#GiudiziUniversali
Marta Bellingreri
Costanza Spocci
Un ascensore automatico mobile trasporta un uomo in sedia a rotelle dall’aereo con cui è atterrato. Siamo nel marzo del 2000, l’aeroporto è quello di Santiago del Cile. Quest’uomo sull’ottantina, apparentemente malato, non è uno qualunque: ad attenderlo c’è un gruppo di sostenitori e i trattamenti nei suoi riguardi sono speciali. Volto e nome sono già noti, ma è il gesto che compie una volta che la sedia a rotelle tocca terra a identificarlo per sempre: l’anziano si alza e comincia a camminare con l’ausilio di un bastone, come se non avesse bisogno di alcuna assistenza. Abbraccia i familiari venuti all’aeroporto, poi torna indietro e si risiede.
L’uomo in questione è il golpista cileno Augusto Pinochet, rimasto al potere fino al 1990, e il gesto che compie comunica al mondo che l’ha fatta franca.
Sedici mesi prima infatti, il 16 ottobre 1998, era stato fermato a Londra, grazie a un mandato di arresto emesso dal magistrato spagnolo Baltasar Garzòn. Ufficialmente, sono le sue condizioni di salute ad averlo graziato dall’estradizione dal Regno Unito alla Spagna. Lì, sarebbe dovuto essere processato per i crimini contro l’umanità commessi tra il 1973 ed il 1983 in Cile.
L'inchiesta in breve
- È il 2000 quando Augusto Pinochet atterra in Cile. Su di lui pesa una richiesta di estradizione dalla Gran Bretagna alla Spagna, ma per motivi di salute è potuto rientrare nel suo Paese. Non verrà mai processato per i crimini di cui è accusato durante il decennio della sua dittatura, 1973-1983. Il “caso Pinochet” rappresenta sia il primo successo, sia il primo insuccesso della giurisdizione universale
- Il magistrato spagnolo Baltasar Garzòn ha aperto un’indagine sui desaparecidos spagnoli della dittatura militare argentina, poi di quella cilena. Grazie al principio secondo cui non esistono Paesi sicuri per chi ha commesso crimini contro l’umanità, ha potuto chiedere l’arresto di Pinochet
- La giurisdizione universale è un principio che risale già al Settecento. Il primo caso di impiego “moderno” è stato per Adolf Eichmann, un gerarca nazista processato a Gerusalemme. Più della giustizia, però, fu il Mossad a garantirne la condanna a morte in Israele
- Nel caso di Pinochet, la magistratura spagnola era riuscita a ottenere la collaborazione della Gran Bretagna, dove il dittatore si trovava per ragioni mediche. Le garanzie politiche di cui disponeva Pinochet a Londra gli hanno però permesso di farla franca
- Il fatto che un magistrato spagnolo fosse riuscito a incriminare il dittatore cileno ha comunque dato un nuovo impulso alla giurisdizione universale, complice la creazione, nel 1998, della Corte penale internazionale. È l’inizio della storia di avvocati che cercano di fermare in tutti i continenti, attraverso il sistema della giustizia, i tiranni di tutto il mondo
Il suo ritorno quasi trionfale nel Paese è un affronto alla giurisdizione universale, il principio giuridico secondo cui l’autore di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, data l’enormità e la sistematicità dei reati di cui si è macchiato, può essere perseguito anche al di fuori del territorio in cui li ha commessi. Il caso dell’ex dittatore però ha rivitalizzato questo principio tanto da costituirne «la pietra miliare»: così lo definisce Pia Figueroa, giornalista e politica cilena che non nega la delusione che Pinochet non sia mai stato processato.
Alla notizia dell’arresto, centinaia di cileni in Europa e nel Regno Unito, si erano radunati di fronte la clinica dove era stato fermato, sperando che si potesse dare un seguito alla sofferenza e all’ingiustizia compiute nell’epoca della dittatura. «Tra loro c’era mio marito», ricorda Pia Figueroa, che a causa della dittatura nel suo Paese ha vissuto molti anni in Italia, per poi essere chiamata a fare parte del nuovo governo democratico. «Si trovava in Europa per caso ed è corso subito a Londra. Non posso non dimenticare la gioia immensa che abbiamo provato. Sì, lo posso dire: eravamo felici». Una promessa di giustizia, durata otto anni, che non è mai stata mantenuta.
