#NdranghetaEmiliana
Sofia Nardacchione
C’è la commercialista che si è messa a disposizione dell’associazione mafiosa, tenendo in piedi l’importante meccanismo di intestazioni fittizie necessarie per proteggersi da eventuali operazioni di polizia e confische. C’è il giornalista che ha dato voce alle ragioni della ‘ndrangheta emiliana, mettendola in contatto con il mondo imprenditoriale e politico reggiano. C’è l’imprenditore che ha “prestato” la sua azienda per riuscire a lavorare e guadagnare evitando i controlli. C’è l’amministratore che ha chiuso un occhio e ha permesso al gruppo criminale di evitare interdizioni ed esclusioni dagli appalti. C’è il politico che ha fatto pressioni per favorire le imprese legate alla ‘ndrangheta.
Sono alcune delle figure che fanno parte di una vasta zona grigia: quella che ha permesso alla ‘ndrangheta di lavorare, arricchirsi e radicarsi in Emilia-Romagna. La zona grigia è quella tra il nero dell’associazione mafiosa e il bianco della società civile. È in mezzo, le mette in contatto, sfumando i contorni e confondendo legalità e illegalità: «È una zona grigia, dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata, e alberga in sé quanto basta per confondere il nostro potere di giudicare».
La riflessione è di Primo Levi, che introdusse il concetto nel suo libro “I sommersi e i salvati”: scriveva dei campi di concentramento, tra i nazisti, gli ultimi e i sommersi che cercano di salvarsi, scendendo a compromessi con i carnefici. Un termine che poi è stato mutuato anche nell’ambito delle mafie, con un significato di fondo simile, ma soggetti ovviamente molto diversi. Non sono i sommersi e i salvati di Levi, ma sono gli uomini della criminalità organizzata e gli appartenenti alla società civile, che si incrociano. Un contatto non obbligato, con un mondo di cui non sono vittime – come accade ad esempio agli sfruttati sul lavoro, a coloro che ricevono minacce, a coloro che sono costretti – ma complici. Per espandere il proprio business, per salvare la propria azienda o, semplicemente, per guadagnare di più, attraverso una scelta consapevole.
L’interesse delle mafie rimane quello di esplorare nuovi mondi economici e finanziari del circuito legale in grado di portare guadagni e consolidare il controllo del territorio. Si è sviluppata così la “borghesia mafiosa”, come la chiamano i giudici della Corte d’Appello nelle motivazioni della sentenza di Aemilia, il maxiprocesso alla ‘ndrangheta emiliana.
La consulente del boss
«È venuto da me il capo di giù, di Cutro, il grande, il sanguinario. È venuto per dirmi di andare avanti in tutti gli affari che abbiamo in corso».
Con un marcato accento bolognese, Roberta Tattini parla così del boss Nicolino Grande Aracri, che le ha fatto visita nel suo studio di Piazza S. Stefano, una delle piazze centrali di Bologna. Sa bene chi è Grande Aracri: «È il numero due della Calabria, della ‘ndrangheta. È proprio uno ‘ndranghetista eh. È un imprenditore però, comanda tutta Reggio», dice ancora in una delle telefonate intercettate nel 2012 dai carabinieri nelle indagini che hanno poi portato, tre anni dopo, all’operazione Aemilia. Così come sa bene il senso di quegli “affari” che portano avanti insieme.
Tattini, infatti, è una consulente bancaria e finanziaria, con una carriera avviata nel capoluogo emiliano. Conosce bene i meccanismi economici: una competenza necessaria a una associazione mafiosa che tenta sempre più di infiltrare il tessuto economico e imprenditoriale dell’Emilia-Romagna. La consulente bolognese si mette a disposizione della ‘ndrangheta del “sanguinario”, come definisce lei stessa Grande Aracri. Il punto di contatto è Antonio Gualtieri, uno dei boss dell’associazione emiliana, poi condannato in via definitiva a 12 anni: era a lui che faceva riferimento, indicando nuovi obiettivi per l’associazione mafiosa in continua espansione, facendo conoscere agli ‘ndranghetisti altri operatori finanziari e partecipando ad alcuni incontri di raccordo per decidere come gestire il gruppo criminale, non solo in Emilia ma anche in Veneto e in Lombardia.
In sua difesa all’inizio del processo Aemilia in cui era imputata, aveva affermato di non sapere che le persone con cui aveva a che fare erano uomini della ‘ndrangheta. Tuttavia Tattini, si desume anche dalle intercettazioni agli atti dell’inchiesta, avrebbe fatto da intermediaria per il recupero di denaro proveniente da un delitto commesso all’estero insieme alla criminalità che opera tra la Liguria e la Costa Azzurra, organizzando e partecipando a incontri per concludere la trattativa.
