#NdranghetaEmiliana
CCentinaia di udienze, decine di processi, aule bunker montate e smontate tra Bologna e Reggio Emilia, migliaia di articoli di giornale, schede, ritratti, cronache, approfondimenti. Oltre sei anni dopo l’operazione Aemilia e gli arresti ai danni di una ’ndrangheta articolata tra Calabria ed Emilia-Romagna, il rischio, per gli emiliano-romagnoli, è di abituarsi alla presenza mafiosa: «Oggi c’è una assuefazione al tema che è normale, fisiologica, succede dappertutto, anche in Calabria. È però un errore: sbagliano ad avere questo abbassamento della guardia, sbagliano di grosso perché poi si troveranno nuovamente con grosse sorprese». A dirlo è Enzo Ciconte, storico delle organizzazioni mafiose italiane che già negli anni Novanta metteva in guardia l’Emilia-Romagna sulla forte infiltrazione della ‘ndrangheta in regione.
Un occhio particolare per Ciconte deve andare ai rapporti economici tra la ‘ndrangheta e il mondo economico: «Non si sono tagliati alla radice i rapporti tra questa organizzazione mafiosa e il modo di fare economia. Se non si tagliano questi rapporti – continua lo studioso – il gioco continua». Il “gioco” è quello di una ‘ndrangheta che fa affari, si infiltra e radica nell’economia legale dell’Emilia-Romagna: «Se le imprese e alcuni soggetti economici continuano ad avere rapporti con la mafia, perché la mafia riesce ad avere la possibilità di garantire condizioni che l’economia e la politica non possono fare, è chiaro – conclude Ciconte – che le cose andranno avanti».
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#NdranghetaEmiliana
La paura della ‘ndrangheta emiliana
Il clan che si è radicato in Emilia-Romagna, nei decenni si è evoluto e modernizzato, senza mai lasciare da parte il suo carico di violenza, tra omicidi, minacce, incendi, sfruttamento e intimidazioni, anche dopo l’operazione Aemilia
I professionisti al soldo della ‘ndrangheta emiliana
Imprenditori, consulenti, giornalisti, politici hanno aperto le porte ai clan calabresi, che hanno potuto radicarsi e guadagnare in Emilia-Romagna grazie a una vasta “zona grigia”
La colonizzazione economica della ‘ndrangheta in Emilia Romagna
Il reimpiego dei capitali illeciti nell’economia legale ha permesso alle cosche calabresi di penetrare e radicarsi nel tessuto imprenditoriale locale
Grazie a una vasta area grigia – sono decine i professionisti condannati o imputati nel processo Aemilia e nei suoi filoni – la ‘ndrangheta emiliana si è fatta prestatrice di servizi, per riuscire ad aumentare sempre più i propri introiti, tra appalti pubblici e privati, in particolare nel settore edilizio e del movimento terra, smaltimento di rifiuti, ristorazione e gestione delle cave. Un’evoluzione iniziata già negli anni Ottanta, dall’arrivo in regione del clan legato alla famiglia dei Dragone e poi dei Grande Aracri, che si è insediato in Emilia-Romagna con modalità completamente differenti da quelle utilizzate nel territorio di origine, Cutro.
«Nessuno può pensare – afferma Ciconte – che gli uomini della ‘ndrangheta siano arrivati con i kalashnikov o con le bombe a mano e abbiano conquistato militarmente il territorio: lo hanno conquistato attraverso una serie di rapporti». E infatti, dopo l’arrivo a Quattro Castella, nel reggiano, del boss cutrese Antonio Dragone, sono stati diversi gli episodi di violenza – tra gli omicidi del 1992 a Reggio Emilia, spari, intimidazioni, minacce e incendi – ma se la ‘ndrangheta si è radicata tanto quanto emerge dal processo Aemilia è grazie a una rete di rapporti stabiliti dall’organizzazione con una parte del tessuto sano della regione: «In questa realtà – spiega Ciconte – le mafie non sono mai caratterizzate da un alto tasso di violenza: hanno sempre avuto un atteggiamento molto prudente, perché giocavano fuori casa e giocando fuori casa devi fare una partita diversa».
Giocare sporco in settori puliti, guadagnare su business all’apparenza legali: è questa la partita della ‘ndrangheta. «La mafia – afferma lo storico – continua ad offrire servizi illegali: se c’è qualcuno che pensa di non applicare la legge sullo smaltimento dei rifiuti e pensa di guadagnare su questo, è chiaro che si rivolge a una organizzazione criminale. Questo è il problema. Tutto sta quindi nel capire e comprendere che, se si continua così, i mafiosi non vanno via, i mafiosi rimangono, anzi aumentano, diventano più forti. Se si continua a costruire e ad avere rapporti nei subappalti con ditte inquinate solo perché fanno pagare di meno, perché accorciano i tempi sfruttando i lavoratori, perché usano materiale scadente in modo tale che tu possa mantenere bassi i prezzi, è evidente che non si va da nessuna parte e questo si riproporrà: è il cane che si morde la coda. E questo è un problema anche della società emiliano-romagnola».
