‘Ndrangheta in Argentina: cadono i broker di Buenos Aires
La ‘ndrangheta in Argentina c’è e può contare su contatti chiave tra imprenditori e istituzioni: gli arresti tra i colletti bianchi di Buenos Aires e i broker del narcotraffico

30 Luglio 2020 | di Cecilia Anesi, Ivan Ruiz*

Non avevano paura di essere catturati perché, pur colpiti da ordinanza di custodia cautelare spiccata in Italia da novembre scorso, contavano sulla solitamente scarsa cooperazione internazionale tra forze di polizia e magistratura, e col passare dei mesi erano ormai certi che le autorità argentine mai li avrebbe.

Così i tre uomini che il 21 luglio sono stati catturati a Buenos Aires su richiesta della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, continuavano la loro vita da uomini d’affari certi che nulla avrebbe potuto scalfirli. E invece si sbagliavano: collaborare ad affari di ‘ndrangheta in Argentina e Uruguay alla fine ha presentato il conto.

Nelle maglie della giustizia sono finiti l’argentino Fabio Pompetti, avvocato di grido di origini italiane, e i due italiani Ferdinando Saragò e Giovanni Di Pietro, noto a Buenos Aires come Massimo Pertini. Arrivato in Argentina trent’anni fa da latitante dopo aver partecipato a un sequestro di persona in Sicilia, viveva con un’altra identità.

Dall’inverno scorso avevano continuato la loro vita come se nulla fosse, tra i quartieri più esclusivi di Buenos Aires: Pompetti aveva addirittura pubblicato su Instagram un video musicale il 17 luglio, l’ultimo di una lunga sfilza. Infatti, oltre alla carriera da avvocato e imprenditore agroalimentare, Pompetti canta anche in una jazz band e possiede un’importante bar della movida porteña. Le indagini della polizia argentina sono state tutt’altro che semplici. «Quasi non parlavano al telefono tra loro e quando lo facevano, parlavano in codice» ha spiegato una fonte della Gendarmeria a La Nacion, partner di IrpiMedia, «Pompetti era l’unico che non manteneva un profilo basso. Un personaggio eccentrico che curava vari affari in contemporanea, ma fino ad oggi nessuno in Argentina era riuscito a connetterlo al narcotraffico».

Il risultato l’hanno ottenuto le indagini coordinate dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gaetano Paci, rivelando la connessione dei tre argentini al narcotraffico internazionale. Nel risalire la china del traffico di cocaina della cosca Bellocco di Rosarno – che assieme alla cosca dei Pesce controlla il porto di Gioia Tauro – gli inquirenti avevano notato più di un canale di approvvigionamento a loro disposizione proprio grazie ai tre contatti argentini agganciati da un imprenditore rosarnese sui generis: Carmelo Aglioti. Un po’ narcotrafficante, un po’ esperto di import-export, Aglioti dalle carte emerge come un factotum di alto livello per conto della cosca Bellocco che in più di 40 anni di spola con l’Argentina si era prestato a vari interessi della criminalità organizzata calabrese.

L’avvocato Fabio Pompetti e Carmelo Aglioti (di spalle) fotografati nel corso dell’indagine

Aglioti racconta a Di Pietro, non sospettando di essere intercettato, dei molti viaggi in America Latina e di come diverse cosche lo tirino in ballo tanto per il traffico di droga quanto per il reinvestimento di capitali. Il faccendiere viene anche approcciato dalla potente cosca Morabito alias “Tiradrittu” di Africo, nella Locride, che da lui vuole un aiuto per liberare il più grande narcotrafficante italiano del Mercosur, Rocco Morabito alias “U Tamunga”.

Missione: liberare “U Tamunga”

Arrestato il 4 settembre 2017 a Punta del Este in Uruguay e portato in un carcere di Montevideo, Morabito aveva vissuto da latitante nel paese per oltre vent’anni, da quando era sfuggito alla cattura nel corso dell’operazione “Fortaleza” della direzione distrettuale antimafia di Milano nel 1994. Da un anno Morabito è latitante e gli investigatori ritengono possa trovarsi lungo la Triple Frontera tra Brasile, Argentina e Paraguay.

