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Eni-Nigeria: l’appello dei pm tra inchieste parallele e veleni in procura
La sentenza di primo grado che ha assolto tutti gli imputati sul caso Opl245 non chiude gli interrogativi sulla presunta tangente nigeriana e ha sublimato lo scontro in atto tra i magistrati milanesi
13 Agosto 2021

Lorenzo Bagnoli

La procura di Milano e il governo federale della Nigeria il 30 luglio scorso hanno fatto appello alla sentenza di assoluzione con formula piena di tutti gli imputati della vicenda Opl 245 pronunciata dal settimo collegio del tribunale il 18 marzo 2021. La vicenda processuale riguarda le trattative per l’assegnazione della licenza petrolifera Opl 245, a largo delle coste della Nigeria, pagata circa 1,1 miliardi di dollari (980 milioni messi da Eni, 110 messi da Shell) dalle due compagnie petrolifere, proprietarie al 50% ciascuna della licenza dall’aprile 2011 (in scadenza a maggio 2021 e ad oggi non ancora riassegnata).

Il capo d’imputazione principale è corruzione internazionale: secondo la pubblica accusa, infatti, le due società del settore petrolifero si sarebbero affidate a una rete di prestanome per ottenere il giacimento, facendo recapitare a una serie di pubblici ufficiali nigeriani alle dipendenze dell’allora presidente Goodluck Jonathan l’intero valore della licenza come tangente. Il teorema però non ha tenuto alla prova del dibattimento.

I fronti del conflitto al palazzo di giustizia

Dopo il pronunciamento dei giudici del tribunale al palazzo di giustizia di Milano si sono aperte profonde spaccature tra magistrati appartenenti a correnti diverse, tra pubblici ministeri e giudici, tra procura e procura generale. Il risultato è stata l’iscrizione nel registro degli indagati di diversi pm milanesi a Brescia, procura competente per le indagini sui colleghi del capoluogo.

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I protagonisti principali di tutte queste vicende sono Vincenzo Armanna, ex manager di Eni imputato (e assolto, come gli altri) nel processo su Opl 245 e Piero Amara, ex consulente legale esterno di Eni. È chiaro che entrambi abbiano cercato di utilizzare i processi per favorire loro stessi, non è invece ancora chiaro quanto si siano limitati a “inquinare pozzi” – l’immagine suggestiva che descrive chi, con le proprie dichiarazioni, confonde più che chiarire la situazione per cui è chiamato a rispondere alla giustizia, che si in qualità di teste o di imputato – e quanto invece abbiano raccontato pezzi di verità.

Secondo i giudici del tribunale (e secondo la procuratrice generale Celestina Gravina che ha chiesto l’assoluzione per i due imputati condannati in primo grado con il rito abbreviato), Amara e Armanna mentono e le loro dichiarazioni non sono utili. Secondo la pubblica accusa e la parte civile, invece, hanno ancora qualcosa da dire: si tratta solo di discernere tra quello che conoscono di prima mano e quello che riportano “per conto terzi”. Anche se non è chiaro chi siano questi “terzi” per conto dei quali parlano i due. L’esito di questa vicenda contribuirà a scrivere sia il futuro della procura di Milano, sia un pezzo di storia della magistratura italiana. In fondo, si tratta del più importante processo per corruzione internazionale degli ultimi anni, con alla sbarra la più importante tra le aziende italiane.

Nella sentenza di primo grado il tribunale non ritiene privi di fondamento gli elementi di prova raccolti dalla procura, ma contesta duramente il modo in cui i pm hanno messo in fila questi elementi e il tipo di reati contestati. Per i giudici di primo grado l’accusa è stata allusiva e poco circostanziata

La fattispecie di reato

Nelle motivazioni della sentenza di primo grado, il tribunale ha formulato ipotesi interpretative diverse da quelle seguite dall’accusa. In altri termini, il tribunale non ritiene privi di fondamento gli elementi di prova raccolti dalla procura. Contesta però – e duramente – il modo in cui la pubblica accusa rappresentata dai magistrati Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro li ha messi in fila e il tipo di reati che ha indicato. L’accusa, dice il tribunale, è stata allusiva e poco circostanziata. 

La differenza sostanziale sta nel modo di definire il pagamento di Eni e Shell al governo nigeriano. Pagamento che poi il governo ha girato alla Malabu Oil & Gas, azienda cedente la licenza di proprietà di Dan Etete (ex ministro del petrolio dal 1995 al 1998, sotto la dittatura militare di Sani Abacha), quello che secondo la pubblica accusa è il vero vincitore della trattativa. Per i magistrati è una tangente, quindi il reato che presuppone è corruzione; il tribunale, invece, formula come ipotesi alternativa «dazione indebitamente pretesa».Tecnicamente, una dazione indebita presuppone altri due possibili i reati: concussione o induzione indebita.

