18 Marzo 2021 | di Lorenzo Bagnoli
Il verdetto, arrivato ieri (17 marzo) dopo circa sette ore di camera di consiglio, è stato in bilico fino all’ultimo. Nessuno tra i presenti nell’aula allestita alla vecchia Fiera di Milano azzardava pronostici. L’esito, alla fine, è stato accolto con entusiasmo dalle difese, che si sono lasciate andare a qualche abbraccio liberatorio. Per i tredici imputati nel processo Opl 245 accusati di corruzione internazionale, a cui si aggiungono le due società Eni e Shell, il collegio giudicante della settima sezione del tribunale di Milano, ha ordinato l’assoluzione «perché il fatto non sussiste». Esattamente ciò che chiedevano le difese.
Il risultato è particolarmente positivo per Claudio Descalzi, l’attuale amministratore delegato di Eni, all’epoca dei fatti numero due di Paolo Scaroni, oggi responsabile di Rotschild in Italia e presidente del Milan. Per entrambi i pubblici ministeri Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro avevano chiesto otto anni di carcere. «Finalmente a Claudio Descalzi è stata restituita la sua reputazione professionale e a Eni il suo ruolo di grande azienda», è stato il commento del suo difensore, l’avvocato ed ex ministro della Giustizia del governo Monti, Paola Severino.
Le motivazioni tra 90 giorni
Il Tribunale si è preso novanta giorni di tempo per depositare le motivazioni della sentenza. Appare ovvio l’appello della procura di Milano, che aveva concentrato l’accusa sulla fitta corrispondenza di email interne sequestrate agli uffici de L’Aja di Shell durante le perquisizioni del 2016. Per il collegio giudicante le conversazioni non corroborano la tesi accusatoria secondo cui il versamento di 1,1 miliardi di dollari pagati da Eni sul deposito di garanzia acceso dal governo federale della Nigeria presso la succursale londinese della JP Morgan rappresentano una tangente. A questo denaro si aggiungono 210 milioni di dollari di “bonus di firma” pagati da Shell e che non sono mai stati ritenuti parti della tangente.
Può esultare anche l’ex ministro nigeriano del petrolio Dan Etete, proprietario della Malabu Oil & Gas Ltd, la società titolare della licenza esplorativa Opl 245, il quale ha nella fedina penale una condanna per corruzione in Francia nel 2007. Etete secondo le ricostruzioni dei flussi finanziari svolte da Guardia di Finanza ed Fbi avrebbe ricevuto circa 800 milioni di dollari dal governo nigeriano, che poi avrebbe distribuito a diverse società attraverso l’aiuto di un imprenditore del settore immobiliare, Aliyu Abubakar. Per quest’ultimo è atteso il rinvio a giudizio in un filone a parte del procedimento di Milano, rallentato da un errore di notifica delle indagini.
Etete, Aliyu Abubakar, così come l’ex ministro della giustizia nigeriano Mohammed Adoke Bello sono coinvolti in Nigeria – insieme ad altri politici e imprenditori – in tre filoni processuali per frode, corruzione e riciclaggio che si ricollegano alla vicenda Opl 245. Alla Corte civile di Londra entro la fine del 2021 è invece atteso il verdetto sul procedimento che vede il governo federale della Nigeria contro JP Morgan, accusata di aver sbloccato 800 milioni di dollari provento di presunta corruzione. L’esito processuale di Milano segna un punto favorevole per le aziende petrolifere anche per quanto succederà nelle aule giudiziarie nigeriane e inglesi.
