Virus nelle Rsa, il diktat sulle mascherine ai sanitari e la delibera regionale
«Non indossate le mascherine»: la testimonianza di un medico milanese nei giorni clou del contagio e il «cerino nel pagliaio» della delibera regionale dell’8 marzo

16 Aprile 2020 | di Luca Rinaldi

Andare in guerra senza armi. È questa la metafora che in queste settimane stanno usando molti medici e operatori della sanità per descrivere quei trenta giorni che a cavallo tra febbraio e marzo hanno acceso la miccia dei contagi da Coronavirus. Negli ospedali lombardi, e in particolare nelle residenza sanitarie per l’assistenza degli anziani (Rsa) sono giornate convulse e confuse: chi lavora tutti i giorni gomito a gomito con i pazienti lavora duramente e in emergenza su turni lunghissimi, ma dall’alto le direttive arrivano schizofreniche, tanto da non riuscire a mettere al sicuro né chi lavora nei presidi sanitari né gli stessi pazienti.

Tra queste la delibera di Regione Lombardia dell’8 marzo scorso, che ha individuato anche nelle Rsa la possibilità di accogliere pazienti a bassa intensità Covid-19 per alleggerire il carico sugli ospedali. Alcuni di questi trasferimenti avrebbero anche coinvolto pazienti a cui non era ancora stato effettuato il tampone. Aspetti finiti sotto la lente d’ingrandimento dei magistrati di Milano che hanno aperto varie inchieste per fare luce sulla gestione dell’emergenza in quei primi e decisivi giorni.

Il sesto dipartimento della procura meneghina, guidato dal pm Tiziana Siciliano, con il nucleo locale della Guardia di Finanza e i carabinieri del Nas sta lavorando su più fronti: dalle analisi sulle centinaia di morti per sospetto Covid fino all’assenza di tamponi e di mascherine e alle presunte minacce agli infermieri che le utilizzavano. E ancora le eventuali omissioni nei referti e nelle cure fornite e la presunta “commistione” tra anziani e pazienti dimessi dagli ospedali e infine il ruolo dell’amministrazione regionale nella predisposizione di linee guida e piani pandemici.

Le case di riposo milanesi coinvolte sono il Pio Albergo Trivulzio, il Don Gnocchi, la Sacra Famiglia di Cesano Boscone e in questi giorni è probabile arrivino all’iscrizione nel registro degli indagati anche quelli delle altre Rsa, tra cui quelle nei quartieri milanesi di Affori, Corvetto e Lambrate.

Per comprendere le ragioni di questa indagine occorre riavvolgere il nastro agli ultimi dieci giorni di febbraio, quando iniziano a presentarsi i primi casi riconducibili al contagio da Covid-19, e alla settimana centrale di marzo nel periodo immediatamente successivo alla delibera con cui Regione Lombardia autorizza e chiede alle residenze sanitarie per anziani di farsi carico dei pazienti Covid a bassa intensità e dimessi dagli ospedali.

Non a caso è proprio su queste due direttrici che si sta muovendo l’inchiesta della procura di Milano.

«Non indossate quelle mascherine»

Bastano pochi giorni per mandare in apnea il sistema sanitario. Gli ospedali per primi vedono salire il carico dei pazienti prima nei pronti soccorso e poi nelle terapie intensive, ma all’interno delle residenze per anziani iniziano a circolare polmoniti virulente e il personale è determinato a indossare tutti i dispositivi necessari per proteggere sé stessi, ma prima di tutto i pazienti.

Chiunque è un potenziale veicolo di contagio, e i dati, già allora, confermano che le morti tra gli over 65 sono più frequenti.

Eppure dalle direzioni generali delle Rsa arriva un messaggio «che ancora fatichiamo a spiegarci», dice a IrpiMedia un medico, oggi costretto a casa proprio dal coronavirus, impiegato in una delle strutture per anziani milanesi, che vuole mantenere l’anonimato: «Non indossate le mascherine, altrimenti vi arriva un ordine di servizio, se non di peggio», leggi licenziamento. Il direttore sanitario della residenza in cui lavora il medico risulta al momento iscritto nel registro degli indagati nell’inchiesta della procura di Milano.