Il primo punisce un pubblico ufficiale che obbliga o induce qualcuno a consegnargli una somma di denaro, mentre il secondo (semplicisticamente) è la sua variante più “lieve”. Come rileva la rivista specializzata Diritto penale contemporaneo del 2018, è un reato «che non trova molti corrispondenti nelle legislazioni straniere» perché ha la caratteristica «di sancire la responsabilità del solo soggetto qualificato, garantendo, invece, l’impunità del concusso, considerato una vittima». Nel 2012 un report di Transparency International intitolato Esportare corruzione? commentava i risultati del gruppo di lavoro sulla corruzione dell’Ocse, l sulle leggi internazionali contro la corruzione sulle quali aveva appena dibattuto un gruppo di lavoro specifico.

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Il rapporto notava che «la “difesa della concussione” è sistematicamente utilizzata dagli avvocati della difesa e contribuisce ad allungare le indagini e i procedimenti dei casi di corruzione all’estero». In pratica, a partire da dieci anni fa si poneva a livello internazionale il problema di come il “concusso”, colui che paga il pubblico ufficiale, sia solo una vittima. L’occasione in cui il tribunale applicherebbe questa ipotesi alternativa di reato riguarda Mohammed Adoke Bello, l’allora ministro della giustizia che non può essere indagato a Milano proprio per l’immunità di cui godono nei procedimenti esteri i pubblici ufficiali di qualunque Paese.

Sarebbe stato infatti lui a esercitare un’indebita pressione su Dan Etete, il proprietario di Malabu, che si è poi concretizzato nel “regalo” di un terreno con tanto di villa, di cui l’accusa ha fornito prove documentali il cui valore è stato riconosciuto anche dal tribunale. Se fosse concussione, si chiede la pubblica accusa, Dan Etete sarebbe il concusso? E cosa sarebbero invece Eni e Shell, coloro i quali hanno effettivamente versato il denaro di cui una parte è finita anche a Mohammed Adoke Bello? Anche loro vittime? I due magistrati lo escludono alla luce di email, sms e altre prove documentali. 

«L’imputato non è attendibile»

Il problema però è decidere quale sia la giusta interpretazione da dare a questi documenti, sui quali le posizioni di accusa e difesa erano ovviamente agli opposti. Ci sono diversi imputati le cui dichiarazioni sono state utilizzate dai procuratori a sostegno della loro ipotesi investigativa, ma le parole più importanti sono state quelle di Vincenzo Armanna, ex manager dell’azienda per l’area dell’Africa subsahariana allontanato da Eni nel 2013 perché avrebbe usato dei rimborsi spese aziendali per spese personali per centinaia di migliaia di euro.

«Il suo atteggiamento opportunista rivela una personalità ambigua capace di strumentalizzare il proprio ruolo processuale a fini di personale profitto e, in ultima analisi, denota una inattendibilità intrinseca»

Un passaggio della sentenza di primo grado del processo Opl245 su Vincenzo Armanna

Per il tribunale «l’imputato non è attendibile», ha avuto un «atteggiamento ondivago» e le sue dichiarazioni «sono risultate grossolanamente false»: «Il suo atteggiamento opportunista rivela una personalità ambigua, capace di strumentalizzare il proprio ruolo processuale a fini di personale profitto e, in ultima analisi, denota un’inattendibilità intrinseca». Al contrario, anche in appello, la procura ritiene che Armanna conosca i fatti. Ritiene che Armanna abbia sì cercato in qualche modo di usare dei vertici di Eni per rientrare in azienda e per degli affari personali, ma, al contrario di quanto afferma il tribunale, non abbia mai cercato di ricattare l’azienda petrolifera.

In un passaggio dell’appello, i pubblici ministeri scrivono che un assunto del tribunale «è del tutto inammissibile: parte da premesse ipotetiche e arriva a conclusioni arbitrarie». Si tratta di un passaggio delle motivazioni del tribunale in cui i giudici spiegano la loro posizione in merito alle condotte di Eni: «Eni – scrivono i giudici di primo grado – era una società quotata in borsa che, pur essendo certa di non aver commesso alcun illecito ed essendo consapevole dell’intento ricattatorio di Armanna, si trovava esposta a un immenso pregiudizio di immagine ed economico causato dalla diffusione di notizie circa il proprio asserito coinvolgimento in una corruzione di oltre un miliardo di dollari».