Il commento di Re:Common: le lezioni della saga Opl 245
«La capacità di queste società (Eni e Shell) di influenzare i processi democratici in paesi come la Nigeria, ma anche da noi. L’affare Opl245 ha visto un ruolo centrale di quello che la Procura di Milano ha definito l’”asse delle spie”: due ex-MI6 inglesi pagati da Shell, il capo dell’intelligence nigeriana, un ex ambasciatore russo vicino a Shell e un uomo dei servizi italiani, che nel corso dell’indagine è diventato anche il grande accusatore di Descalzi & Co. Soggetti che senza problemi scrivevano nelle loro email della consapevolezza che i soldi dell’Opl245 erano attesi dai politici nigeriani, della capacità di produrre i testi negoziali anche per il governo nigeriano aggirando le agenzie tecniche preposte, della regolare intelligence su ognuno degli attori coinvolti per orientarli al meglio. Un vero e proprio Stato Parallelo, con una dimensione transnazionale, capace di influenzare ogni processo e decisione. Secondo quanto riferito dai testi sentiti in Tribunale a Milano è normale che questo accada e che il connubio società-stati porti avanti in ogni modo gli interessi comuni. Chiediamoci allora perché la questione Opl245 nella sua gravità non è stata presente nell’opinione pubblica e perché questo stato parallelo riesca a spostare il dibattito e condizionare i media e l’opinione pubblica così tanto in Italia come in altri paesi.
Nonostante la lotta alla corruzione sia sulla bocca di tutti i top manager, dall’affare Opl245 emerge che gli standard e le procedure interne anti-corruzione delle società sono regolarmente interpretate a discrezione. Le e-mail interne trapelate e altri documenti rivelano una storia di ripetuti fallimenti nell’affrontare le “bandiere rosse” (gli avvertimenti) sulla corruzione. In questo modo era normale che l’ad e il numero due di Eni si intrattenessero a telefono regolarmente con un pluri-pregiudicato – quale Luigi Bisignani – riguardo alla gestione del negoziato sull’Opl245. Le strutture interne dell’anti-corruzione di Eni, al contrario di quelle di Shell, fino all’ultimo giorno hanno ricordato ai loro manager che mancava documentazione rilevante della Malabu, ma poi alla fine hanno dato il loro assenso all’accordo. Anche quando questa procedura sarà considerata legale dai vari tribunali, è giusto chiedersi come si può fermare la corruzione se poi queste sono le pratiche concrete per prevenirla in Eni come in Shell.
La negazione dell’evidenza, sempre e comunque. Eni e Shell sapevano bene che personaggio fosse Dan Etete, l’ex ministro del petrolio che ai tempi della dittatura di Abacha nel lontano 1998 si era di fatto auto-intestata la licenza Opl245 tramite la società schermo Malabu Oil and Gas. Etete è stato condannato nel 2007 in Francia per riciclaggio collegato alla corruzione per l’affare Bonny Island, sempre in Nigeria. Nonostante tutto le due società hanno strenuamente continuato a sostenere che prima non sapevamo che Etete fosse davvero dietro la Malabu – anche se rapporti indipendenti del 2007 e 2010 chiaramente segnalavano la cosa a Eni – e poi, una volta ammesso, si sono trincerate dietro l’argomentazione che l’accordo finale siglato nel 2011 prevedeva solo il pagamento al governo nigeriano,e non alla Malabu di Etete. Quello che The Economist ha definito “sesso sicuro in Nigeria”, fatto con il “preservativo” fornito dallo schermo dai vertici del governo nigeriano, che poi avrebbero intascato laute mazzette.
In conclusione, colpevoli o no, del miliardo e cento milioni di dollari pagati da Eni e Shell nulla è finito al governo e al popolo nigeriani. Se la Nigeria avrà successo con le sue azioni legali di risarcimento del danno contro le società, sarà importante monitorare insieme alla società civile indipendente del paese che i soldi vengano spesi al meglio. Ma nel frattempo possiamo tutti chiederci se le prove emerse dal processo a Milano rivelano aziende di cui in ultima istanza ci si può fidare. Questi giganti possono essere riformati e controllati – a prescindere dal fatto che già oggi il governo italiano controlla il 30 per cento di Eni e ne nomina i vertici? O il loro uso di porte girevoli, l’infiltrazione negli apparati degli stati e il coinvolgimento di ex-spie è parte integrante del loro modo di operare?».
L’asticella irraggiungibile della corruzione internazionale
Ieri (17 marzo), sul Corriere della Sera Luigi Ferrarella ha scritto un’analisi su un problema che prescinde dalla vicenda di Eni e Shell in Nigeria e riguarda tutti i processi per corruzione internazionale. Il giornalista ha precisato di aver scelto di uscire prima del verdetto per evitare strumentalizzazioni e di essere tacciato di opportunismo.