«Ci veniva ripetuto – racconta di nuovo il medico a IrpiMedia – di conservare, dopo una iniziale mancanza, le mascherine nella farmacia della struttura, da cui non potevamo rifornirci». Il motivo? «Non creare panico tra i pazienti e i loro famigliari» e «tenere le scorte se fosse esploso il contagio».

Il contagio però era già sotto gli occhi di tutto il personale. Lo stesso medico che accetta di parlare con IrpiMedia ritiene quella scelta «scellerata», accompagnata da continue pressioni nei confronti del personale che le mascherine se le procura all’esterno e le indossa comunque. Alcuni medici non hanno comunque ritenuto di seguire le indicazioni delle direzioni, ma tra il personale infermieristico e di servizio una minaccia di licenziamento rischia di portar via anche quel poco che può offrire un contratto a tempo determinato rinnovato una volta ogni tre mesi. Il risultato? «Che all’8 marzo abbiamo contato il primo medico contagiato. A catena se ne sono ammalati altri col risultato che oggi ci sono 4 medici per 110 pazienti».

Le direzioni delle Rsa si difendono dicendo che i racconti sono infondati, tuttavia questa testimonianza è convergente con altre testimonianze raccolte da IrpiMedia e dalle cronache dei quotidiani in questi giorni. Messaggi come questo sono arrivati proprio dalle direzioni delle Rsa ora sotto inchiesta e che si ritrovano con un personale ridotto all’osso proprio a causa del contagio che ha colpito il personale medico e sanitario.

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«Atteggiamenti inspiegabili – conclude il medico a IrpiMedia – ai limiti dell’omertà, dato che non ci sono state date spiegazioni ulteriori su queste decisioni». Del resto non è un mistero che le nomine delle direzioni generali siano soprattutto politiche e questo è stato un fattore che probabilmente ha influenzato quelle decisioni: pur di non mettere in imbarazzo i vertici della Regione, si è deciso di assecondare scelte più che discutibili che hanno acceso, per citare l’associazione delle case di riposo lombarde (Uneba) «il cerino nel pagliaio».

La delibera regionale dell’8 marzo

La delibera n. 11/2906 dell’8 marzo 2020 è il cerino nel pagliaio. Dopo settimane di caos e di posti letto carenti all’interno degli ospedali la giunta regionale chiede alle aziende territoriali della sanità (Ats) di individuare anche nelle case di riposo nuovi letti per assistere i pazienti Covid-19 a bassa intensità. Molte strutture non hanno dato seguito alla richiesta della regione, dall’altra parte c’è stato chi lo ha fatto salvo poi pentirsene.

Nelle stesse ore in cui parte il lockdown il sistema sanitario lombardo spalanca le porte al coronavirus. La settimana successiva nelle Rsa partono in alcune strutture i tamponi a tappeto tra il personale medico e sanitario, ma iniziano ad arrivare i nuovi pazienti trasferiti da altri ospedali: tra loro alcuni non hanno fatto il tampone. Un rischio ulteriore per i residenti della casa di riposo e di nuovo per il personale delle strutture.

Le case di riposo che hanno acconsentito a ricevere i pazienti sono le stesse finite nell’inchiesta della procura, che nelle ultime ore comincia a puntare anche la Regione. Lo scorso 15 aprile infatti i militari della Guardia di Finanza, dopo le perquisizioni negli uffici delle Rsa, sono entrati negli uffici di Regione Lombardia, che hanno lasciato poco dopo con una mole di documenti importante.

«Eppure – racconta di nuovo il medico che ha accettato di parlare con IrpiMedia che operava all’interno di una delle Rsa finita sotto inchiesta – ancora alla seconda settimana di marzo, quando arrivano nuove scorte di mascherine e si avvia la distribuzione di camici monouso e guanti, torna di nuovo l’adagio sul non turbare i pazienti. Solo al 21 marzo tutti tra medici e operatori sono stati adeguatamente forniti». Il martedì successivo il medico si ammalerà dopo aver seguito cinque pazienti Covid nel giro di una settimana.

L’incrocio tra gli atti sequestrati alle Rsa, in particolare mail e comunicazione interne, e in Regione sarà fondamentale per fare luce su quelle settimane a cavallo tra febbraio e marzo che hanno poi portato l’Istituto Superiore di Sanità a contare oltre 1.800 decessi dall’inizio dell’epidemia nelle Rsa lombarde.

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