Cerca società per conto di Grande Aracri da inserire in joint-venture in un progetto di investimento per l’energia eolica a Cutro, in Calabria. Porta avanti attività di recupero crediti e cerca di acquisire per conto della cosca beni mobili e immobili provenienti da fallimenti. E mette in atto lei stessa una attività estorsiva portata avanti, ritengono i giudici, con metodi mafiosi, attraverso violenze e minacce, per ottenere migliaia di euro da due imprenditori: lo scopo, certificano anche le sentenze, era quello di avere il controllo finanziario della loro società, obiettivo che raggiungerà, insieme a Gualtieri, proprio per aver esplicitato l’appartenenza alla ‘ndrangheta.
Insomma, come scrivevano i giudici della Corte d’Appello di Bologna che l’hanno condannata a 8 anni e 8 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa – condanna poi confermata in Cassazione -, ha offerto al clan un «pacifico, concreto, consapevole e volontario contributo, funzionale alla realizzazione del programma criminoso».
Il giornalista tra i due mondi
Nella primavera del 2012 a Reggio Emilia scoppia una polemica: in quell’anno Antonella De Miro, prefetta della città, adotta numerose interdittive antimafia che colpiscono aziende in odor di ‘ndrangheta. Un’azione che provoca grande sdegno all’interno dell’ambiente mafioso, ma non solo: parte una vera e propria campagna secondo cui alla base di queste misure c’è una sorta di razzismo che colpisce i cutresi solo per la loro provenienza geografica.
Una posizione amplificata anche da alcuni media, a partire, ritengono i giudici, dal giornalista Marco Gibertini, che nella sua trasmissione indipendente nella tv locale Telereggio dà spazio alle ragioni di personaggi vicini alle cosche.
Succede mesi dopo, nell’autunno, quando emerge anche un altro fatto: una cena del 21 marzo del 2012, in cui alcuni uomini della ‘ndrangheta avevano incontrato l’allora capogruppo del Popolo della Libertà nel Consiglio Comunale di Reggio Emilia Giuseppe Pagliani, accusato in Aemilia di aver contribuito a rafforzare il gruppo ‘ndranghetista emiliano – anche in relazione a quelle interdittive antimafia – in cambio della promessa di un aiuto alle successive elezioni. Da questa accusa Pagliani è stato assolto alla fine dello scorso anno.
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Gli investigatori ritengono però che Gibertini non sia solo un megafono per gli uomini delle cosche, ma lo valutano come un vero e proprio punto di contatto tra il mondo imprenditoriale-politico reggiano e quello mafioso.
Gibertini è stato condannato in via definitiva a 9 anni e 4 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa anche per aver pubblicizzato le possibilità di recupero crediti offerte dagli uomini delle ‘ndrine. Era lui, infatti, che indicava Nicolino Sarcone, boss condannato in Aemilia e per gli omicidi del ‘92, come un riferimento sicuro e di successo nel campo del recupero crediti e degli investimenti per imprenditori locali. Imprenditori che diventavano poi vittime di una vera e propria azione estorsiva.
C’è poi un ultimo aspetto: quello legato al giro di fatture false finalizzate alla frode fiscale e all’evasione. Reati che sono al centro di un altro processo, in cui lo stesso Gibertini è imputato: Octopus, che inizierà il prossimo 22 febbraio.
La politica e i “traditori dello Stato”
C’è ancora un mondo: quello politico. Un mondo che, come gli altri, si intreccia con quello mafioso e quello imprenditoriale. C’era Giuseppe Pagliani che incontra i boss in un ristorante, assolto in primo grado, condannato in secondo, rimandato dalla Cassazione in Appello e poi di nuovo assolto.
C’era Giovanni Paolo Bernini, ex assessore del Popolo delle Libertà di Parma, anche lui inizialmente accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e poi di voto di scambio politico-mafioso, poi definitivamente prosciolto con la dichiarazione di prescrizione del reato di corruzione elettorale “semplice”. E c’è Carlo Giovanardi, ex senatore anche lui del Pdl, coinvolto in uno degli ultimi filoni di Aemilia: quello che ha preso il nome di “Traditori dello Stato”.
Perché tra i personaggi coinvolti ci sono politici, funzionari della Prefettura di Modena e imprenditori accusati di aver intimidito i rappresentanti delle istituzioni che hanno emesso alcuni provvedimenti interdittivi sfavorevoli alle aziende legate alla ‘ndrangheta, e in particolare a una: la Bianchini Costruzioni, la stessa che ha lavorato nella ricostruzione post-terremoto, insieme agli uomini delle cosche.
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La società di Augusto Bianchini, titolare della società condannato a 9 anni di reclusione nel secondo grado del processo Aemilia, e quella del figlio Alessandro, anche lui condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, erano bloccate da provvedimenti prefettizi dalla metà del 2013 proprio per gli allora presunti rapporti dei due imprenditori con la criminalità organizzata.
