27 luglio 2020 | di Lorenzo Bagnoli, Lorenzo Bodrero
Isei milioni di euro destinati nel 2017 alle Ong italiane per migliorare le condizioni di vita dei migranti rinchiusi nei centri di detenzione in Libia hanno un impatto minimo se non nullo rispetto agli scopi dichiarati. Anzi, rischiano «di conferire una legittimazione alla stessa esistenza dei centri e delle note dinamiche di abuso». A cui si aggiunge il sospetto che quei fondi della cooperazione finiscano, in parte, alle milizie che gestiscono i centri di detenzione. Le accuse sono mosse da Asgi, l’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, che ha stilato un lungo report sulla legittimità e sui dettagli dei progetti di cooperazione in Libia.
L’obiettivo dei “Bandi”, indetti dal Ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e finanziati con fondi pubblici, è migliorare le catastrofiche condizioni all’interno dei centri libici ma in realtà altro non sono che, nella migliore delle ipotesi, «un sostegno strutturale» alla detenzione e, nella peggiore, «un supporto» alle milizie responsabili del traffico di essere umani e di torture e violenze all’interno dei campi.
Il Memorandum con la Libia del 2017
L’accordo Italia-Libia firmato nel febbraio 2017 ha inaugurato la campagna, ancora in corso, di aperto sostegno economico e operativo alle autorità libiche per limitare l’afflusso di migranti verso l’Europa. È stato il momento dal quale l’Italia ha appoggiato il governo di Tripoli di Fayez al-Serraj, sostenuto dalle Nazioni Unite. Da allora, l’Italia ha destinato risorse, mezzi e formazione “professionale” alla Libia per la gestione dei migranti. L’appoggio è totale ormai anche dal punto di vista politico, certificato dal via libera al rifinanziamento delle missioni registrato alla Camera lo scorso 17 luglio, con 401 sì, 23 no e un’astensione.
Quel trattato firmato tre anni fa era la diretta conseguenza della legge di bilancio del 2016 nella quale veniva istituito per la prima volta un fondo pari a 200 milioni di euro – il cosiddetto “Fondo Africa” – per interventi a favore dei Paesi maggiormente interessati dal fenomeno migratorio. Lo scopo? Assicurare la piena cooperazione con i Paesi di origine e di transito dei migranti.
Dal 2017 l’agenzia italiana per la cooperazione internazionale ha destinato alla sola Libia oltre 60 milioni di euro. Sei di questi sono stati appaltati attraverso tre call, i Bandi appunto, e hanno visto la partecipazione di cinque Ong capofila dei progetti. Si tratta di Emergenza Sorrisi, Helpcode (già CCS), CEFA, CESVI e Terre des Hommes Italia, che lavorano insieme a Fondation Suisse de Deminage, GVC (già We World), Istituto di Cooperazione Universitaria, Consorzio Italiano Rifugiati (CIR), Fondazione Albero della Vita. I centri principali in cui lavorano sono Tarek al Sika, Tarek al Matar e Tajoura, tutti in prossimità di Tripoli. Helpcode è la Ong che Asgi indica come «maggiormente presente nei tre centri». Negli altri centri le Ong hanno uno o due progetti. Il 2 luglio 2019 un bombardamento ha ucciso almeno 52 migranti e feriti altre 87 tra coloro che erano detenuti nel centro di Tajoura, a est di Tripoli. È quanto risulta alle forze del Gna, il governo di accordo nazionale di Tripoli presieduto da Fayez al-Serraj. Risulta che le bombe, sganciate da forze straniere alleate del nemico Khalifa Haftar, fossero rivolte a una vicina caserma.
Il report dell’associazione di giuristi, dal titolo Profili critici delle attività delle Ong italiane ne centri di detenzione in Libia con fondi Aics, si concentra sui tre Bandi istituiti nel 2017 dall’Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo (Aics). Gli interventi comprendono un ampio spettro di attività: dalla salute, con la creazione di ambulatori e presidi medico-sanitari, all’igiene, con la distribuzione di kit per la cura della persona e la costruzione di latrine e pozzi; dai beni primari, con la distribuzione di alimenti e altri generi di prima necessità, alla protezione, con supporto psicologico per i detenuti e formazione al personale. Se le attività venissero davvero implementate si potrebbe far fronte «a tutti i bisogni quotidiani delle persone detenute nei centri», scrive Asgi. Ma le intenzioni sulla carta sono distanti anni luce dalla realtà sul campo.