La caduta di Rocco Morabito è un serio problema per tutta la ‘ndrangheta e i partner sudamericani. Così, un mese e mezzo dopo l’arresto nel settembre del 2017 la famiglia Morabito chiede un incontro ad Aglioti sapendo della sua conoscenza dell’Argentina. L’incontro, a loro insaputa, è monitorato dalla Guardia di finanza. «Ora, il cugino vostro (modo per chiamare U Tamunga, ndr), per riciclaggio è?», si informa Aglioti per capire di che reati è accusato il narcos. «Quindi, il motivo per cui bisogna fare tutte questa operazione… pi mi staci docu (per stare in quel luogo, ovvero in Uruguay, ndr)… quindi non estradato qui in Italia, giusto? Di farlo rimanere là! Perché i reati contestati là (Uruguay, ndr) non sono gli stessi di qua, giusto?». Antonio Morabito, fratello di U Tamunga, asserisce e spiega che sì, questo è ciò che vorrebbero fare perché in Uruguay è imputato solo per il possesso di documenti falsi. E che prima dell’estradizione bisognerebbe riuscire a farlo scarcerare.

L’idea è quella di aprire un’azienda affinché Morabito possa dimostrare di avere una vera attività commerciale in Uruguay, strategia usata da molti criminali sia per ottenere una misura alternativa alla detenzione (lavori sociali) sia per evitare l’estradizione verso l’Italia. «Con una documentazione che dice che questo qua, in Italia non vuole venire perché si vuole stabilire in Sud America e crearsi un’attività commerciale […] questa è già una scappatoia!», spiega il fratello.

Il boss Rocco Morabito alias “U Tamunga”

Serve che Aglioti trovi in Argentina dei contatti in grado di fare uscire U Tamunga dalla galera, o almeno impedirne l’estradizione, piano per cui la famiglia ha già pronte 50mila euro da investire in territorio uruguagio per oliare i meccanismi. Ma c’è un problema e Antonio Morabito lo sa: bisogna trovare qualcuno in Argentina disposto ad anticipare in loco la somma di denaro così da eludere i controlli sul trasferimento internazionale di valuta. Aglioti cerca soluzioni a voce alta, ad esempio giustificare un trasferimento di fondi grazie al business dell’esportazione di pasta di cui già si occupa. «Ci vuole sempre una cazzo di storia! Una spiegazione, ci vuole!», gli fa eco Morabito. «Sempre», risponde Aglioti. «Se ti fermano, almeno sai cosa dire». Il faccendiere tira in ballo l’italo-argentino Ferdinando Saragò (uno dei tre arrestati del 21 luglio) che forse potrebbe aiutarli. Saragò commercia piastrelle e alcune volte all’anno va in Calabria, nel vibonese, ad acquistarne e potrebbe essere la scusa perfetta.

Saragò, assieme a Pompetti e Di Pietro, sono per i magistrati il gruppo di referenti in Argentina per Aglioti e gli interessi della ‘ndrangheta da lui rappresentati. Infatti, Aglioti ai Morabito parla di Pompetti e Di Pietro come di avvocati in grado di occuparsi della liberazione di Rocco Morabito poichè avrebbero già curato casi simili in passato per la cosca Mancuso di Limbadi. Va bene tutto per Morabito, basta che si faccia in fretta. Così, Aglioti scrive subito a Pompetti. «Tutto ok per le tue persone in Uruguay. Mi devo muovere con molta cautela. Ti prometto buona riuscita su tutto», risponde il legale.

Le indagini non hanno appurato se questo specifico piano per liberare U Tamunga abbia avuto successo, ciò che è certo è che il narcos è riuscito a evadere due anni dopo dal carcere, il 24 giugno 2019 e che tutt’ora resta latitante tra Brasile, Argentina e Paraguay.

I broker argentini e i ristoranti della ‘ndrangheta

Gli affari di Aglioti con “gli argentini” Pompetti, Saragò e Di Pietro non si sarebbero limitati a questioni di carcerati. Ciò che emerge dall’operazione “Magma” sono piuttosto accordi di narcotraffico per esportare centinaia di chili di cocaina dall’America Meridionale all’Europa. Infatti, l’insospettabile Pompetti era – stando all’accusa – quello con i ganci con i fornitori sia in Argentina (nella zona di Tucuman) sia in Uruguay, dove si relazionava con il narcos “Rubens”. «Purtroppo non siamo riusciti a identificarlo – spiega a IrpiMedia il pm di Reggio Calabria Calogero Gaetano Paci – ma ad un certo punto abbiamo saputo che si trovava addirittura in Olanda».

