29 Luglio 2022 | di Antonella Mautone
Inumeri delle persone costrette a vendere sesso per strada sono in calo. Eppure dietro questa notizia positiva ci potrebbero essere delle nuove forme di sfruttamento. «Questo è un momento di passaggio – sostiene Gianfranco Della Valle, responsabile del Numero verde antitratta, un servizio messo in piedi dal Dipartimento delle pari opportunità per aiutare le vittime di sfruttamento sessuale o lavorativo -. La tratta sta cambiando». Vengono soprattutto dalla Nigeria le sex worker costrette a vendere il loro corpo in Italia. Sono tra coloro che sono sempre meno visibili in strada: «Alcune iniziano a prostituirsi in appartamento – spiega Della Valle -. ma non abbiamo dati reali del fenomeno».
Per la maggior parte si tratta di donne già arrivate da tempo in Italia, che faticano a regolarizzarsi. Gli operatori sentono sempre più di frequente che alcune di loro sono costrette anche a vendere droga, soprattutto al nord Italia. Anche i risultati positivi ottenuti dalla magistratura potrebbero nascondere qualche effetto collaterale: «A fine 2019 nel territorio di nostra pertinenza ci sono state numerose operazioni di polizia che hanno colpito la criminalità nigeriana – racconta Lina Trovato, sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia a Catania, da anni impegnata nella lotta alla tratta -. Da quel momento abbiamo notato una diminuzione di ragazze e, a inizio 2020, la totale assenza di minori in strada. Questo ci fa pensare che il timore di un’azione giudiziaria troppo aggressiva abbia portato le organizzazioni a “spostare” le ragazze”».
La procuratrice ipotizza che le donne che gestiscono i guadagni delle prostitute, le madame, «abbiano deciso di abbandonare le ragazze in Libia» perché non riuscivano a organizzare il viaggio. Lo sfruttamento che non si vede in Italia potrebbe quindi essersi fermato sulle coste libiche.
Le parole della tratta
Madame: Nel contesto della tratta, indica la trafficante che sfrutta le ragazze che vendono prestazioni sessuali. Le madame raccolgono i soldi del debito. Spesso sono state anche loro prostitute. Oga è il corrispettivo maschile delle madame.
Debito: Somma che le vittime di tratta devono restituire alle organizzazioni criminali per pagare il loro viaggio in Europa. Per estinguere il debito, le vittime sono costrette a prostituirsi oppure a spacciare. Se non lo fanno, le organizzazioni minacciano ritorsioni nei confronti della famiglia di origine.
Native doctor: È uno sciamano che sottopone le vittime di tratta a riti voodoo (juju è il termine che usa la comunità nigeriana). Attraverso il juju le ragazze sono costrette a ripagare il loro debito alle madame. È lo strumento di coercizione spirituale alla quale sono sottoposte le ragazze.
Boga: È la persona che accompagna le vittime. È in perenne contatto con i trafficanti e con le madame.
Connection man: È colui che organizza i viaggi dalla Nigeria all’Italia, il più delle volte passando dalla Libia. L’imbarcazione con la quale le donne sono costrette ad attraversare il Mediterraneo è chiamata la palapa.
Connection House: È il termine attraverso cui le vittime di tratta definiscono i bordelli dove sono costrette a prostituirsi. Si trovano principalmente in Libia, ma ne esistono anche in alcuni ghetti italiani.
Le “organizzazioni”
Sono ipotesi, perché sono ancora molti i lati poco conosciuti della tratta delle schiave sessuali dalla Nigeria. Il mercato è appannaggio sia di organizzazioni di piccole dimensioni, sia di strutture criminali che sono state condannate in Italia con l’aggravante mafiosa. Questi gruppi criminali organizzati in Nigeria si chiamano cult.
«Normalmente – spiega la pm della procura antimafia di Catania Lina Trovato – la prostituzione è gestita da una o due persone in concorso, oppure da piccole associazioni criminali che prendono una ragazza e dalla Nigeria la fanno arrivare qui».
