#NdranghetaEmiliana

Da Cutro a Reggio Emilia: la colonizzazione della ‘ndrangheta in Emilia Romagna
Dai Dragone a “mano di gomma”, così la cosca di Cutro ha messo le mani sulla regione
02 Novembre 2020
Sofia Nardacchione

«Dove altri non volevano vedere bollarsi come territorio di ‘ndrangheta e negavano persino l’evidenza, non c’erano anticorpi, la storia lo sa. La spina dorsale non esisteva proprio, in tanti erano genuflessi, accondiscendenti, conniventi e contigui».

Il territorio definito «di ‘ndrangheta» è Reggio Emilia, le parole quelle di Antonio Valerio, collaboratore di giustizia con un passato non remoto nella criminalità organizzata calabrese alla sbarra nel processo Aemilia. C’è anche lui tra le 117 persone che il 28 gennaio 2015 vengono arrestate in Emilia-Romagna nella più importante maxi-operazione contro la ‘ndrangheta nel Nord Italia.

28 gennaio 2015

Emilia-Romagna, Lombardia, Calabria. Interi paesi nelle tre regioni italiane all’alba del 28 gennaio del 2015 si svegliano con i suoni di sirene, elicotteri, volanti delle forze dell’ordine. È l’inizio di tre operazioni congiunte: Aemilia, Pesci e Kyterion. Indizi, tappe, pedine di un sistema di ‘ndrangheta che parte da Cutro, diecimila anime in provincia di Crotone, e arriva a Reggio Emilia e poi, ancora, a Modena, Parma, Piacenza, Mantova.

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Sono 160 le persone arrestate in tutta Italia, 117 solo in Emilia-Romagna. Le sirene che svegliano paesi e città all’alba colpiscono soprattutto questa regione, che continuava a ritenersi immune dal radicamento mafioso. In Lombardia c’era già stata, cinque anni prima, l’indagine Infinito, in Calabria centinaia di operazioni più o meno grandi. La regione che geograficamente è al centro rispetto alle altre due colpite dai blitz, si trova ad essere crocevia di quest’ultima, ritenuta tra le più importanti della storia recente.

Questi i numeri del maxiprocesso alla ‘ndrangheta emiliana partito nel marzo 2016: 239 imputati complessivi – colpiti da misure cautelari anche in successivi blitz che proseguono fino al luglio del 2015 – poi divisi tra riti abbreviati (71), patteggiamenti, (19), proscioglimenti, (2), e i 147 che andranno a giudizio nel rito ordinario. 189 capi di imputazione: associazione a delinquere di stampo mafioso, estorsioni, usure, furti, incendi, commercio di sostanze stupefacenti. Oltre agli altri, forse più inquietanti, che raccontano le modalità d’infiltrazione e radicamento della ‘ndrangheta in questa regione: come si legge nell’ordinanza dell’operazione, lo scopo dell’associazione era quello di “acquisire direttamente e indirettamente la gestione e/o controllo di attività economiche”.

Come si legge nell’ordinanza dell’operazione, lo scopo dell’associazione era quello di “acquisire direttamente e indirettamente la gestione e/o controllo di attività economiche”

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Quello che prenderà il via tra Bologna e Reggio Emilia è un processo di portata storica per l’Emilia-Romagna, che non è attrezzata per celebrare un procedimento di queste dimensioni: le udienze preliminari si svolgono in un padiglione della fiera del capoluogo emiliano, il rito ordinario nel cortile del Tribunale di Reggio Emilia. In entrambi i luoghi sono state costruite aule bunker per poter celebrare un processo del genere: spazio per le centinaia di imputati e i rispettivi avvocati, per i parenti, per i giornalisti e la cittadinanza, metal detector all’ingresso, celle per gli imputati in carcere, sistemi di videosorveglianza e videoconferenza.

«È un punto di non ritorno», afferma nella prima conferenza stampa a margine degli arresti il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. Così sarà, perché, da quella data, i blitz contro i clan di ‘ndrangheta nella regione non si sono più fermati, grazie a nuove rivelazioni di collaboratori di giustizia, nuove indagini e prove, fino a ricostruire un sistema che ha iniziato a radicarsi in Emilia-Romagna dagli anni Ottanta

1982: il soggiorno obbligato

È il 1982 quando Antonio Dragone, capo della locale di ‘ndrangheta di Cutro, viene mandato dalle autorità a Quattro Castella, in provincia di Reggio Emilia, attraverso lo strumento del soggiorno obbligato. Una misura cautelare di epoca fascista reintrodotta nel 1956 nei confronti di chi è ritenuto pericoloso per la pubblica sicurezza e, dal 1965, contro gli indiziati di associazione mafiosa. Una misura che nelle intenzioni del legislatore sarebbe servita ad allontanare i mafiosi dal loro territorio di origine, per spezzare i legami criminali che avevano creato. Così non è stato: i casi sono tanti, da Riina a Badalamenti.