Ma non va sempre tutto liscio. Aglioti infatti ad aprile 2017 torna in Argentina perchè ha affidato a Pompetti e soci 20mila euro del clan Bellocco per un primo carico di prova organizzato da Rubens il quale però, stando alle giustificazioni di Pompetti, avrebbe preso i soldi e non avrebbe spedito la cocaina. Aglioti è su tutte le furie, quando lo aveva incontrato mesi prima Rubens gli era sembrato un fornitore serio. Per parlare di affari, lo aveva portato ad un ristorante speciale: il “San Luca” a Puerto Madero, gestito da un’altra cosca di ‘ndrangheta, i Pelle di, appunto, San Luca.

Il ristorante San Luca a Puerto Madero fotografato nel corso dell’indagine dalla Gendarmeria argentina e dalla Guardia di finanza

Puerto Madero è un quartiere ricco di Buenos Aires, dove i ristoranti si affacciano su un canale del Río de la Plata, insenatura dell’oceano. È stato Giuseppe Pelle ad aprire quel ristorante nel 2016, da latitante. Figlio del boss di San Luca Antonio Pelle alias “Gambazza”, Giuseppe Pelle è lui stesso un boss condannato per mafia, arrestato in Calabria nel 2018. Tra calabresi in Argentina è evidente che i panni si lavino in casa e che, pur essendo in missione per un clan diverso, Aglioti preferisca fissare gli incontri in zona franca. Ovvero nel ristorante dei sanlucoti, lontano da occhi e orecchie indiscrete. Una precauzione che però non lo salverà dall’imprevisto di un fornitore che non mantiene le promesse. E infatti Rubens scompare, ma Aglioti, perentorio, ordina a Pompetti di recuperare il maltolto costringendo l’azienda di import-export di frutta collusa nel traffico, la Alameda Fruit, a restituire i soldi. Peccato che la banca americana dove ha il conto la Alameda fermi la transazione per la normativa antiriciclaggio: richiede di potere vedere la fattura.

Aglioti però non ha né un’azienda a suo nome, né una partita iva e tocca a Pompetti metterci una pezza: creare dei documenti ad hoc per rendere credibile l’operazione. Ma la documentazione non passa il vaglio antiriciclaggio. Il 27 luglio 2017 su WhatsApp Pompetti si giustifica dicendo che i «soldi non erano bancarizzati e dunque [..] abbiamo dovuto fare un giro bestiale di carte per bancarizzarli [..]. I soldi in nero è difficile farli diventare bianchi e abbastanza ovvio [..]. Risolveremo a breve ma bisogna fare le cose per bene. Azienda che ha fatto (ovvero l’azienda di frutta usata come copertura, ndr) anche deve dare spiegazioni alla sua banca». Insomma, è difficile che un acconto cash per un carico di cocaina possa essere restituito con un bonifico bancario senza destare sospetti. Aglioti secco risponde che l’argentino se la deve risolvere da solo perché «i tuoi problemi non sono affari loro, tu hai quello che gli appartiene», ovvero i soldi della ‘ndrangheta. Non esattamente una comoda situazione di debito.

Il socio romano e la polizia corrotta

Pompetti, nonostante il debito con i Bellocco, non si fa spaventare dalle minacce di Aglioti. A rassicurarlo è la presenza nell’affare del socio romano, Di Pietro, che, si legge agli atti dell’inchiesta, «costituiva il front office tra le cosche italiane e i fornitori sudamericani di droga» potendo contare su una rodata carriera criminale iniziata nel ‘78 in Sicilia con il rapimento e l’omicidio di Franz Trovato, figlio di un industriale di Acireale. Dopo il fatto di sangue, Di Pietro scappò in Argentina dove la notifica della condanna in contumacia non arrivò mai. E con una fetta della polizia argentina, quella corrotta, Di Pietro coltiva buoni rapporti: al punto da apprendere dell’esistenza di un’indagine giudiziaria su di lui e Aglioti.

Aglioti raggiunge l’abitazione di Di Pietro – Foto: Gdf/Gendarmeria argentina

Un’informazione assolutamente riservata, che Pompetti vedrà confermata da altre sue fonti: sono indagati tutti. Aglioti è incredulo, e pensa di essere finito in qualche accertamento argentino per via dei suoi contatti con Pompetti, Saragò e Di Pietro. Nemmeno per un istante gli balena per la testa il fatto che potrebbe essere il narcotraffico dei Bellocco la ragione dell’attenzione da parte degli inquirenti. Insiste dicendo che si è informato e che è libero di entrare in Argentina. Pompetti perde la pazienza: «Se vi è un’inchiesta in corso non è pubblica. Lui qui è indiziato e così anche tu ed altri. Questo lo so mica dai tribunali. Sottovalutate molto la situazione creatasi […] vi ripeto tutti siete nel mirino. Se non lo volete capire è discorso vostro. Vi stanno seguendo da tempo».

