Nelle viscere dell’Aspromonte
Cronache dal fronte caldo del contrasto alla ‘ndrangheta: nella Locride tra crepe e sogni di una terra bellissima e desolata

26 marzo 2020 | di Cecilia Anesi, Lorenzo Bodrero

San Luca – Le nubi orizzontali che si alzano dalla fiumara prendono forma come delle mani, che si dipanano verso il cielo ancora plumbeo. Alzano le dita, affusolate, e accolgono il brillio dei primi timidi raggi di sole. All’orizzonte, dal mare, in una fredda mattina di gennaio si alza il disco giallo. Di fronte, l’Aspromonte con le sue ombre possenti, i boschi, le rocce. È una gola stretta la fiumara che taglia la montagna con le sue curve e i suoi sbalzi. A vederla così sembra un filo argentato. Invece, è una discesa di massi portati dal clamore delle acque invernali.

Non si distingue subito cosa sia quella nebbia, è fumo di un incendio o l’oscurità della notte che se ne va, sotto forma di vapore acqueo? Ma poi arriva il sole, già caldo perché africano, e asciuga i dubbi, fa brillare i mattoni delle case e per un attimo le fa sembrare bellissime. L’alba a San Luca toglie il fiato.

A sfocare un momento lo sguardo, questo potrebbe sembrare il posto più bello del mondo. Poi quando il sole si alza abbracciando la valle e la collina su cui è abbarbicato il paesello, questo mostra la sua vera forma. La punta più alta, quella del centro storico, è un ammasso di rovine e sotto c’è l’insediamento urbano moderno. I mattoni non sono piccoli e antichi come quelli dei paesi medievali: sono dei forati, a cui ci si è dimenticati di dare l’intonaco. A vista, oltre ai tondini sui tetti, sono lasciati i tramezzi e le armature di cemento.

Non fosse per le antenne delle TV, verrebbe da pensare che qui la tecnologia non sia mai arrivata. Se non fosse per le auto di lusso con targa tedesca, parcheggiate ovunque accanto alle case sbucciate, ci si aspetterebbe ancora di vedere i carretti.

Uno scorcio di Platì – Foto: IrpiMedia

A San Luca, un comune che per anni è rimasto senza sindaco, l’unico avamposto dello Stato è la stazione dei carabinieri. Qui non c’è una biblioteca, non c’è un teatro, un cinema, un circolo culturale, un luogo per concerti. Qui chi è mandato a servire lo Stato, deve esserci per gli altri anche quando quasi tutti ti vedono come un nemico. Anche quando non puoi offrire vere soluzioni ai problemi profondi che affliggono queste terre.
«Qua dobbiamo dimostrare che c’è un’alternativa, che si può vivere in modo diverso, che non si deve per forza diventare mafiosi solo perché si nasce in una famiglia di ‘ndrangheta»
Michele Fiorentino, maresciallo capo Carabinieri di San Luca

Lo sa bene il comandante della stazione dei Carabinieri, il maresciallo capo Michele Fiorentino, che da alcuni anni guida un piccolo drappello di uomini, tutti giovanissimi, tutti del Sud.

Quaggiù non ci vuole venire nessuno, ci vieni mandato, ti fai i tuoi anni e poi cerchi di farti trasferire più vicino a casa. Ma per Fiorentino guidare questa caserma è diventata una sfida che va oltre il semplice lavoro.

«Qua dobbiamo dimostrare che c’è un’alternativa, che si può vivere in modo diverso, che non si deve per forza diventare mafiosi solo perché si nasce in una famiglia di ‘ndrangheta. I giovani iniziano a rendersene conto, e le rigide regole della ‘ndrangheta iniziano a stargli strette. Prima di tutto si rendono conto che il carcere è duro e che anche la latitanza è difficile. I loro padri, i loro nonni, sono stati mesi tra i boschi, ma per un giovane d’oggi abituato alle comodità quella vita non è facile».

La ‘ndrangheta, che non è stata indebolita nemmeno dagli arresti, soffre l’avanzare della modernità insomma. E Fiorentino ha anche buone notizie. «Alcuni cittadini adesso entrano in caserma per fare denunce, chessò di smarrimento di qualche oggetto, di furto, di truffa. Prima non succedeva, in caserma non si metteva mai piede».

Il suo lavoro dimostra che non si può vincere la mafia solo con la forza e la repressione. È giusto arrestare i latitanti e indagare le strutture delle famiglie mafiose, le cosiddette ‘ndrine. Al contempo però si deve far vedere, concretamente, che vale la pena rinnegare la ‘ndrangheta. Perché qui come in qualsiasi altro luogo, la mafia si può sconfiggere solo con una rivoluzione culturale.

La mafia è, sì, «una montagna di merda». Ma per sconfiggerla non serve l’esplosivo (schizzerebbe solo ovunque), serve la pala. Serve sporcarsi le mani, e spostarla piano piano, farla seccare, crepare e all’intero di quei varchi insinuare nuovi concetti, la bellezza e non l’orrore.

Platì- Quarantotto ore più tardi arriviamo a Platì. È l’una di una gelida notte di gennaio e usciamo a piedi dalla stazione dei carabinieri.