Il ricorso contro la Guardia costiera libica
Asgi e il Cairo Institute for Human Rights Studies (Cihrs) hanno presentato un ricorso contro Italia, Malta e Libia di fronte al Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite per conto di due migranti intercettati dalla Guardia costiera libica il 18 ottobre 2019. Secondo gli avvocati che hanno presentato ricorso, Italia e Malta erano già state avvisate della presenza di un barcone in difficoltà, nei pressi di Lampedusa, nella zona di salvataggio sotto l’autorità di Malta. Eppure i due Paesi europei hanno aspettato a intervenire in attesa dell’arrivo della motovedetta Fezzan, mezzo regalato dall’Italia alla Libia e ora a disposizione dei guardacoste di Tripoli.
Secondo i legali, il mancato intervento è una violazione del diritto internazionale e un respingimento per procura.
I centri sotto finanziati e sovraffollati
Sebbene negli stessi Bandi venga riconosciuta la crisi che attraversa la Libia e la «drammaticità delle condizioni di vita» nei centri, al governo libico manca la volontà di superare determinate criticità che rendono impossibile qualsivoglia progetto. Secondo i Bandi stessi, la spesa pro-capite del governo libico per le razioni alimentari oscilla tra 0,5 e 1 euro al giorno per detenuto. Asgi fa però notare che un budget simile non può ascriversi «all’impossibilità del governo libico, bensì ad una sua scelta politica», che mostra la totale discrezionalità del governo di Tripoli ad aprire o meno i rubinetti del contante e di conseguenza la scarsa attenzione al rispetto dei diritti umani di base.
La stessa osservazione vale per il sovraffollamento, questione alla base di tutte le criticità dei campi. Dei circa 700mila migranti registrati in Libia (stime dell’Oim, l’organizzazione Onu delle migrazioni, arrivano fino al milione), erano circa ottomila quelli presenti nei centri di detenzione a settembre 2019, poco più dell’1%. L’ingresso irregolare in Libia costituisce un reato punito con la reclusione. Dato che non esiste la possibilità di chiedere asilo, un migrante irregolare, qualunque sia la sua condizione, può essere incarcerato per un tempo indefinito: «La presenza nei centri è dettata unicamente da decisioni del governo libico», scrivono i ricercatori di Asgi. Tra chi è costretto nei campi di detenzione ci sono anche donne e bambini.
Anche la realizzazione delle attività progettuali da parte delle Ong solleva pesanti interrogativi di tipo giuridico. È il caso, per esempio, dei campi di Souq al Khamis e Al Sabaa in cui sono state apportate migliorie e sono stati rinforzati i cancelli e le recinzioni dei centri di detenzione. «Tali interventi – scrive Asgi – possono aver contribuito al mantenimento di detenuti nella disponibilità di soggetti notoriamente coinvolti in gravi violazioni di diritti fondamentali». Soldi dei contribuenti italiani, quindi, che in molti casi sono a beneficio delle strutture e non dei detenuti e vengono utilizzati per perfezionare la detenzione di persone vittime di violenze e soprusi di ogni genere.
C’è poi un problema legato all’ente che controlla i centri detentivi: il Dipartimento per il contrasto all’immigrazione clandestina del Ministero dell’interno libico (Dcim). Il report di Asgi riporta che il Dcim però «sembra avere un controllo nominale su molti dei centri». In molti casi, di cui il più famoso è quello di Zawiya, i centri «sono gestiti da milizie locali». Proprio uno dei centri di detenzione cittadino – guidato dalla Brigata Shuhada al Nasr, di cui fanno parte Mohammed Koshlaf e Abdul Rahman Milad detto Bija – ha ricevuto un milione di euro dai fondi Aics, secondo quanto riportato in un report di aprile della Global Initiative Against Transnational Organized Crime (Gitoc), citato da Asgi. Una fonte Oim citata dal report di Gitoc e da Asgi sostiene: «Lo sviamento degli aiuti umanitari in Libia è una realtà».
