestata a regolare transazioni di clienti ai limiti del legale – dal porno estremo al trading di prodotti finanziari ad alto rischio.

Vuoi fare una segnalazione?

Diventa una fonte. Con IrpiLeaks puoi comunicare con noi in sicurezza

I casi Centurionbet e Sks365

Fino alle organizzazioni criminali vere e proprie. Perché quello di Betuniq non è un caso isolato e le cosche reggine non sono le sole, tra le organizzazioni criminali, ad aver testato l’efficienza di Wirecard per raccogliere e trasferire denaro derivante da attività illecite. Tra i suoi clienti c’era anche Centurionbet, società di gambling controllata dalla famiglia Martiradonna, vicina alla criminalità organizzata barese. Wirecard processava i pagamenti degli scommettitori sul sito Bet1128. Marchio che all’apice della propria espansione commerciale vantava diverse decine di centri scommesse in tutt’Italia e un fatturato stimato di oltre 100 milioni di euro.

Il rapporto tra Wirecard e Centurionbet sarebbe proseguito fino al maggio 2017, quando l’azienda maltese ha chiuso i battenti in seguito a un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. Schermata dietro una serie di scatole vuote a Panama e alle Isole Vergini Britanniche, la proprietà di Centurionbet era nelle mani di Francesco Martiradonna. Condannato l’anno scorso a 11 anni e 4 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa per aver fatto affari nel gioco d’azzardo con il clan Arena di Crotone.

Del legame tra Wirecard e Centurionbet ha scritto nei giorni scorsi il Financial Times. Un ex dipendente dell’azienda tedesca ha riferito al quotidiano britannico che Wirecard avrebbe svolto una revisione interna su Centurionbet dopo che erano emerse infiltrazioni mafiose in un altro operatore maltese. L’analisi di compliance avrebbe avuto esito positivo sulla base di garanzie fornite dall’azienda.

Il rapporto tra Wirecard e Centurionbet sarebbe proseguito fino al maggio 2017, quando l’azienda maltese ha chiuso i battenti in seguito a un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro

Ad affidare i propri soldi a Wirecard è stata in passato anche SKS365, un’altra azienda nota alle cronache giudiziarie. Nel novembre 2018 le procure di Reggio Calabria, Bari e Catania hanno accusato l’azienda di aver stretto alleanze, almeno fino al 2017, con clan di Cosa Nostra, Sacra Corona Unita e ‘ndrangheta. Ponendo così le basi per costruirsi una solida posizione nel mercato.

Oggi la gestione di SKS365 è passata a un nuovo management estraneo ai fatti incriminati. Ma all’epoca la proprietà era nelle mani di manager poi arrestati per associazione mafiosa, riciclaggio e truffa aggravata. Dalle carte dell’indagine emerge che tra numerosi conti correnti in mezza Europa, SKS365 ne aveva anche due con Wirecard, nei quali alle fine del 2015 erano custoditi oltre un milione e mezzo di euro.

IrpiMedia è gratuito

Ogni donazione è indispensabile per lo sviluppo di IrpiMedia

CREDITI

Autori

Matteo Civillini Gianluca Paolucci

In partnership con

Editing

Luca Rinaldi

Gioco d’azzardo: giocate in aumento e l’occhio sull’online per l’emergenza Covid

2 aprile 2020 | di Cecilia Anesi, Matteo Civillini

Non si ferma la febbre del gioco d’azzardo in Italia. Nel 2019 si tocca quota 110 miliardi, un dato costantemente in aumento da oltre un decennio. Numeri da manovra finanziaria che hanno portato nelle casse dello Stato poco più di dieci miliardi nell’anno passato. Ma quanto ci guadagna davvero l’Italia se incassati miliardi dal settore deve fare i conti con i costi sanitari e sociali del gioco d’azzardo? Stando alle analisi della Federazione Italiana degli Operatori dei Dipartimenti e dei Servizi delle Dipendenze (FederSerD), ben poco: più aumenta la dipendenza da gioco più l’incidenza sul sistema sociale sanitario si alza.