Più avanti citano il comportamento dell’attuale amministratore delegato, Claudio Descalzi, allora numero due dell’azienda: «A parere del Tribunale, una simile condotta – anche ove sussistente – dovrebbe essere interpretata come il comportamento di un amministratore che, pur di proteggere la propria compagine dalle calunnie che le erano rivolte, accetta di scendere a patti con il ricattatore e, in cambio della cessazione delle attività diffamatorie verso la società, gli accorda quanto richiesto, ossia la promessa della riassunzione in azienda».

L’omissione a tutela della credibilità di Armanna

L’asprezza dei toni con cui il collegio giudicanti e i pubblici ministeri ragionano sulla vicenda si spiega attraverso un episodio che riguarda un video girato di nascosto da Piero Amara il 28 luglio 2014. È stato portato all’attenzione dell’aula dalla difesa di uno degli imputati, il manager di Eni Roberto Casula, e l’omissione da parte della pubblica accusa secondo il tribunale è stato un fatto grave, perché aveva l’intento di difendere la credibilità delle affermazioni di Armanna. Nel video l’ex manager di Eni è seduto insieme all’allora consulente esterno di Eni Piero Amara, attualmente in carcere a Orvieto per somma di condanne, ritenuto l’artefice di un sistema per aggiustare sentenze a piacimento; Andrea Peruzy, fino al 2014 segretario generale della fondazione di Massimo D’Alema Italianieuropei e Paolo Quinto, assistente dell’ex senatrice del Partito democratico Anna Finocchiaro. I quattro discutevano di nomi di dirigenti Eni e in particolare Armanna chiedeva ad Amara di trovare un modo per tagliare fuori Ciro Antonio Pagano, ai vertici della controllata di Eni in Nigeria e considerato un uomo di Roberto Casula, perché altrimenti non sarebbe mai riuscito a ottenere un appalto petrolifero che interessava un cliente a cui faceva da consulente.

Nell’appello la pubblica accusa però ricorda che i difensori degli imputati del processo Opl 245 non hanno controesaminato l’imputato Armanna

L’espressione al centro dello scontro giudici-accusa è «valanga di merda», utilizzata da Armanna in riferimento a quello che avrebbe fatto passare a Eni pur di ottenere quanto voleva. Secondo la procura, quella valanga stava già venendo a valle, sotto forma di articoli del giornalista del Sole 24 Ore Claudio Gatti, il primo a pubblicare importanti documenti su questa vicenda. Nel libro Enigate Gatti ha parlato del burrascoso rapporto con la sua fonte Vincenzo Armanna, con la quale ha interrotto i rapporti proprio a causa dell’atteggiamento ondivago dell’ex manager di Eni. Secondo il tribunale, invece, l’espressione anticipa le dichiarazioni spontanee che avrebbe fatto l’indomani, nell’ambito di questo processo. Nel primo caso non ci sarebbe un silenzio da comprare, quindi un ricatto, mentre nel secondo sì. Nell’appello la pubblica accusa però ricorda che i difensori degli imputati del processo Opl 245 non hanno controesaminato l’imputato Armanna, né sono voluti entrare nel merito del video, se non per l’espressione scurrile citata anche dal tribunale. In più i magistrati milanesi avrebbero voluto audire l’autore del video, Piero Amara, ma il tribunale non l’ha ritenuto necessario.

Il complotto e il mancato trasferimento di Paolo Storari

Mentre si sviluppava il procedimento penale per Opl 245, a Milano due altri magistrati hanno aperto un nuovo filone di indagine “parallelo”: quello riguardante il falso complotto ai danni di Claudio Descalzi escogitato proprio da Piero Amara e dai suoi sodali per spostare il processo da Milano e portarlo a Siracusa, dove le accuse sarebbero state addomesticate da un magistrato compiacente. I due titolari del fascicolo erano l’aggiunta Laura Pedio e il sostituto Paolo Storari. Questo processo che avrebbe dovuto far luce sul tentativo di dirottare il procedimento su Opl 245 alla fine ha ulteriormente intricato la vicenda.

Tra Pedio e Storari s’è infatti aperto un contrasto, che inizialmente era stato definito reciprocamente un tentativo di rallentare l’inchiesta. La situazione si è fatta talmente compromessa che il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, insieme al procuratore della Repubblica Francesco Greco avevano chiesto il trasferimento di Storari per incompatibilità ambientale. Alla fine, però, il Consiglio superiore della magistratura ha risolto la questione bocciando la proposta di trasferimento il 4 agosto scorso.