I cult, invece, commettono una serie di reati «concernenti soprattutto il traffico di stupefacenti nel nord Italia – specifica Trovato -. Questo non vuol dire che il cultismo non abbia nulla a che fare con la tratta, ma non è lo scopo principale dell’associazione: capita talvolta che ci siano membri dei cult che abbiano una fidanzata vittima di tratta o che siano sposati con una madame, oppure gestendo una connection house (bordello, vedi box) in Libia, la mafia nigeriana chieda alle madame di pagare una percentuale sui guadagni».
“Mafia nigeriana” è una categoria molto strumentalizzata dal punto di vista politico, tanto è vero che Giorgia Meloni, insieme allo psichiatra Alessandro Meluzzi e a Valentina Mercurio, l’ha usata come titolo di un libro: Mafia nigeriana. Origini, rituali, crimini. L’argomento ricorre di frequente nei comizi del suo partito Fratelli d’Italia e della Lega. Al netto della propaganda sull’invasione dei migranti, però, è un fatto che i tribunali italiani riconoscano l’aggravante del metodo mafioso per alcuni cult nigeriani.
Uno dei più potenti in Italia è la Black Axe. Secondo un’inchiesta di BBC Africa Eye, nasce all’interno del Neo Black Movement of Africa (NBM), movimento studentesco formatosi all’Università di Benin negli anni Settanta. In origine si trattava puramente di una formazione anti-aparthaid che voleva combattere ogni forma di sfruttamento. Il simbolo è tutt’oggi una catena spezzata da un’ascia nera. Il movimento ha smentito ogni collegamento con le attività criminali degli affiliati ai Black Axe. Nonostante le prese di posizione contro la violenza, il movimento universitario è tuttavia ritenuto assimilabile alla Black Axe dagli inquirenti statunitensi, canadesi e sudafricani e dall’Interpol.
In Italia, scrive il Ministero dell’interno in un focus del 2021, ci sono stati 154 cittadini nigeriani segnalati per 416 bis contro 28 nell’anno precedente. L’esito giudiziario di questi processi con l’aggravante del metodo mafioso non è tuttavia scontato.
A Palermo a seguito di un’operazione del 2016 sono scaturiti due processi: nel filone ordinario, il 416 bis è decaduto; in quello abbreviato, su 14 imputati, dodici sono stati condannati in appello. Nella sentenza di condanna di primo grado, che risale al 2018, si legge che l’organizzazione ha «interessi solo nel settore della prostituzione o dello smercio di sostanze stupefacenti, nell’ambito del quale poteva vantare i giusti canali di approvvigionamento grazie alla rete dei connazionali sparsi in tutta Europa, ed era altresì disposta ad assumersi il maggior rischio di andare incontro a conseguenze giudiziarie». Ma la situazione oggi sembra essere diversa da quella fotografata dalla sentenza di allora.
Il calo degli sbarchi
I dati del monitoraggio nazionale fatto dal Numero verde antitratta, il cui dipartimento dipende direttamente dalla Presidenza del Consiglio, dicono che nel maggio 2017 le persone presenti in strada in orario notturno erano 3.178, mentre a giugno 2021 ne sono state segnalate “solo” 1.623. Sotto la voce “Africa” al 90% si parla della nazionalità nigeriana. Sotto la voce “Europa” al 50% sono rumene, 25- 30% albanesi, e il resto bulgare. Secondo il Ministero della Giustizia anche le denunce per lo sfruttamento della prostituzione sono passate da 1.761 del 2015 a 524 nel 2019.
L’ultimo rapporto del Servizio analisi criminali del Viminale ha evidenziato che ancora «le nazionalità più attive nella tratta degli esseri umani sono quella nigeriana, seguita da quella romena, italiana e albanese». Il Ministero delle Pari opportunità registra nel 2020 (il dato più recente) 1.475 donne nigeriane assistite dagli operatori del servizio antitratta, il 72,3% del totale.