Ferrarella registra quanto i processi per corruzione internazionale che riguardano importanti multinazionali italiane siano percepiti da un pezzo importante di opinione pubblica come un’intromissione negli affari della aziende italiane che di fatto procura loro uno svantaggio nella competizione con i concorrenti esteri. La teoria per cui in certi Paesi corrompere sia costume è per altro difficile da scalfire, quindi spesso la logica che sottende questo ragionamento – aggiungiamo noi – è che se non corrompono gli italiani lo farà qualcun altro dal momento che in certi contesti non c’è modo di fare affari altrimenti.
Per approfondire
Eni: processo a Milano, riflessi internazionali per Opl 245
ll procedimento sulla presunta tangente da 1,1 miliardi per il giacimento petrolifero Opl 245 in Nigeria coinvolge gli equilibri del management a livello internazionale
Eppure è dal dicembre 1997 che la Convenzione Ocse a tutela della concorrenza internazionale impone misure di contrasto alle pratiche corruttive. L’Italia non sono gli Stati Uniti, dove la rivalsa sui “cleptocrati” – politici e uomini d’affari beneficiari di appropriazioni indebite di parte della ricchezza nazionale – è molto più connaturata. In Italia, ricorda Ferrarella, si agisce in regime di obbligatorietà dell’azione penale e non c’è un condizionamento della politica sull’opportunità o meno di perseguire certi reati: la magistratura è indipendente dall’esecutivo. Al netto delle differenze di approccio, quello che i dati smentiscono è il presunto accanimento italiano nei confronti delle iniziative all’estero delle proprie aziende: «L’anno scorso – scrive Ferrarella – il colosso aerospaziale francese Airbus ha accettato di pagare 2,1 miliardi di euro alla Francia, 984 milioni alla Gran Bretagna e 526 milioni agli Stati Uniti che indagavano congiuntamente su 13 anni di commesse militari a Malesia, Russia, Cina e Ghana».
In Italia nonostante lo sforzo investigativo, il risultato di questo genere di processi è per lo più l’assoluzione. È un dato di fatto, a prescindere ancora una volta dal caso Opl 245. Alcune eccezioni macroscopiche tuttavia ci sono: c’è il patteggiamento del 2014 di AgustaWestland da 7,5 milioni di euro nel 2014; quello di Eni negli Stati Uniti per la vicenda Bonny Island, costata 365 milioni e quello annunciato sempre di Eni per la presunta corruzione internazionale in Congo Brazzaville. Il problema sta sempre nel pesare l’intermediazione, il suo valore e il suo effetto sul negoziato. Per quanto comprensibile sul piano storico che pagare un intermediario vicino a un ministro equivalga a pagare il politico – ragiona la firma del Corriere della Sera – non può esserlo sul piano giudiziario.
Ferrarella ha cominciato a ragionare sull’argomento all’indomani dell’assoluzione di Saipem – all’epoca dei fatti contestati controllata di Eni – nella vicenda di corruzione internazionale in Algeria del 2008. Nell’aprile 2020 il processo d’appello ha ribaltato il verdetto del primo grado, scagionando tutti gli imputati che in precedenza avevano ricevuto una condanna. Nelle motivazioni della sentenza si legge che «la remunerazione del mediatore non può essere scambiata per una tangente, tenendo conto che molte imprese si avvalgono di agenti del luogo in Paesi molto diversi per cultura e legislazione». Queste parole, commenta Ferrarella, «alzano l’asticella della corruzione internazionale a una misura di prova quasi mai raggiungibile dall’accusa».
Sulla stessa linea anche l’avvocato Luigi Scollo che sulla rivista specializzata Giurisprudenza Penale scrive a maggio 2020 che il modo in cui «esige un accertamento del fatto di reato difficilmente raggiungibile con i mezzi a disposizione dell’autorità inquirente italiana» e «risulta pressoché inadeguata per combattere efficacemente la corruzione nelle transazioni economiche internazionali».
Editing: Luca Rinaldi | Foto: Il tribunale di Milano – Luca Ponti/Shutterstock