Giocare sporco in settori puliti, guadagnare su business all’apparenza legali: è questa la partita della ‘ndrangheta
Secondo Ciconte, gli anticorpi necessari per reagire alla presenza delle mafie in regione ci sono, gli stessi emersi con forza nel 2015 dopo l’operazione Aemilia. Le immagini che lo rappresentano sono quelle delle aule bunker costruite appositamente per poter celebrare un maxi-processo di mafia in Emilia-Romagna: la Regione ha stanziato 480 mila euro per allestire un’aula grande abbastanza per un processo da 239 imputati in un padiglione della Fiera di Bologna, dove si sono svolte le udienze preliminari iniziate nell’ottobre del 2015, e 500 mila euro per costruire nel cortile del Tribunale di Reggio Emilia l’aula che ha ospitato le udienze di primo grado di Aemilia. In pochi mesi la regione si è trovata così a far fronte a una mancanza infrastrutturale per un procedimento delle dimensioni di un vero e proprio maxiprocesso, con un nuovo assetto che ha permesso di avere un livello di sicurezza adeguato a un procedimento di mafia: metal detector, celle per una parte degli imputati, spazio per fare in modo che l’aula ospitasse non solo la Corte dei giudici, i periti, gli imputati e i loro avvocati, ma anche la società civile: rappresentanti delle istituzioni, cittadini e studenti portati dalle associazioni antimafia.

«Se le imprese e alcuni soggetti economici continuano ad avere rapporti con la mafia, perché la mafia riesce ad avere la possibilità di garantire condizioni che l’economia e la politica non possono fare, è chiaro che le cose andranno avanti».
«La popolazione – afferma Ciconte – non ha reagito male, dicendo: “Qui la mafia non esiste”. E le stesse istituzioni hanno reagito: il processo si è fatto a Reggio Emilia perché il comune di Reggio Emilia e la Regione Emilia-Romagna hanno stanziato fondi per costruire quella struttura. In altre situazioni avrebbero potuto dire: “Questo è un problema che riguarda il Ministero di Grazia e Giustizia, ci pensassero loro”. E nonostante ci fossero state spese pubbliche, nessuno dei cittadini ha protestato, anzi c’è stata una risposta: oggi ci sono tante realtà e associazioni che si occupano di mafie. Si è seminato e oggi vediamo i risultati in molte realtà emiliane».
Tuttavia la morsa mafiosa non si è fermata. Nel primo comune sciolto per mafia in Emilia-Romagna, Brescello, dopo il provvedimento che ha colpito il comune, come scritto nella relazione di scioglimento, per “scarsa attenzione” e “insensibilità” verso “la problematica della criminalità organizzata largamente diffusa nel contesto locale”, l’influenza della ‘ndrangheta è ancora forte. Nel comune della Bassa Reggiana hanno vissuto per decenni Francesco Grande Aracri, fratello del boss Nicolino, e la famiglia, poi coinvolti nel processo Aemilia e nel processo Grimilde, uno dei filoni del maxiprocesso emiliano al centro del quale c’è proprio Brescello e gli affari dello ‘ndranghetista. Una presenza che lascia segni profondi nel comune anche dopo lo scioglimento.
Intanto da marzo 2021 il boss della ‘ndrangheta emiliana Nicolino Grande Aracri, ininterrottamente a capo dell’associazione dal 2004 dopo una guerra di ‘ndrangheta combattuta tra Calabria ed Emilia-Romagna, ha deciso di collaborare con la giustizia. Una circostanza su cui però gli stessi pubblici ministeri che hanno raccolto le prima confidenze vanno piuttosto cauti: l’autenticità della collaborazione del boss sarebbe ancora da dimostrare, ma se qualcosa di vero e verificabile emergerà dalle deposizioni di Grande Aracri sarà un momento spartiacque: «È la prima volta – dice Ciconte – che parla o decide di parlare o dice di voler parlare un capomafia, un capo bastone».
Questo, prosegue Ciconte «non era mai successo nella ‘ndrangheta. Finora avevano parlato non i grandi personaggi di comando, come era successo invece in Sicilia, dove hanno parlato anche personaggi di livello che facevano parte della commissione provinciale di Cosa Nostra, della cosiddetta “cupola”. Nella ‘ndrangheta no, tranne Grande Aracri. Quindi se lui decide di parlare può essere realmente un cambio di passo, un cambio di paradigma».
Una conferma o una smentita sulla bontà delle dichiarazioni di Grande Aracri potrebbero arrivare già il 6 luglio prossimo quando il boss risponderà alle domande dei magistrati nell’ambito del processo Aemilia 1992. É la prima volta che Grande Aracri compare in tribunale dopo la notizia della sua collaborazione con la giustizia
Nel frattempo, procedimenti e condanne nei suoi confronti continuano ad arrivare: in pochi mesi Grande Aracri è stato condannato all’ergastolo nel processo calabrese Kyterion, nel processo Aemilia 1992 e, a maggio 2021, nel processo Scacco Matto, che ha fatto luce sugli omicidi avvenuti in Calabria tra il 1999 e il 2000. Sulla stessa scia di sangue, con l’omicidio nel 2004 del boss Antonio Dragone, Grande Aracri era arrivato al comando definitivo della ‘ndrina.