In attesa della pubblicazione del Libro Blu – il report sul gioco d’azzardo legale in Italia, redatto annualmente dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli (ADM) – l’osservatorio sul gioco d’azzardo di Avviso Pubblico ha ricevuto dagli stessi Monopoli i dati provvisori relativi al 2019.

La raccolta, ovvero l’ammontare complessivo delle puntate effettuate dalla collettività dei giocatori, ha superato i 110 miliardi di euro, un dato salito del 3,5% rispetto al 2018 e aumentato del 132% nell’ultimo decennio. Un altro dato rilevante è quello del giocato pro-capite, con 2.180 euro per cittadino. Un dato che fotografa la “distribuzione” del gioco nella popolazione totale.

Dai dati si nota come l’ammontare delle giocate effettuate dalla popolazione su tutti i giochi disponibili su rete fisica ha superato il miliardo di euro con le province di Roma, Milano e Napoli al vertice della graduatoria. Ultime in classifica invece le province di Isernia, Aosta e Enna. Guardando invece al consumo pro capite, la raccolta più alta da giochi di rete fisica avviene in provincia di Prato, Teramo e Rovigo.

Quota gioco d’azzardo pro-capite in Italia (mld €) | Fonte: Rielaborazione dati IrpiMedia su dati AAMS/Avviso Pubblico

Dati comunque al ribasso, poiché si tratta di una radiografia del solo gioco d’azzardo legale, e controllato dai Monopoli. Difficile stimare la quota di gioco illegale, in particolare quella legata all’online gaming. Un settore che, stando al gioco legale e tracciato, è cresciuto del 70% negli ultimi quattro anni: nel 2019 ha superato i 36 miliardi di euro. Dall’altra parte le indagini giudiziarie degli ultimi anni raccontano di come il gioco online sia cresciuto di pari passo anche nelle sue declinazioni illegali.

Gioco online, un settore permeato dalle mafie

Guadagni stellari, rischi minimi e sanzioni modeste. Il gioco d’azzardo è ormai da tempo terra di conquista per le organizzazioni mafiose. Un’infiltrazione che si è fatta sempre più sofisticata e pervasiva. I gruppi criminali non si muovono solo sui canali paralleli delle slot truccate e delle “bische” clandestine. Si estendono in modo significativo nel perimetro delle attività di gioco apparentemente lecito, come evidenziato anche in una relazione dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Anello particolarmente debole del settore sono i siti web di scommesse gestiti da operatori esteri. Imprenditori portatori di interessi criminali costituiscono società in paesi europei, Malta in primis, dove i controlli sono meno rigidi.

Grazie alle normative comunitarie possono poi aprire sale scommesse in tutta l’Unione, compresa l’Italia, a patto che i clienti registrino un proprio profilo in cui caricare fondi con la carta di credito, e giochino direttamente sul sito connesso ai server esteri. Spesso in Italia le cose vanno diversamente. I giocatori d’azzardo entrano in un punto vendita dove pagano in contanti per scommettere online. Giocate che, a questo punto, non transitano più da un account individuale, ma da una cassa unica che rende le scommesse anonime. Una pratica del tutto illegale per gli operatori non riconosciuti dall’AAMS (i monopoli italiani), non fosse altro perché permette anche di creare enormi fondi neri.

Quota delle giocate in Italia e gettito fiscale (mld €) | Fonte: Rielaborazione dati IrpiMedia su dati AAMS

In questo modo i flussi finanziari sfuggono al monitoraggio delle autorità italiane, lasciando la porta aperta a maxi-operazioni di riciclaggio ed evasione fiscale.

Numerose indagini giudiziarie hanno evidenziato inoltre come concessionari di siti legali gestiscano contemporaneamente anche piattaforme di gioco illecite e si rivolgano ai vertici delle più potenti famiglie di ‘ndrangheta, Cosa Nostra e Camorra per garantire la diffusione sul territorio. È il caso, per esempio, dei fondatori del noto marchio Planetwin che, fino almeno a tutto il 2017, hanno operato su un doppio binario. Ufficialmente i loro centri scommesse disponevano di una licenza dell’AAMS. Ma, parallelamente, hanno creato un circuito di scommesse illegali stringendo alleanze con gruppi criminali, tra cui spicca la famiglia Martiradonna di Bari, veri “padroni” dell’infiltrazione mafiosa nel gioco online. Una sorta di franchising criminale che rende tutti contenti: la potenza di fuoco dei clan spazza via la concorrenza in cambio di una fetta dei guadagni. A perderci è lo Stato: 124 milioni di euro sono state le imposte evase da Planetwin, secondo le contestazioni della Guardia di Finanza.