L’arresto del generale, tuttavia, è suonato come un campanello d’allarme per i tiranni di tutto il mondo e ha acquisito da subito una rilevanza globale: ha cambiato la prassi della dottrina, offrendo un’enorme opportunità ad attivisti, avvocati, vittime e organizzazioni non governative di creare reti transnazionali per perseguire la responsabilità delle più gravi violazioni di diritti umani. Dietro il fallimento cileno, e dunque spagnolo e inglese, c’è stata invece una volontà politica che marciava in senso contrario.
Nessuna condanna
Quando la Corte di Madrid ha fatto spiccare il mandato d’arresto, il magistrato Baltasar Garzòn stava perseguendo i reati commessi dal dittatore nei confronti di cittadini spagnoli: 94 casi di tortura, l’omicidio del diplomatico cileno all’Onu Carmelo Soria e il crimine di associazione a delinquere finalizzata alla tortura. «Fu il risultato dell’enorme sforzo della fondazione Salvador Allende in Spagna e del movimento cileno per i diritti umani, con la raccolta di prove e testimonianze dei familiari e delle vittime – racconta ancora, dopo oltre vent’anni, Carmen Hertz, avvocata per i diritti umani cilena, parlamentare, parte del movimento che ha continuato a chiedere giustizia, in una chiamata Skype dal Cile -. All’epoca non c’era internet. Mandavamo i documenti in Spagna e aspettavamo un riscontro per mesi».
Il golpe e la fondazione Allende
Nell’aprile 1996 i membri dell’Unione spagnola dei procuratori progressisti hanno presentato una denuncia alla Corte federale spagnola (Audiencia Nacional) accusando i membri della giunta militare argentina al potere dal 1976 al 1983 di genocidio, terrorismo e altri crimini relativi alla sparizione negli anni ’70 di alcuni cittadini spagnoli e di origine spagnola. Il caso è stato assegnato per legge all’Audiencia Nacional, il tribunale competente per i crimini internazionali, e per sorteggio al giudice Baltasar Garzòn, il quale cominciò a indagare sull’Operazione Condor, un’operazione per eliminare gli oppositori socialisti nel continente sudamericano. È stato nel corso dell’indagine sull’Operazione Condor che Garzòn ha emesso un mandato d’arresto contro Pinochet: quando nel luglio 1996 l’indagine è stata estesa dall’Argentina al Cile, attraverso una seconda denuncia, questa non è stata presentata da residenti o cittadini cileni ma da un’organizzazione con sede a Madrid, la Fondazione Salvador Allende, diretta dall’avvocato madrileno Juan Garcés, ex consigliere del deposto presidente cileno Salvador Allende. La Fondazione ha rappresentato 22 mila persone uccise o torturate in Cile dal golpe del 1973 ed è stata assistita da diverse organizzazioni per i diritti umani in Cile che hanno condotto una campagna contro l’impunità durante la dittatura militare e i governi successivi.
Il caso legale del Cile è stato avviato in origine attraverso una procedura nota in Spagna come acción popular, ovvero un’azione legale che qualsiasi cittadino spagnolo, o un gruppo “riconosciuto” come ad esempio una Ong, può intentare nel nome dell’interesse pubblico e nella quale chi la solleva non deve essere necessariamente una parte interessata. Una convenzione ispano-cilena del 1958 sulla doppia cittadinanza consente inoltre a qualsiasi cileno, residente o meno in Spagna, di appellarsi a un tribunale spagnolo con gli stessi diritti di qualsiasi cittadino spagnolo.
La Fondazione Salvador Allende commemora ancora oggi il presidente cileno democraticamente eletto nel 1970, Salvador Allende. Il suo governo, dichiaratamente comunista, fu spodestato dal colpo di Stato del 1973 condotto dalla giunta militare con a capo Pinochet, col sostegno degli Stati Uniti di Richard Nixon. Il Cile democratico, soppresso da sparizioni forzate, arresti, omicidi, aveva cominciato da allora a raccogliere le prove che avrebbero spedito due decenni dopo in Spagna. Ed ancora oggi è questo uno dei punti cardine dei casi di giurisdizione universale: sono le vittime al centro del processo che mettono in moto la macchina giudiziaria.