È stato Paolo Storari il magistrato che ha raccolto le rivelazioni dell’avvocato Amara sull’esistenza di una presunta loggia segreta, detta la Loggia Ungheria: un’associazione segreta – di cui Amara avrebbe fatto parte – che aveva lo scopo di condizionare nomine in magistratura e in incarichi pubblici. Una vicenda che s’incastra bene con le polemiche sulla lottizzazione della giustizia, sempre più in balia delle diverse correnti. Su quest’ultima s’è incardinato un altro procedimento, questa volta a Perugia. Le parole di Amara – tutte ancora da vagliare – hanno però fatto temere che qualcuno a Milano volesse lasciar morire il suo processo e lasciare intoccato Piero Amara.

Le correnti della magistratura
Il telefonino dell’ex magistrato della procura di Roma Luca Palamara, ora aspirante politico, è stato il mezzo attraverso cui svelare un sistema che perdura dagli anni Cinquanta: quello delle correnti. Un segreto di Pulcinella che però con il caso Palamara ha minato nel profondo la credibilità dell’istituzione magistratura. Palamara era indagato per corruzione alla procura di Perugia e grazie a un trojan inoculato nel suo telefonino (la legittimità dell’operazione è oggetto di un altro processo a Napoli) è stato possibile ricostruire come funziona il parlamentino dei magistrati, l’Associazione nazionale dei magistrati (Anm). L’organismo tutela gli interessi dei magistrati e l’indipendenza della magistratura e, da statuto, non dovrebbe avere carattere politico. I “partiti” dai quali sono eletti i vertici dell’associazione sono Area, la corrente più di sinistra; Unicost, la corrente più conservatrice; Magistratura indipendente, la corrente più moderata e storica; Autonomia e indipendenza, capeggiata da Piercamillo Davigo, componente fuoriuscita da Magistratura indipendente e, dal 2020, una corrente di “civici”, Articolo 101, che chiede di abolire le elezioni per la nomina dei rappresentanti dell’Anm.
La situazione era talmente strana che Paolo Storari – è la ricostruzione più accreditata – ha cercato come ha potuto di tutelarsi, rivolgendosi all’allora membro del Consiglio superiore della magistratura Piercamillo Davigo, ex magistrato della procura Milano, giudice in Cassazione e componente del Consiglio superiore della magistratura (Csm) ora in pensione. C’erano tuttavia stranezze procedurali: il messaggio a Davigo è stato recapitato senza una comunicazione formale per iscritto, e soprattutto i verbali condivisi con il membro del Csm non erano nemmeno controfirmati. Alcuni di questi sono poi finiti anche ad alcuni giornalisti (Antonio Massari de Il Fatto quotidiano prima, Liana Milella di Repubblica poi) che hanno denunciato il fatto alla procura di Roma, che ha iniziato un nuovo filone di inchiesta.

Intanto montavano i veleni a Milano, soprattutto dopo le assoluzioni con formula piena decise a marzo nel procedimento su Opl 245. Nei mesi scorsi diversi cronisti di giudiziaria hanno pubblicato stralci di messaggi whatsapp di chat di magistrati in cui si accusava il dipartimento di De Pasquale, in accordo con Greco, di aver sprecato denaro pubblico per andare contro la più grande azienda italiana, senza per altro ottenere niente.

I veleni del palazzo di giustizia di Milano non si spiegano solo con l’assoluzione con formula piena al primo grado del processo Opl 245. Infatti a novembre il procuratore capo Francesco Greco andrà in pensione e si è aperta anche la partita per la sua successione

A Brescia, dove è incardinato il procedimento a carico dei magistrati milanesi, le notizie di reato sono state inviate a Storari, De Pasquale, Spadaro e persino al procuratore capo Francesco Greco per omissione di atti d’ufficio.

L’eredità di Francesco Greco

I veleni del palazzo di giustizia di Milano non si spiegano solo con l’assoluzione con formula piena al primo grado del processo Opl 245. Infatti a novembre il procuratore capo Francesco Greco andrà in pensione e si è aperta anche la partita per la sua successione. Storicamente Milano è una roccaforte delle correnti di sinistra della magistratura. La situazione attuale sembra molto diversa: la procuratrice generale della Corte d’appello Celestina Gravina, così come il presidente del tribunale Giuseppe Ondei appartengono alla corrente conservatrice, Unicost. Con Greco – prevedono diversi analisti – finirà un’epoca.

Per quanto importante questa vicenda ha però completamente oscurato il discorso nel merito di che cosa sia avvenuto in Nigeria, visto che le motivazioni della sentenza di primo grado ancora lasciano aperti spazi per cercare di comprendere una verità storica che corra parallela a quella giudiziaria.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli

Editing

Luca Rinaldi

Foto

Davide Rachelli/Shutterstock