I costi sociali del gioco d’azzardo

La consapevolezza della gravità che può assumere la dipendenza da gioco eccessivo è ormai abbastanza diffusa, ma non sembra essere ancora accompagnata da un’attenzione particolare.

Uno studio della FederSerD ha appurato che circa un italiano su due gioca d’azzardo almeno una volta nel corso di un anno, ma la maggior parte non spende più di 10 euro al mese. Non tutti diventano ludopatici, certo, ma nel solo 2015 i giocatori d’azzardo problematici erano circa due milioni.

«Credo che nel post-crisi sanitaria da Covid19 si debba porre moltissima attenzione, perché è chiaro che una delle ragioni per cui la gente gioca è un’aspettativa miracolistica di risolvere i propri problemi, e da questo punto di vista sicuramente la situazione di crisi economica gravissima come quella che si preannuncia rischia di spingere la gente a giocare»

Alfio Lucchini, esecutivo nazionale FederSerD

Per calcolare il costo sociale, lo studio FederSerD si basa su dati 2014 quando la raccolta si aggirava attorno agli 84 miliardi, e stabilisce un costo sociale di almeno 2,7 miliardi di euro. Abbiamo voluto chiedere ai ricercatori se è verosimile pensare che i costi sociali, a fronte di un aumento di raccolta nel 2019 a 110 miliardi di euro, sia salito proporzionalmente.

«Sarebbe importante – dice a IrpiMedia Alfio Lucchini, psichiatra e componente dell’esecutivo nazionale di FederSerD – proseguire gli studi e capire se l’incidenza del costo sociale è in aumento. Con le difficoltà sanitarie e sociali di oggi, è prevedibile un’impennata di spesa».

«Credo che nel post-crisi sanitaria da Covid19 si debba porre moltissima attenzione, perchè è chiaro che una delle ragioni per cui la gente gioca è un’aspettativa miracolistica di risolvere i propri problemi, e da questo punto di vista sicuramente la situazione di crisi economica gravissima come quella che si preannuncia – conclude Lucchini – rischia di spingere la gente a giocare».

La ludopatia è un problema che negli ultimi anni sta impattando sempre di più sul sistema sanitario e i ricercatori evidenziano come i costi siano sottostimati perché si limitano a quelli di natura pubblica – ovvero quanto grava sulle casse dello Stato assistere un ludopatico – e non prendono in esame i costi privati che gravano sulla famiglia del ludopatico, inclusa la spesa sanitaria. Inoltre nelle stime non si prende in considerazione l’impatto del mancato utilizzo alternativo di risorse che avrebbero potuto essere impiegate in attività produttive e investite in consumi, nonché gli effetti di usura e fenomeni di illegalità.

Costi indiretti che dovrebbero essere presi in considerazione, sottolinea l’ultimo rapporto di FederSerD sulle ludopatie. «Parliamo – si legge nel rapporto – dei costi per il sistema sanitario e di welfare, della prevenzione e repressione di reati collegati alla dipendenza, ma anche la diminuzione della produttività sul lavoro del giocatore e molto spesso la perdita del posto di lavoro stesso, i sussidi collegati, i fenomeni di indebitamento, la bancarotta e l’usura, l’incremento delle rotture familiari, l’impegno di risorse sistema giudiziario, sanitario e previdenziale».

Infografiche: Lorenzo Bodrero | Foto: Hello I’m Nik/Unsplash

Africa, il nuovo paradiso del gioco d’azzardo

#Gambling

Africa, il nuovo paradiso del gioco d’azzardo

Lorenzo Bagnoli
Matteo Civillini
Dario De Luca

Lo scommettitore seriale, oggi, non frequenta più i casinò. A fiches e tavoli verdi si è sostituito il gioco online. Due click, anche da cellulare, e la puntata è fatta. L’Africa è la nuova terra promessa dei paperoni del settore. Sponsorship per il ricco calcio inglese, campagne pubblicitarie imponenti, testimonial famosi e una capillare diffusione di internet e smartphone: Nairobi, per le aziende dell’azzardo, è come Londra.