Pinochet si trovava a Londra per ragioni mediche: si doveva curare da un’operazione alla schiena. Là sapeva di essere protetto e dietro la questione di salute si nascondeva un grande acquisto di armi che avrebbero reso il Regno Unito la base delle sue operazioni. Il generale cileno, senatore a vita al momento dell’arresto, aveva sostenuto la Gran Bretagna durante la guerra delle Falkland/Malvinas e aveva mantenuto le sue amicizie ai piani alti.
«Lo scotch è una delle tradizioni scozzesi che non ti deluderà mai», aveva scritto l’ex premier britannica Margaret Thatcher in un bigliettino allegato a una bottiglia di whisky donata all’amico cileno, ha rivelato la biografia della Lady di ferro pubblicata nel 2013 dal giornalista Charles Moore. Non a caso è proprio lei che va a trovarlo in clinica durante il suo arresto.
Il dominio dei conservatori era finito nel 1997, quando è stato eletto primo ministro il laburista Tony Blair. Il governo inglese ha fatto resistenza prima all’arresto, poi alla conseguente richiesta di estradizione da parte della Spagna. Ha ceduto solo di fronte alla pressione internazionale e alle manifestazioni di piazza. La Camera dei Lord ha stabilito in due sentenze, nel novembre 1998 e nel marzo 1999, che Pinochet non era coperto da immunità in quanto ex capo di Stato per gli atti di tortura ordinati. Nonostante questo, il Segretario di Stato britannico Jack Straw era deciso a bloccare l’estradizione del generale, dopo che un team di medici indipendenti aveva segnalato un deterioramento delle sue condizioni di salute. Così accettò le prove mediche «inequivocabili e unanimi» secondo cui l’ex golpista non fosse in grado di sostenere un processo in Spagna, contro il giudizio del Parlamento inglese. A oliare i meccanismi è stata anche la diplomazia cilena: «Eduardo Frei, al tempo presidente del Cile, ha appoggiato il ritorno di Pinochet senza fare nessuna ulteriore causa a Londra – si rammarica ancora Figueroa -. Il governo cileno ha coperto le spalle al suo dittatore».
«Lo sapevamo – aggiunge Carmen Hertz -. Era una enfermedad imaginaria, una malattia immaginaria, uno stratagemma politico per evitare il processo penale in Spagna». Il marito di Hertz, il giornalista Carlos Berger, fu arrestato quando Pinochet prese il potere nel 1973 perché non aveva interrotto le trasmissioni di Radio El Loa come gli era stato chiesto dall’esercito. In seguito scomparve e fu ucciso dalla Caravana de la Muerte, lo squadrone della morte dell’esercito cileno che ha viaggiato per il Cile dal 30 settembre al 22 ottobre 1973 con lo scopo di eliminare fisicamente gli oppositori politici. È spettato a Carmen riconoscere i segni della tortura sul corpo del marito, diverso tempo dopo. Il processo per la tortura di Carlos Berger non si è mai svolto.
Le vicende processuali di Pinochet sono continuate fino all’anno della sua morte, nel 2006, e le controversie sul caso hanno conseguenze fino ad oggi, con l’ammirazione che ancora suscita (a discapito dei crimini considerati un male minore nel periodo storico in cui l’alternativa era l’ordine del mondo comunista) e scatenando un dibattito acceso come quello di recente sulla Costituzione cilena. Dopo il colpo di scena della sedia a rotelle all’aeroporto della capitale, a Pinochet vengono notificati gli arresti domiciliari, ma nel luglio 2001 la Corte d’Appello di Santiago gli restituisce la libertà. Solo nel 2004, invece, la Corte Suprema approva un eventuale processo per i crimini contro l’umanità. Gli arresti domiciliari nel frattempo l’accompagneranno per altri reati: prima di natura fiscale, poi per i crimini della Caravana de la Muerte, anch’essi revocati per il peggioramento delle sue condizioni di salute. Questa volta, era vero. In quello stesso dicembre muore da uomo libero all’ospedale militare di Santiago del Cile in seguito a una crisi cardiaca.