Ma fermiamoci a Quattro Castella. Antonio Dragone riesce a far confluire sul territorio reggiano, soprattutto in alcuni piccoli centri della bassa e nel capoluogo, i familiari più stretti ed i fedelissimi con le rispettive famiglie. Inizia quindi a portare avanti alcune delle attività criminali tipicamente mafiose: il traffico di droga, che estende poi anche alla provincia di Modena, estorsioni e controllo degli appalti edili ed estorsioni. Tutte ai danni di chi, arrivando dalle zone del crotonese, era in grado di rendersi conto della pericolosità intimidatoria del gruppo mafioso. Affari che gestisce in prima persona per solo un anno: nel 1983, infatti, viene arrestato. Il controllo del gruppo passa allora al figlio, Raffaele, e rimarrà nelle mani della famiglia dei Dragone fino al 1993, quando anche lui finisce in carcere.

È il 1982 quando Antonio Dragone, capo della locale di ‘ndrangheta di Cutro, viene mandato dalle autorità a Quattro Castella, in provincia di Reggio Emilia, attraverso lo strumento del soggiorno obbligato

Il boss Nicola Grande Aracri detto “mano di gomma”

Mano di gomma

È a questo punto che il controllo della ‘ndrina viene preso da Nicolino Grande Aracri, affiliato di primo piano della ‘ndrangheta, detto “Mano di gomma”: un soprannome che risale al 1977 quando, a causa di un incidente, perse parzialmente l’utilizzo di una mano. La sua ascesa inizia in Calabria nei primi anni ‘80 quando i Dragone si spostano al nord, ma assume il comando del clan cutro-emiliano solo nel 1993, quando Antonio e Raffaele sono in carcere, sfruttando il fatto di essere rimasto l’unico dei capi ancora in libertà. Prende in mano la gestione del traffico di stupefacenti non solo in Emilia-Romagna ma anche in Lombardia, cercando di ampliare sempre più il suo potere: «Io – avrebbe detto Grande Aracri secondo le dichiarazione del collaboratore di giustizia Vittorio Foschini – sono un killer; io ci sto facendo il nome ai Dragone, io sto ammazzando la gente per i Dragone però loro si prendono i soldi ed io no. A questo punto mi sono stancato; la famiglia me la alzo io, non do più conto ai Dragone».

Le attività, intanto, vanno avanti: quello dei Dragone-Grande Aracri-Ciampà-Arena è un clan che ha già attraversato una guerra di ‘ndrangheta contro la cosca Vasapollo-Ruggiero per il controllo del territorio reggiano nel 1992. Una faida che ha portato anche a due omicidi nella città emiliana, quelli emersi nel processo Aemilia 1992, e in cui Nicolino Grande Aracri ha avuto un ruolo di primo piano: è stato infatti condannato in primo grado all’ergastolo per uno dei due omicidi, quello dello ‘ndranghetista Giuseppe Ruggiero. Non solo, secondo quanto ha dichiarato Paolo Bellini, che oltre ad essere un ex estremista di destra era il killer al soldo della famiglia dei Vasapollo, contro di lui c’era un progetto di omicidio, che poi non venne portato a termine: ad avere la meglio è infatti il clan di cui faceva parte anche Grande Aracri.

Quello dei Dragone-Grande Aracri-Ciampà-Arena è un clan che ha già attraversato una guerra di ‘ndrangheta contro la cosca Vasapollo-Ruggiero per il controllo del territorio reggiano nel 1992. Una faida che ha portato anche a due omicidi nella città emiliana

La cosca emiliana autonoma

La ‘ndrina emiliana non opera come quella calabrese. Si rimodella in base al territorio in cui si radica, profondamente diverso a livello sociale, economico e culturale. Se già ai tempi di Antonio Dragone le estorsioni erano ai danni delle sole persone di origine cutrese, meno intente a denunciare per paura di ritorsioni nei confronti dei familiari che ancora vivevano in Calabria, con la reggenza di Nicolino Grande Aracri le modalità cambiano. Il raggiungimento del profitto criminale, più che il controllo militare del territorio, diventa il punto centrale delle modalità di azione della cosca, che fa del mimetismo la sua forza per penetrare il tessuto economico e imprenditoriale emiliano-romagnolo, lasciando da parte le tradizionali cerimonie di affiliazione, i riti e i rituali.

Il tessuto economico dell’Emilia-Romagna è un tessuto florido e quindi, come scrivono i giudici della Corte di Cassazione – che tre anni dopo l’operazione Aemilia mettono un punto a una prima tranche del processo, quella dei riti abbreviati -, è «estremamente propizio all’affermazione degli organismi imprenditoriali in mano all’associazione, ovvero ad essa soggiogati, in pregiudizio alla libera concorrenza». Tra il 2004 e il 2015, infatti, l’associazione mafiosa costituisce un consorzio di imprese attive nel settore dell’edilizia e in quelli a questo connessi, come l’autotrasporto, per «consentire alla locale emiliana e alla casa madre cutrese di estendere la propria operatività nell’area di riferimento e di conseguire rilevantissimi profitti», che alimentavano una «vorticosa emissione di fatture false».