Hanno preso il colombiano

Gli argentini sono preoccupati per l’indagine in corso. Ma i calabresi non sentono ragioni, bisogna proseguire con gli affari: l’organizzazione dei carichi di cocaina e recuperare i 20mila euro dati al narcos Rubens. Pompetti riesce a convincere Aglioti che il rientro dei soldi via trasferimento bancario è rischioso, che i soldi «sono caldi», e allora escogitano un’alternativa: rinunciare alla restituzione dei soldi in cambio di una garanzia sulla consegna di un nuovo carico di cocaina, chiedendo un incontro di persona a Rubens. È il settembre 2017 e Pompetti raccomanda di prestare attenzione per «l’epoca molto complessa» a causa della cattura di Rocco Morabito “U Tamunga”.

Non solo, c’è un’altro fatto di cronaca che preoccupa sia Pompetti che Rubens che è «in giro» (si è reso irreperibile, ndr): il 3 ottobre 2017 l’avvocato argentino manda ad Aglioti una foto, è uno screenshot della notizia della cattura di un narcotrafficante colombiano, con il sottotitolo: «L’idea era quella di inviare il denaro in Argentina per ripulirlo». Si tratta del narco-imprenditore José Bayron Piedrahíta Ceballos, arrestato in Colombia, e che ha successivamente confessato il riciclaggio di ampie somme in Argentina. Le indagini italiane non hanno potuto appurare se l’arresto preoccupasse Pompetti perchè avvisaglia di un clima poco tollerante, o perché c’era un qualche tipo di collegamento tra Piedrahíta e il gruppo di colletti bianchi di cui parla questa storia.

In ogni caso, le acque sembrano tornare più calme a fine ottobre 2017, quando Aglioti confida ad un’amica che sarebbero andati a incontrare Rubens a Punta del Este, affacciata sull’Oceano Atlantico e situata nel sud dell’Uruguay a circa 200 km dal confine con l’Argentina, proprio dove viveva U Tamunga. Questa circostanza – assieme al fatto che Rubens va «in giro» (ovvero si nasconde) appena viene arrestato Piedrahíta – fa pensare ad una continuità con lo stesso giro di narcotrafficanti.

Coca e limoni

Stando a quanto scoperto dagli inquirenti, Pompetti e Aglioti hanno anche un secondo canale di approvvigionamento di cocaina con fornitori ubicati nel nord-ovest dell’Argentina, a Tucuman, nota per la produzione di limoni. E sono proprio questi agrumi che Aglioti vuole usare come copertura. L’idea è organizzare un import-export legale verso un’azienda di frutta di Rosarno (vicino al porto di Gioia Tauro) che fornisce la grande distribuzione e il cui proprietario è imparentato con i Bellocco, il clan di riferimento di Aglioti per il narcotraffico.

«Questo è un discorso legale che mi interessa tantissimo, perché la mia intenzione è quella di prendere da questo e investire qualche cosa qua! (narcotraffico, secondo la Gdf, ndr)», spiega Aglioti a Di Pietro. Limoni ma anche e soprattutto pasta. Pasta artigianale calabrese che Aglioti vende in Argentina a vari compratori, compresi i Pelle del ristorante San Luca di Puerto Madero, a suo dire.

Le rotte utilizzate da Aglioti

Una copertura perfetta quella del commerciante internazionale di prodotti di qualità quella che Aglioti si è costruito, ma non sufficiente a fermare le indagini della Direzione distrettuale antimafia partite da un carico di 384 chili gettato in mare dalla nave cargo Hamburg Sud al largo di Gioia Tauro. Una volta identificato il peschereccio che doveva raccoglierle, gli inquirenti avevano risalito la china arrivando fino ad Aglioti e – ovviamente – all’affare narcotraffico dei Bellocco con l’appoggio dei colletti bianchi in Argentina. Aglioti a Buenos Aires se ne vanta con Di Pietro: i Bellocco controllano il porto di Gioia Tauro ma anche lo scalo francese di Le Havre. E aggiunge una grande novità sullo scalo calabrese: i borsoni con i panetti di cocaina vengono buttati in mare da membri compiacenti dell’equipaggio e poi i Bellocco mandano pescherecci o sommozzatori a recuperarli in mare
La tattica della cocaina in mare