Le origini della giurisdizione universale
Il lavoro del giudice Garzòn nel caso Pinochet porta un grande cambiamento all’interno del diritto penale internazionale, perché mostra ai tribunali europei che avvocati in tutto il mondo possono portare al banco degli imputati gli alti gradi delle catene di comando macchiatisi di crimini contro l’umanità. In Spagna Garzòn ci riesce impugnando l’articolo 23.4 della legge sull’ordinamento giudiziario che dice che anche i cittadini non spagnoli sono perseguibili per crimini specifici commessi contro spagnoli al di fuori dei confini nazionali, come il genocidio, il terrorismo e i crimini contro l’umanità.
Con il “precedente Pinochet” nasce così una nuova prassi, cioè un nuovo modo di intendere e applicare la giurisdizione universale. Per sua stessa natura la giurisdizione universale è soggetta a modifiche nel tempo, perché fa parte del diritto internazionale consuetudinario, cioè un insieme di norme di condotta non scritte che, nei secoli, hanno preso forma e sono diventate vincolanti.
Le origini della giurisdizione universale risalgono al XVIII secolo, quando il concetto di «protezione dei beni» assume connotati universali, spiega Wolfgang Kaleck, avvocato tedesco per i diritti civili e fondatore e segretario generale del ECCHR, il Centro europeo per i diritti costituzionali e umani. Nella fattispecie “assumere connotati universali” significa che da quel momento in poi gli assalti dei pirati alle navi mercantili vengono considerati come “attacchi contro l’umanità”, e siccome la pirateria colpisce tutti, a quel punto “tutti” possono punire i pirati responsabili indipendentemente dalla compagnia di bandiera della nave o dalla nazionalità del capitano e dei componenti della ciurma. Questa concezione diventa una consuetudine settecentesca sempre più affermata, fino a tradursi in una norma non scritta ma vincolante che consente a tutti gli Stati della comunità internazionale di arrogarsi il diritto di giudicare e condannare gli individui per il crimine di pirateria. La repressione della pirateria, regolata dalla giurisdizione universale, verrà codificata nero su bianco solo nel 1958 con l’art.19 della Convenzione internazionale di Ginevra concernente l’alto Mare e nel 1982 con l’art. 105 con la Convenzione dell’ONU sul diritto del mare di Montego Bay.
Un passo successivo fondamentale nell’evoluzione della giurisdizione universale è la Carta di Norimberga del 1945 che, redatta al termine dei processi contro i gerarchi nazisti alla fine della Seconda guerra mondiale, stabilisce per la prima volta l’esistenza di crimini contro l’umanità, crimini di guerra e di genocidio. Norimberga rappresenta però in questo caso la “giustizia dei vincitori”, e non il principio di giurisdizione universale, perché il tribunale internazionale è stato creato ad hoc dai vincitori della guerra per giudicare e punire i perdenti.
Sarà il caso Eichmann il primo ad avvicinarsi di più al concetto di giurisdizione universale contemporaneo. Adolf Eichmann, gerarca nazista considerato uno dei principali responsabili dello sterminio degli ebrei in Germania, viene processato a Gerusalemme nel 1961. Lo Stato di Israele aveva richiesto la sua estradizione all’Argentina, dove Eichmann si rifugiava sotto falsa identità e lavorava come operaio in uno stabilimento Mercedes. Siccome il governo argentino non concedeva l’estradizione, un commando di undici uomini del Mossad, i servizi segreti di Israele, rapisce Eichmann e lo porta direttamente in un’aula di tribunale israeliana dove viene condannato a morte e giustiziato l’anno successivo.
Al di là delle modalità di prelievo e di condanna, il caso Eichmann corrisponde alla definizione pura di giurisdizione universale. Si tratta infatti di un Paese terzo (Israele) che persegue i crimini contro l’umanità che sono stati commessi al di fuori del suo territorio nazionale (sterminio di milioni di persone ebree nei campi di concentramento nazisti) e mette sotto accusa persone di altre nazionalità (Eichmann, tedesco) in base al principio che i crimini internazionali sono offese universali contro l’umanità. Riguardano tutti e non possono rimanere impuniti, indipendentemente dai territori e dalle nazionalità. In altre parole, non si può concedere un rifugio sicuro ai criminali che fuggono in un Paese terzo.