Il settore si mangia ogni anno due miliardi di dollari buttati in giocate dalla popolazione, di cui il 36,1% (dati Banca Mondiale) vive sotto la soglia di povertà. Dopo Malta e Regno Unito, il Kenya è stato per almeno gli ultimi cinque anni il luogo dove investire: un mercato ancora vergine, con pochi competitor, dove gli smartphone sono diventati un bene di consumo anche negli strati più bassi della popolazione. Da questo giugno, però, l’incantesimo si è rotto. Ottenere la licenza è diventata una guerra: la musica è cambiata per questioni di denaro e politica.

Numerosi studi statistici, tra cui quelli di PricewaterhouseCoopers, tracciano una sorta di profilo dello scommettitore medio del Kenya, Paese che insieme a Nigeria e Sudafrica registra il maggior numero di scommettitori in Africa. Per il 70 per cento under 35 e, solitamente, disoccupati.

Ma ci sono anche molti minori, attratti dal guadagno facile nonostante la legge vieti loro le puntate: «Nella maggior parte dei casi i giovanissimi giocano con un telefono e la complicità degli adulti o all’interno dei cyber caffè», spiega a Il Fatto Quotidiano Jennifer Kaberi, del National Coordinator for Children Agenda Forum. Ma dove trovano i soldi? «Alcuni fanno i lavori più disparati come il lavaggio auto o i lavori domestici. Qualcuno invece ruba o utilizza i risparmi che servirebbero per le tasse scolastiche». Il gioco inizia quindi a emergere come piaga sociale.

IrpiMedia è gratuito

Ogni donazione è indispensabile per lo sviluppo di IrpiMedia

Il nuovo corso è stato imposto dall’attuale capo di Stato Uhuru Kenyatta attraverso il suo ministro dell’Interno, Fred Okengo Matiang’i, che ha fatto del contrasto all’azzardo la sua campagna politica (per quanto la materia non sia di stretta competenza del suo ministero). Ha deciso di sospendere 27 licenze, per riassegnarle a gruppi nuovi, più piccoli. Sui beneficiari ultimi del settore delle scommesse si vocifera da sempre sui media kenyoti. L’ultimo nel mirino, è il figlio dell’ex presidente Kibaki: sarebbe a capo di Odibet, attualmente il gruppo di scommesse più forte del Paese. Persino Matiang’i, il grande censore dell’industria delle scommesse, è tra i presunti beneficiari: avrebbe quote della BetLion, nuova titolare della licenza per le scommesse.

L’attuale regolamentazione ha messo in ginocchio i vecchi titolari delle licenze perché è cambiata la base imponibile sulla quale le aziende dell’azzardo pagano le tasse: invece del netto della vincita, come accadeva prima, ora è l’intero importo giocato, più la vincita. Modifica retroattiva, che riguarda l’intera storia fiscale in Kenya di un’azienda del settore. Il risultato è stato un conto di diverse centinaia di milioni di euro, cifra irricevibile in particolare per tre società – SportPesa, BetIn e BetWay – che pesavano per l’80% del mercato.

La guerra alle scommesse fa in realtà parte di uno scenario più ampio: lo scontro tra Kenyatta e il suo vice, William Ruto, il quale vorrebbe succedergli alle presidenziali del 2022. Gli effetti sono stati immediati: 17 dirigenti stranieri di società di betting e gaming non possono più rientrare nel Paese. È accaduto anche a due cittadini kenyoti di origini italiane: Leandro e Domenico Giovando, padre e figlio. Proprietari di Gamcode, società che in Kenya opera con il marchio BetIn, e che adesso sono bloccati a Londra. Eppure Nico Giovando in Kenya ci è nato.