Prima del 2014, le vittime di tratta nigeriane arrivavano in Italia principalmente via aereo. Poi hanno cominciato ad arrivare con i barconi: tra il 2014 e il 2016, il numero è cresciuto esponenzialmente (+600%). Tra il 2015 e il 2017 ne sono arrivate oltre 22 mila, poi, dopo il 2017, meno di 500. «Se vediamo meno donne dell’est in strada, si può pensare che una volta rimaste in Italia siano passate all’indoor – spiega Gianfranco Della Valle, responsabile del Numero verde antitratta -. Per le nigeriane è diverso: non ne arrivano più».
Il motivo principale è legato alla generale riduzione degli sbarchi: dopo i numeri del 2016 (181.000) e del 2017 (119.310), c’è stato un netto calo di arrivi in Italia che ha toccato il minimo con 11.471 migranti nel 2019. Stesso andamento per gli ingressi delle vittime di tratta nigeriane: il picco di entrate è stato registrato nel 2016, con 11.000 ingressi, per poi passare a 5.400 nel 2017, 324 nel 2018, 41 nel 2019, 82 nel 2020, e 215 nel 2021 (dati del Numero verde antitratta).
Poi c’è la pandemia, che ha avuto delle conseguenze su tutto il mercato del sesso a pagamento. Luca Scopetti lavora per Parsec, una cooperativa romana che da circa trent’anni si occupa di contrastare i fenomeni delle dipendenze e della tratta di esseri umani: «Quando il virus ha iniziato a diffondersi, la maggioranza delle donne rumene è rientrata a casa – racconta – mentre le altre non erano presenti in strada, rendendo più difficile per gli operatori contattarle e cercare di favorire, per chi volesse, eventuali fuoriuscite».
Dalla strada alle piazze di spaccio
«Da quando ho iniziato a occuparmi di tratta, circa venti anni fa, sono cambiate molte cose per le ragazze», racconta Elizabeth, mediatrice nigeriana che in Veneto lavora con le vittime del mercato dello sfruttamento, sue connazionali. Ricorda il caso di una ragazza arrivata a Roma nel 2015: «Per pagare il debito dovuto alle organizzazioni criminali che minacciavano la sua famiglia, ha iniziato a trasportare droga fino a Padova, dove la polizia l’ha beccata. Aveva ventitré anni».
Il “debito” (vedi box) è ciò che lega la vittima ai propri sfruttatori: fino a che non si estingue, la persona trafficata avrà il timore che i criminali possano rivalersi sulla propria famiglia di origine, a casa. Solo una piccola parte è quanto serve davvero per il viaggio, il resto arricchisce i criminali. Al debito economico, si aggiunge anche il juju, un rito particolare che soggioga le vittime di tratta anche sul piano psicologico (vedi box). Agli inizi degli anni Novanta, quando il viaggio era principalmente via aereo, il debito era anche di 60-75 mila euro, mentre nel 2015-2016, quando sono diventate più comuni le traversate via mare, si è abbassato a 25-35 mila. A volte il legame non si spezza nemmeno quando è stato ripagato, perché oltre a quello economico le vittime sono sottoposte a un giogo spirituale, sancito attraverso dei riti particolari. Per pagare il debito, quindi, si comincia a lavorare. Prima la merce pressoché esclusiva delle donne era il sesso, ora sono costrette anche a vendere droga, con nuovi rischi.
«Le organizzazioni criminali – aggiunge Gianfranco Della Valle – chiedono alle ragazze di continuare a guadagnare, non più prostituendosi, ma trasportando qualsiasi tipo di droga». Eroina, cocaina ma anche il Tramadol, un anestetico inserito nella lista delle sostanze psicotrope che la Nigeria importa dal mercato asiatico o produce clandestinamente, costa poco ed è usato per “sballarsi” dai giovani e nelle periferie di Lagos. Il suo abuso provoca euforia, inibisce stanchezza e fame, per questo molte ragazze lo assumono anche prima di intraprendere il viaggio che le porterà qui. «In Italia le ragazze acquistano il Tramadol online e lo vendono al minuto, alcune ne rimangono schiave per sempre», conferma Elizabeth, la mediatrice culturale.