Hannah Arendt e i nemici del genere umano
Nel giugno del 1960 Hannah Arendt scrive in una lettera all’amica e scrittrice statunitense Mary McCarthy: «Sto quasi accarezzando l’idea di chiedere a qualche rivista di mandarmi a coprire il processo Eichmann. Sono molto tentata». In quanto filosofa e politologa, Arendt ha in testa una domanda: «[L]e cose andrebbero diversamente se avessimo una legge contro gli hostes humani generis (nemici del genere umano) e non solo contro assassini e criminali simili?».
Adolf Eichmann, gerarca nazista, tra gli ideatori del piano di sterminio degli ebrei di 18 Paesi europei, conosciuto anche come Soluzione finale, sarebbe secondo Arendt un hostis humani generis, cioè un nemico del genere umano. Da poco i servizi segreti israeliani del Mossad l’avevano rapito in Argentina per portarlo a Gerusalemme e processarlo per i crimini della Shoah. Arendt decide di seguire la sua «tentazione» e si rivolge a William Shawn, editore del New Yorker, che le affida l’incarico di seguire il processo. Ne usciranno cinque lunghi reportage nella sezione A Reporter At Large (traducibile come Un reporter sul posto) della rivista, che verranno raccolti e riorganizzati in un libro che diventerà l’opera filosofica più conosciuta di Hannah Arendt: La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, pubblicata nel 1963.
La banalità di Eichmann, secondo la scrittrice, sta nel vuoto di pensiero del gerarca nazista: non ha mai preso una decisione da solo, ha sempre richiesto direttive e ha sempre eseguito gli ordini. Su questo concetto Arendt mette in discussione i giudici del tribunale di Gerusalemme: secondo lei non sarebbero stati in grado di cogliere la più grande sfida morale e persino giuridica dell’intero caso, ovvero che nelle condizioni del Terzo Reich ci si poteva aspettare che solo le “eccezioni” agissero normalmente. Il grande criminale Eichmann è un uomo normale. La sua malvagità banale consiste nel fatto che lui stesso è il prodotto di una società la cui moralità è stata completamente stravolta, se non ribaltata, da un regime criminale. In altre parole, Eichman è banale perché chiunque non si sia ribellato al sistema nazista è altrettanto responsabile di quello che è successo; di conseguenza, le persone perbene potrebbero non essere così perbene perché i criminali come Eichmann potrebbero non essere così devianti.
Detto questo, la colpevolezza di Eichmann non doveva essere sminuita dal fatto che 80 milioni di tedeschi avrebbero potuto fare come lui. Per questo motivo Arendt crede fermamente che i processi penali internazionali non debbano mai essere messi in scena come opere morali o per ragioni politiche. Scrive, sul quinto e ultimo reportage del New Yorker, che i crimini nazisti avrebbero dovuto essere considerati crimini contro l’umanità piuttosto che solo contro il popolo ebraico, perché i crimini commessi dal gerarca non riguardavano crimini ai sensi della sola legge israeliana, bensì erano delicta juris gentium, crimini contro la legge delle nazioni. L’unica possibilità per Arendt sembra essere quella di affiancare alla Corte internazionale dell’Aia un tribunale penale per hostes generis humani che sia competente a processare gli individui che si sono macchiati di crimini internazionali che, poiché sono offese universali contro l’umanità e riguardano tutti, sono perseguibili al di là di limitazioni territoriali e di nazionalità.
In assenza però di una corte internazionale super partes, ritiene Arendt, e nell’ipotesi di crimini tanto gravi da colpire l’intera umanità e sconvolgere la coscienza delle nazioni, i tradizionali criteri di territorialità e personalità devono cedere il posto ad una giurisdizione universale, esercitabile dagli organi giurisdizionali di ciascun ordinamento nazionale. Cosicché chi commette core crimes – ovvero quei crimini che sono stati inseriti sin dalle origini negli Statuti dei tribunali penali internazionali, come i crimini di guerra, crimini contro l’umanità, genocidio e aggressione – non può trovare rifugio sicuro in Paesi terzi.