A causa dei provvedimenti le loro società non potevano essere ammesse alle “white list” e vincere appalti, in particolare proprio quelli per la ricostruzione post-terremoto del 2012. Ecco quindi che, secondo la Dda di Bologna, sarebbe intervenuto il senatore Carlo Giovanardi per cercare di far inserire le aziende nella white list: parla con il prefetto e con il questore di Modena, chiede i motivi per cui le aziende legate ai Bianchini non possono essere ammesse. Secondo i pm avrebbe poi minacciato di procedere con una interrogazione parlamentare. Sempre stando agli investigatori sarebbero finiti nel mirino del senatore anche due ufficiali dei Carabinieri, pretendendo che cambiassero posizione rispetto agli imprenditori modenesi.
Così Giovanardi a novembre dello scorso anno è stato rinviato a giudizio. Il processo è iniziato il 17 dicembre e in quella stessa data i suoi avvocati hanno chiesto il proscioglimento immediato: Giovanardi, secondo i difensori, avrebbe svolto le azioni che il Tribunale gli contesta nel suo ruolo di parlamentare e avrebbe quindi diritto all’immunità. Secondo i giudici invece, le condotte non si possono inquadrare nella sua funzione di parlamentare: si tratta di minacce e deve essere processato. Una decisione che, però, spetta al Senato, che dovrebbe decidere entro novanta giorni.
Anche perché non si tratta di minacce “semplici”, ma di quelle che il codice penale definisce minacce a corpo politico, amministrativo e giudiziario, minacce e oltraggio a pubblico ufficiale per le presunte pressioni esercitate nel 2016 su funzionari della prefettura e del gruppo interforze di Modena e di rivelazione di segreti d’ufficio, come si legge tra i capi d’accusa.
L'immunità parlamentare
L’articolo 68 della Costituzione italiana prevede che
“i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni” e che
“senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza”.
Secondo la legge, se ad essere processato è un parlamentare, il Tribunale può procedere in due modi: prosciogliere l’imputato – come richiesto in questo caso dagli avvocati di Carlo Giovanardi – o mandare gli atti alla Camera di appartenenza affinché questa si esprima se l’attività che viene contestata era un’attività di tipo parlamentare o meno – come ha fatto il Tribunale di Modena.
La stessa autorizzazione serve, sempre secondo l’articolo 68 della Costituzione, per le intercettazioni. Nel caso di Giovanardi, la Giunta per le Autorizzazioni a procedere del Senato aveva autorizzato l’uso di una parte delle intercettazioni della Direzione Distrettuale Antimafia di Bologna solo il 10 luglio 2020, dopo quasi un anno dalla richiesta del Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Bologna.
Tra le dogane e i fondi europei
«Io ho mille amicizie da tutte le parti… bancari… oleifici… industriali, tutto quello che vuoi… quindi io so dove bussare, quindi se tu mi tieni esterno ti dà vantaggio, se tu mi immischi, dopo che mi hai immischiato e mi hai bruciato, è finita, perché la gente ti chiude le porte».
Parlava così l’ex funzionario dell’Agenzia nazionale delle Dogane Giuseppe Caruso, condannato in primo grado a vent’anni di carcere nel processo Grimilde, altro filone di Aemilia. La condanna è per associazione mafiosa: Caruso è considerato infatti uno degli uomini di vertice della cosca, in particolare come uomo di contatto tra diverse realtà: dal suo ruolo alle Dogane, secondo l’accusa ha facilitato la cosca aiutandola anche ad accedere a fondi europei in ambito agricolo. Eppure, dopo il suo lavoro all’Agenzia delle Dogane, ha assunto un ruolo di primo piano nella politica piacentina: è stato infatti presidente del consiglio comunale di Piacenza in quota Fratelli d’Italia. I reati per i quali è stato condannato non si intrecciano con il suo ultimo ruolo politico, ma mostrano come la “zona grigia” sia sempre più larga e sfumata.
Un aspetto che il processo Grimilde spiega non solo nel suo lato strettamente processuale – in cui emergono i reati di natura economica, sempre aggravati dal metodo mafioso, legati all’infiltrazione nel tessuto imprenditoriale della regione a partire da Brescello, il primo comune sciolto per mafia in Emilia-Romagna – ma anche nello stesso nome, che deriva dalla ‘Sindrome di Grimilde’: è la sindrome della strega di Biancaneve, quella della paura dello specchio e di ciò che si può vedere.
Legata alle mafie ha un significato che ha chiarito l’ex procuratore nazionale antimafia Franco Roberti nel suo libro “Il contrario della paura”: «Passata l’indignazione del momento passa anche l’attenzione e dunque la lotta. Questo è possibile proprio per via della “sindrome di Grimilde”. Allontanarsi dallo specchio è un modo per scansare il problema. E raccontarsi una bugia».
CREDITI
Autori
Sofia Nardacchione
Infografiche & Mappe
Lorenzo Bodrero
Editing
Luca Rinaldi