Il trasporto della droga – che ha come destinazione principale l’Italia settentrionale – può diventare in alcuni casi lo strumento per saldare il debito. Questo fenomeno, secondo Della Valle, è diventato sempre più evidente con la pandemia, che ha reso più difficile la prostituzione di strada. «Le ragazze – afferma il responsabile del numero verde antitratta – vengono usate per azioni per cui rischiano molto di più dal punto di vista penale». Della Valle sottolinea che secondo i dati delle direzioni distrettuali antimafia, tra il 2019 e il 2020 le rimesse economiche che dall’Italia vanno in Nigeria si sono quadruplicate. Ritiene che le stesse organizzazioni abbiano portato in Italia anche giovani uomini, anche loro con un proprio debito da estinguere, di solito intorno ai 15 mila euro. Questi sono poi finiti nelle piazze di spaccio, dove oggi si trovano anche ragazze vittime di tratta.
«La mafia nigeriana – prosegue Della Valle – è stata etichettata come quella delle tre “d”: donne, denaro e droga. Il viaggio fino all’Italia secondo alcuni studi non è mai costato più di 3-4 mila euro. Il resto del debito è guadagno netto per l’organizzazione».
La crisi dell’articolo 18
Secondo Della Valle, il sistema di contrasto alle organizzazioni criminali dedite alla tratta – nonostante il recente calo dei numeri delle persone in strada – è molto in difficoltà. Il sistema in Italia è fondato sull’applicazione dell’articolo 18 del testo unico dell’immigrazione promulgato nel 1998. Prevede per le vittime il rilascio del permesso «per protezione sociale» valido sei mesi, rinnovabili per altri dodici e convertibile in un permesso per lavoro. La vittima lo ottiene quando collabora con la polizia denunciando i propri sfruttatori. La gestione di questo tipo di documenti è in carico al Dipartimento delle pari opportunità che dipende dalla Presidenza del consiglio. Gianfranco Della Valle lo ritiene l’unico strumento davvero valido per incentivare le denunce delle vittime.
Al contrario, però, come ogni altro migrante le donne nigeriane vittime di tratta possono ottenere una forma di protezione anche partecipando al normale percorso di richiesta di asilo, che non prevede segnalazioni in merito ai propri aguzzini. Questo sistema è in carico al ministero dell’Interno e può finire o con un diniego oppure con l’approvazione di una forma di protezione internazionale: l’asilo politico, la protezione sussidiaria oppure quella umanitaria, che viene concessa con maggiore facilità perché dura solo un anno.
Il sistema della protezione internazionale, spiega Della Valle, è diventato sempre più importante a partire dal 2015, cioè dal momento in cui sono aumentati gli sbarchi. Così il sistema è andato in difficoltà: è previsto infatti che la domanda di asilo possa essere fatta subito dopo lo sbarco. Le Commissioni territoriali, gli organismi che dipendono dal ministero dell’Interno ai quali spetta valutare le richieste di asilo politico, hanno sentito spesso dalle ragazze storie di sfruttamento, eppure solo il 7% di queste è entrato nel sistema di protezione sociale ideato in origine per le vittime di tratta.
Durante il periodo di attesa per il verdetto, che in media tra il 2015 e il 2019 durava di solito due anni, le vittime di tratta si trovano in centri di accoglienza con gli altri richiedenti asilo, senza particolari sistemi di protezione. Così capita molto di frequente che le vittime continuino a prostituirsi per ripagare il debito.
«L’articolo 18 è andato in crisi nella misura in cui la maggior parte delle persone otteneva la protezione internazionale – afferma Della Valle, lapidario -. Mettiamo sotto protezione chi è vittima di tratta, indipendentemente dal fatto che queste persone denuncino chi le sfrutta, eliminando così la possibilità di colpire le organizzazioni criminali».