Operazione Scacco Matto
L’operazione Scacco Matto, portata avanti dagli inquirenti calabresi, ricostruì quello che accadde nella consorteria di Cutro tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta, in particolare nel periodo in cui Antonio Dragone era in carcere e Nicolino Grande Aracri iniziò la sua ascesa che sfociò nella faida interna. L’operazione e il successivo processo comprovarono l’esistenza e l’operatività della cosca capeggiata da Nicolino Grande Aracri e la qualificarono, per la prima volta, come mafiosa. Il processo si è concluso con la condanna a 30 anni per Grande Aracri, accusato di essere coinvolto in cinque omicidi di mafia, tra cui quello di Raffaele Dragone. Da questa operazione partiranno poi le successive – Grande Drago e Edilpiovra – che, nei primi anni Duemila, hanno riconosciuto la presenza di ‘ndranghetisti in Emilia-Romagna, senza però mettere in luce l’esistenza di un vero e proprio clan emiliano.

Un vero e proprio sistema economico illegale che permetteva di operare nell’ombra, reinvestendo denaro e soggiogando così l’economia di un intero territorio. Il metodo rimane quello mafioso: dai reati più tipici a quelli economici, fino alle infiltrazioni nei lavori per il sisma in Emilia del 2012.Il tutto portato avanti da una ‘ndrina che era sì collegata alla locale di Cutro ma che agiva autonomamente rispetto ad essa, radicandosi profondamente in regione.

Il controllo del territorio

Il sistema tracciato dalle inchieste funzionava grazie a una vera e propria divisione del territorio. C’era Nicolino Sarcone, competente per la zona di Reggio Emilia; Michele Bolognino per Parma e la Bassa reggiana; Alfonso Diletto “capo promotore” della Bassa reggiana; Francesco Lamanna per Piacenza; Antonio Gualtieri, per Piacenza e Reggio; Romolo Villirillo, la figura di collegamento con tutte le zone. Ci sono poi gli organizzatori per il raccordo operativo, che fanno da collegamento tra le varie zone. Sono i capi promotori e gli organizzatori che decidono, pianificano, individuano le azioni e le strategia della consorteria, impartiscono direttive agli associati, gestiscono i rapporti interni ed esterni. E, sempre loro, curano i rapporti con Nicolino Grande Aracri e i suoi emissari. Un sistema che si articolava anche all’esterno, con una vasta zona grigia fatta di imprenditori, politici, professionisti, giornalisti, forze dell’ordine, a servizio dell’associazione. Soprattutto, grazie ai quali la ‘ndrina è riuscita a radicarsi in profondità, in nome di un profitto e di un potere che non potevano avere operando all’interno di un sistema economico, politico e imprenditoriale legale.

Il maxiprocesso

Dal 2015 ad oggi una parte del processo si è conclusa, un’altra è ancora in corso, mentre si sono aperti nuove indagini e nuovi procedimenti giudiziari che stanno svelando nuove modalità e affari della ‘ndrina emiliana. Nell’ottobre del 2018 si è concluso in via definitiva il rito abbreviato, con una sentenza della Corte di Cassazione che stabilisce la presenza di una cosca emiliana che operava autonomamente rispetto alla locale di Cutro e che condanna tutti i principali boss con pene fino a 14 anni di carcere, insieme ai professionisti condannati per concorso esterno in associazione mafiosa con pene fino a 10 anni. Nello stesso mese si è chiuso il primo grado del rito ordinario per 148 imputati di cui 34 accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso: sono 125 le condanne e più di 1200 gli anni di carcere comminati.

La pena più alta è quella di 38 anni a Michele Bolognino, l’unico dei boss a capo della ‘ndrina emiliana a non aver scelto fin da subito il rito abbreviato, procedimento che gli avrebbe permesso lo sconto di un terzo della pena. È più corretto parlare, per questa sentenza, di due procedimenti: con rito ordinario e un altro con rito abbreviato. Perché nel febbraio del 2018 l’accusa è cambiata e nuovi reati si sono aggiunti a quelli che già riempivano le carte giudiziarie: i nuovi reati arrivano non più al 28 gennaio 2015, giorno dell’operazione Aemilia, ma all’8 febbraio 2018. Secondo gli investigatori le attività criminali dei principali imputati non si sarebbero fermate nemmeno dopo gli arresti.

CREDITI

Autori

Sofia Nardacchione

Infografiche & Mappe

Lorenzo Bodrero

Editing

Luca Rinaldi

Foto

D-Visions/Shutterstock