Arriva il 1998, l’anno dei grandi cambiamenti, «l’anno della giustizia internazionale» come poi lo definiranno molti avvocati per i diritti umani. Il 17 luglio 1998 a Roma viene stilato il trattato di fondazione della Corte penale internazionale, un tribunale competente per giudicare i crimini internazionali con sede all’Aja. Lo Statuto di Roma nei suoi articoli 5-6-7-8 prevede che siano competenza della Corte i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra e il genocidio, considerati come i crimini più gravi che interessano l’intera comunità internazionale. In tutto, 123 Stati ratificano il trattato.
Solo tre mesi dopo, arriva quel 16 ottobre, al London Bridge Hospital a Londra: l’Interpol arresta Pinochet. Lo fa grazie a una Red Notice, il mandato d’arresto fatto partire dal lavoro del giudice Garzòn. Anche se Pinochet come Lazzaro si alzerà e camminerà al suo arrivo in aeroporto a Santiago del Cile, il mandato di cattura e il suo breve arresto hanno una eco internazionale che negli anni successivi consentirà grandi passi avanti in termini di applicazione della giurisdizione universale.
«L’arresto di Pinochet aveva permesso agli attivisti e alle vittime di iniziare a sognare quella giustizia e di dire: “Possiamo farlo”. La domanda a quel punto era: “Chi è il prossimo?”», racconta con entusiasmo l’avvocato per i diritti umani Reed Brody. Figlio di un ebreo ungherese sopravvissuto ai campi di lavoro in Germania e poi trasferitosi a New York, Brody si è formato come legale seguendo con passione il caso Pinochet mentre collaborava allo studio del caso con il suo mentore, l’avvocato statunitense Michael Ratner, allora presidente del Centro per i diritti costituzionali a New York. L’incontro con Ratner, è il punto di svolta della carriera di Brody: una volta conclusosi il “caso Pinochet”, il giovane avvocato pensa che se Garzòn è riuscito a far arrestare Pinochet, seppur per poco, allora anche lui può provare a portare in tribunale altri capi di Stato che si sono macchiati di gravi crimini contro l’umanità. E così si mette alla ricerca del “prossimo” dittatore da portare alla sbarra.
Brody forma in breve tempo una squadra di ricercatori e legali che, intrecciando i dati, creano una mappa su cui vengono tracciati i viaggi di dittatori in Africa, Europa e Sud America. Sulla base di quelle traiettorie, Brody e il suo team iniziano a identificare i capi di Stato e gli alti ufficiali contro cui cominciare a preparare dei dossier, al punto che nel giro di poco tempo Brody e il suo team si guadagnano il soprannome di “Cacciatori di dittatori”. È solo l’inizio e solo un tassello di un processo che progressivamente prenderà le forme di una rete transnazionale: lo stesso Brody, il suo mentore Ratner e un altro collega che aveva lavorato sul caso Pinochet, Wolfgang Kaleck, che all’epoca era un giovane avvocato per i diritti umani, dieci anni dopo fonderanno una delle organizzazioni più attive a livello mondiale per l’applicazione della giurisdizione universale: il Centro europeo per i diritti costituzionali e umani.
Conosciuta anche come ECCHR, questa organizzazione no-profit si prefiggerà di porre fine all’impunità internazionale fin dalla sua fondazione nel 2007. Con l’aiuto di reti di altre organizzazioni della società civile sparse su quattro continenti, ECCHR proverà a portare presidenti, politici e alti ufficiali davanti alla sbarra degli imputati in tribunali di mezzo mondo: dagli USA al Chad, dal Gambia alla Siria. E in alcuni casi, come vedremo nelle prossime puntate, ci riusciranno.
CREDITI
Autrici
Marta Bellingreri
Costanza Spocci
Editing
Lorenzo Bagnoli
Foto di copertina
Il Generale Augusto Pinochet in Cile l’1 maggio 1987
(Eric Brissaud/Getty)