«Quando viene buttata in acqua la trainano, con un gancio la trainano … sulla barca non vedi nulla! C’è un gancio sotto e la trainano … in acque sicure, si fa così! […] sulla barca non vedi nulla! C’è un gancio sotto e la trainano … in acque sicure.» Ovviamente, è imprescindibile, come ricordato da Aglioti, l’utilizzo di un sistema GPS al fine di segnalare la posizione precisa dello stupefacente “[…] Sì … è chiaro che lo devi sapere dove la butti, no!? Tu devi dire «l’ho buttata a largo di …» … quindi, le coordinate gliele devi dare! Quello con la barca è collegato con il GPS, quindi…». Il suo interlocutore, il naturalizzato argentino Di Pietro incalza: vuole sapere se arriva a Gioia Tauro. Aglioti spiega che in realtà il “lancio” avviene ad almeno 6 miglia di distanza, verso le Isole Eolie, e che quando i pescherecci arrivano in zona spengono il transponder che segnala la loro posizione così da non essere intercettate dalla Finanza. Aglioti mostra al compare una lista delle rotte seguite dai mercantili e dei punti che maggiormente si prestano al recupero dell’illecito carico. É chiaro che questo sistema si basa anche sulla compiacenza di alcuni membri dell’equipaggio della nave porta container che parte dall’America Latina.

Cocaina recuperata dagli investigatori al largo di Gioia Tauro – Foto: Gdf/Gendarmeria argentina

«Il narcotraffico lega i clan di ‘ndrangheta con settori imprenditoriali internazionali e con soggetti del mondo delle professioni e delle istituzioni»

Gaetano Paci, pm Reggio Calabria

L’epilogo di Magma e gli arresti in Argentina

Il 18 novembre 2019 il gip di Reggio Calabria Antonino Foti firma un’ordinanza di custodia cautelare per 49 persone, oltre a membri della cosca Bellocco tra gli arrestati ci sono anche Carmelo Aglioti e il suo “capo” Francesco Morano. Ma tra i destinatari della misura ci sono anche i tre “argentini”: Di Pietro, Pompetti e Saragò. Da allora i tre sono comunque rimasti liberi in Argentina, perché l’Interpol doveva localizzare altri latitanti in Costa Rica e Argentina prima di chiudere definitivamente il cerchio dell’operazione “Magma”. Passati i mesi, arrivata la pandemia, i tre argentini credevano di essere ormai “dimenticati”. Ma si sbagliavano, nonostante i loro contatti con funzionari di polizia corrotti, non erano riusciti a scoprire in tempo che l’Interpol e la Gendarmeria argentina non li aveva persi di vista e aspettavano il momento migliore per agire. Il 21 luglio l’Argentina si è così trovata ad aprire gli occhi sull’infiltrazione della potente mafia imprenditrice internazionale, la ‘ndrangheta, che ha fatto del Paese una solida base da cui dirigere le operazioni nel cosiddetto Narcosur. È da qua che, seduti al tavolino di un bar alla moda, i broker della ‘ndrangheta decidevano i movimenti lungo la terza rotta più importante della cocaina verso l’Europa, quella che si snoda lungo la Triple Frontera e che unisce in un unico accordo Buenos Aires, Montevideo e San Paolo.

«Questa indagine – dice il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Gaetano Paci, a IrpiMedia – condotta in collaborazione internazionale con il protocollo I-CAN (Interpol Cooperation Against ‘Ndrangheta), dimostra ancora una volta che il narcotraffico lega i clan di ‘ndrangheta con settori imprenditoriali internazionali e con soggetti del mondo delle professioni e delle istituzioni che hanno accesso a canali di informazioni non ufficiali e che sono un’efficace fonte di riciclaggio, straordinario a livello planetario». “Magma” è la prima indagine che mette nero su bianco la radicata presenza della ‘ndrangheta in Argentina. Per Paci la presenza delle cosche nel Mercosur è fisiologica: «Per la ‘ndrangheta è fondamentale avere un profondo livello di collegamento con i paesi produttori e esportatori ma anche di transito della cocaina e in tal senso l’Argentina – conclude Paci – è strategica sia per la posizione sia perché è terra di italiani e quindi vi è una presenza diffusa delle nostre mafie».

In partnership con: *La Nacion | Ha collaborato: Gabriel Di Nicola | Foto: Panorama di Buenos Aires – Javarman/Shutterstock

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