Nesti e Giovando, i decani dell’azzardo alla conquista dell’Africa

La guerra delle licenze per il gioco d’azzardo, in Kenya, è cominciata con una fake news: «Il vicepresidente Ruto ha quote nascoste dentro BetIn», si leggeva mesi fa sulla stampa locale. I documenti ufficiali forniti dalla società a Il Fatto quotidiano smentiscono questa versione. BetIn, infatti, risulta principalmente italiana. Gamcod Ltd, proprietaria del marchio, per il 10% è di Leandro e Domenico Giovando, mentre il 90% è di una società delle Mauritius, Samson Capital Investments Limited, il cui socio di maggioranza è un imprenditore, anche lui italiano, residente a Londra: Stefano Nesti. Un decano, come Giovando, dell’industria dell’azzardo. Il loro fiuto per gli affari li ha portati tra i primi in Africa: i due, infatti, operano insieme anche in Nigeria con il marchio Bet9ja.

Vuoi fare una segnalazione?

Diventa una fonte. Con IrpiLeaks puoi comunicare con noi in sicurezza

Sanno entrambi che se si vogliono mettere al sicuro gli introiti è prudente che le società di gioco abbiano forzieri nascosti offshore e sistemi societari complessi, a discapito della trasparenza. L’azzardo è un gioco rischioso: bisogna adattarsi a mercati e Paesi con regole ed equilibri politici che possono cambiare in un baleno, come dimostra il caso del Kenya. Qui BetIn contava però già sulla reputazione dei Giovando, famiglia molto in vista nel Paese, e contava su due partner kenyoti, uno dei quali sposato con la nipote di Museveni, il presidente dell’Uganda (anche se per i legali di Giovando non è una figura politicamente influente). Non è stato sufficiente.

La partnership tra Nesti e Giovando esiste dal 2012, quando Nesti deve ricostruire una società, Goldbet, che ha rilevato da Paolo Tavarelli, nome all’epoca ancora poco noto, ma ormai ricorrente nelle inchieste sulle scommesse illegali in odore di mafia. Quando Tavarelli lascia Goldbet con il fardello di parecchi debiti per aprire una società concorrente, PlanetWin/Sks365, Nesti inizia la sua “guerra giudiziaria” con l’ex amministratore delegato: i due, dichiarano gli avvocati di Nesti e Giovando a Il Fatto Quotidiano, «non avranno mai più alcun rapporto». Nesti tra il 2004 e il 2006 è stato socio e manager del rischio anche di Paradisebet, società dei Martiradonna, famiglia che s’incontra spesso nelle inchieste su mafia e scommesse.

A novembre 2018 la Dda di Bari scrive che tra Nesti e i Martiradonna si apre una causa legale nel momento in cui l’imprenditore prova a comprarsi l’intera società. I due – spiegano gli avvocati di Nesti – non hanno più avuto rapporti, per quanto i Martiradonna abbiano cercato di infilarsi anche nei mercati africani dove operano Nesti e Giovando. in Kenya, riporta la procura antimafia di Bari, i Martiradonna avrebbero cercato una sponda, senza mai concludere l’affare, con John Kamara, imprenditore nel settore blockchain e nel gioco online tra i più famosi del continente.

In Nigeria, invece, secondo i riscontri dell’indagine Galassia (novembre 2018), contano sull’attuale portavoce della Camera dei rappresentanti, Femi Gbajabiamila e sul fratello Lanre, capo del National Lottery Board, il regolatore del gioco in Nigeria. L’email pubblica del parlamentare risulta tutt’oggi legata a due siti di scommesse, ora non più raggiungibili: quickbet247.info e kwikbet247.info. Quest’ultimo compare anche nelle carte delle Dda italiane: sarebbe un marchio aperto nel 2016 dal politico nigeriano con gli emissari dei Martiradonna e il supporto del fratello Lanre, l’uomo che concede le licenze in Nigeria.

Leggi anche

Contro i dittatori di tutto il mondo

Da Pinochet a Yahya Jammeh: limiti, successi e fallimenti della giurisdizione universale, il principio giuridico nato per perseguire chi viola i diritti umani

L’isola che non c’è (più)

Iperturismo, politiche inefficaci, servizi inesistenti. Così gli isolani lasciano le loro terre, che siano nel Mare del Nord o nel Mediterraneo. Reportage dalle isole dove gli abitanti sono in via d’estinzione

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli
Matteo Civillini
Dario De Luca

In partnership con

Editing

Lorenzo Bagnoli

Foto

Share via