Fondi senza condizionalità
Infine, esiste un problema di contropartite. L’erogazione delle somme per implementare gli interventi previsti dai bandi non è sottoposta ad alcuna condizionalità nei confronti del governo di Tripoli. Tradotto, l’Italia sborsa milioni ma la Libia non è obbligata a giustificarne l’utilizzo. Sul piano diplomatico, fanno notare i giuristi, non si è mai registrata nessuna richiesta o pressione da parte del governo italiano come contropartita per gli interventi finanziati dall’Agenzia per la cooperazione e lo sviluppo. Sono tante le condizioni potenzialmente da mettere sul tavolo delle trattative: un impegno ad una spesa maggiore per il mantenimento della popolazione, l’ampliamento delle strutture, un controllo sulle violenze commesse, la scarcerazione di donne e bambini, o la fissazione di un termine massimo di durata della detenzione. Finora, niente di tutto ciò. Con la conseguenza che un dubbio aleggia sull’intero sistema di sostegno: i fondi italiani finiscono nelle tasche delle milizie armate?
Ad accrescere il sospetto contribuiscono le censure sui documenti contabili delle Ong che operano in Libia e la mancata trasmissione ad Asgi dei testi dei progetti da parte dell’Aics. Eppure niente di tutto questo sembra preoccupare il Parlamento italiano. L’approvazione del rifinanziamento alla Libia passato alla Camera il 17 luglio certifica la definitiva legittimizzazione della Guardia costiera libica e del modello vigente dei centri di detenzione. Come raccontato anche da IrpiMedia, almeno in alcune delle realtà finanziate oggi, le milizie libiche alleate del governo di Fayez al-Serraj guadagnano attraverso la gestione dei centri di detenzione e l’intercettazione di gommoni e navi cariche di gasolio. Questo sistema criminale esiste anche perché l’Italia contribuisce al suo finanziamento e non obbliga il governo di Tripoli a gestire lo strapotere delle milizie.
La partita, per altro, si inquadra in un contesto geopolitico più complesso. Oltre ai migranti, la Libia è un Paese chiave per l’approvvigionamento energetico europeo. Otto giorni prima del voto alla Camera infatti, come riporta Avvenire, una delegazione di Eni ha incontrato prima il premier Fajez al-Serraj e poi la controparte del Noc, la compagnia petrolifera della Libia. «In entrambi gli incontri – ha dichiarato una fonte del governo libico al quotidiano di ispirazione cattolica – sono stati discussi la ripresa della produzione e delle esportazioni di petrolio e una serie di nuovi progetti».
Il 18 luglio, con una lettera a La Repubblica, il ministro degli esteri Luigi di Maio ha però voluto ribadire le priorità del dicastero da lui diretto: «Abbiamo ottenuto l’impegno del Governo libico a modificare il Memorandum sulla base di principi per noi fondamentali: il miglioramento delle condizioni dei migranti; il rafforzamento dello stato di diritto e della tutela dei diritti umani dei migranti; il consolidamento del ruolo delle Organizzazioni Internazionali e della società civile».
Proprio quel Memorandum del 2017 che oggi appare più come un “peccato originale” che un trattato bilaterale, e che ha dato inizio a una serie di insuccessi prima umanitari e poi politici: porti chiusi, mancati salvataggi di zattere alla deriva, navi cariche di rifugiati trattenute con la forza in mare aperto, mancato aumento dei rimpatri, guardacoste e lager libici finanziati con soldi pubblici. Vengono in mente le parole dell’Alto commissario Onu per i diritti dell’uomo pronunciate il giorno prima della pubblicazione dei primi Bandi per la Libia: «Il sistema di detenzione per migranti in Libia è troppo compromesso per essere aggiustato. Solo alternative alla detenzione possono salvare la vita e l’integrità personale dei migranti, salvaguardare la loro dignità e proteggerli da ulteriori atrocità».