Ci incamminiamo verso il cuore del paesino, verso due case sequestrate alla ‘ndrangheta. Vogliamo visitare i bunker dentro i quali i latitanti della famiglia Marando si nascondevano e quei tunnel che dozzine di volte hanno percorso sui gomiti per sfuggire all’arresto. Le nostre sagome ci anticipano per molti metri, illuminati come siamo dai fari della pattuglia che ci segue a passo d’uomo.

È l’unica luce a squarciare il buio della notte. «Avete problemi con l’illuminazione pubblica?», chiediamo al comandante dopo pochi metri. Si volta e sorride con amarezza mentre ci spiega che qui, non appena una pattuglia lascia la stazione di notte, le ‘ndrine staccano la corrente. Un segnale, un bastone tra le ruote della giustizia per ricordare a tutti chi comanda in paese.

Qui i ladri si fanno guardie in un territorio che è il cuore della ‘ndrangheta.

È, questo, un paese sottosopra. Non solo per i ruoli ribaltati e per l’arretratezza del luogo ma anche perché composto letteralmente da due metà: una sotto e una sopra la superficie.

Il “sotto” è la parte sotterranea, a due metri da quella che ha dato i natali alle famiglie più feroci della ‘ndrangheta. I Marando, i Trimboli, i Barbaro, gli Agresta, i Sergi, si sono elevati al vertice dell’organizzazione criminale più potente al mondo grazie al fiuto per gli affari, a lotte sanguinarie con clan rivali e a lungimiranti alleanze con altre famiglie.

Il bunker in cui ci addentriamo si apre da un foro nel pavimento. Prima di calarci dentro aspettiamo che un carabiniere ci apra la strada. Dall’esterno, arriva un vociare. Un ragazzo incalza i militari rimasti fuori che ci faranno da guardaspalle tutta la notte. Vuole sapere cosa succede, ci sono i giornalisti? I tre militari lo scrutano, sorpresi ma neanche troppo. Sono dello Squadrone Eliportato “Cacciatori Calabria”, un corpo d’elite dei carabinieri, altamente addestrati per dare la caccia ai latitanti. Il ragazzo sembra invece rivolgersi a un coetaneo. È irrequieto e spazientito, e non lo nasconde. «Lo sapete, no, che finché stanno qua io non me ne posso andare».

Il suo mestiere è tenere d’occhio i “ficcanaso”. È grazie a ragazzi come lui che i latitanti hanno tempo a sufficienza per nascondersi ed eludere i blitz. Ed è uno dei pochissimi lavori disponibili in paese.

Passiamo la notte tra tunnel, doppifondi, camere di compensazione, blocchi di cemento che scorrono su binari, cunicoli, fango e polvere. Quando emergiamo dalle fogne, l’impressione di essere osservati è netta. Da qualche parte la giovane vedetta è ancora lì.

Il “sopra” di Platì lo vediamo meglio due giorni dopo. Questa volta arriviamo alle prime luci dell’alba e a percorrerne le vie di giorno appare ancora più vuota e desolata della sua controparte sotterranea. È impossibile non accorgersi di una macchia rossa in lontananza.

È un pickup fermo e puntato verso di noi. Poi si muove, sorpassa la pattuglia dei carabinieri e prima di raggiungerci rallenta. I nostri sguardi incrociano quelli degli occupanti il veicolo. Hanno cura farsi vedere, un avvertimento, come a dire: «Siamo qua». Sono le vedette di oggi, poco più anziane del “collega” di due notti prima.

Controllano il territorio, e dal loro punto di vista lo proteggono. Dal loro punto di vista, gli invasori siamo noi. I giornalisti, che li sbattono in prima pagina quando c’è un arresto salvo dimenticarsi immediatamente dopo dei problemi che affliggono queste terre. E, certamente, gli invasori sono anche i carabinieri.

Due fazioni, ‘ndrangheta e forze dell’ordine, con uno stesso obiettivo: la Locride, questa terra che la ‘ndrangheta vorrebbe tutta per sé, incardinata sulle proprie logiche di potere e di “governo”. Povera in superficie, ricchissima sotto, grazie ai soldi del narcotraffico.

«Buona parte del nostro tempo la passiamo a fare un lavoro che per una stazione di carabinieri del resto d’Italia è impensabile, stanare latitanti, trovare piantagioni di marijuana nel cuore dell’Aspromonte, indagare i più grandi narcotrafficanti al mondo», ci dice il Comandante Michele Fiorentino. «Ma speriamo che le cose inizino a cambiare, forse anche grazie alle donne. Perché qui ci sono ancora matrimoni decisi in modo strategico, matrimoni feudali usati per stringere alleanze tra famiglie. E questo ai giovani, soprattutto alle giovani donne, inizia a stare stretto».

I tempi rispetto a quando Maria Stefanelli viveva segregata in casa a Platì, forse iniziano a cambiare. A volte, quando la corda tira troppo e si spezza, le donne decidono di varcare la soglia del buio e camminare verso una nuova vita. In questa terra è ancora rarissimo, ma altrove, dove la ’ndrangheta soffre di più la modernizzazione della società, le donne stanno facendo la rivoluzione culturale.

E forse con il tempo saranno proprio loro, con dedizione e amore, a ricucire le ferite di queste bellissime terre.

Foto: IrpiMedia

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