#SuisseSecrets

Provate a prenderli, quei conti in Credit Suisse
Antonio Velardo è un “venture capitalist” del settore immobiliare cresciuto sotto l’ala di un ex-terrorista IRA. Hanno venduto centinaia di appartamenti del Gioiello del Mare in Calabria, oggi confiscato. Suisse Secrets ha scoperto i suoi sei conti correnti in Credit Suisse, là dove l’antimafia era stata fermata al confine
21 Febbraio 2022

Cecilia Anesi
Ben Wieder (Miami Herald)
OCCRP

«Si sono venduti questi merdosi… la Svizzera diventerà un Paese di merda», sbotta Antonio Velardo. L’imprenditore campano è agitato, fa una serie di telefonate, vuole scoprire se è vero che la Svizzera cambierà le regole sul segreto bancario che fino a quel momento erano state serratissime. Avere soldi lì, era come tenerli in scrigni invisibili chiusi a chiave.

Era il 14 marzo 2009, e il giorno prima la Svizzera aveva annunciato l’adesione ai protocolli Ocse. Da quel momento le autorità straniere avrebbero potuto chiedere accertamenti sui titolari di conti, se sospettati di evasione fiscale. Così, almeno, gli aveva annunciato il suo socio dell’epoca, Henry “Harry” Fitzsimons, un ex-terrorista dell’IRA (Irish Republican Army).

«Senti, mi servono tutte le informazioni sulla Svizzera. Hanno lanciato qualcosa sulla Svizzera, mi fai un dossier», chiedeva Velardo a un suo collaboratore.

«Non mi piace proprio questo fatto. Non mi sembra una cosa giusta. Merda…» si sfoga mentre di sottofondo si sente il rombo di una Ferrari. «La senti la bestia?», si vanta con il compare.

Velardo non è un uomo noto, piuttosto è uno dei tanti, uno dei 700 italiani domiciliati all’estero che compaiono nel leak di Suisse Secrets e che risultano avere tanti, tantissimi soldi. Ed è proprio questo anonimato, questa invisibilità, che Velardo voleva mantenere rivolgendosi alle banche svizzere.

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L'inchiesta in breve
  • Tra il 2007 e il 2008 due procure antimafia calabresi, quella di Reggio Calabria e quella di Catanzaro, iniziano a indagare il potenziale riciclaggio di capitali mafiosi di due clan di ‘ndrangheta, i Morabito di Africo e i Mancuso di Limbadi
  • Durante le indagini, emerge la figura dell’imprenditore immobiliare Antonio Velardo e dei suoi soci, tra cui l’ex terrorista IRA Henry Fitzsimons
  • A marzo 2009, Velardo e Fitzsimons vengono intercettati preoccupati per i paventati cambi nella legislazione svizzera rispetto al segreto bancario, svelando così di avere dei conti bancari in Svizzera
  • Le rogatorie internazionali mandate dalla Calabria e che chiedono una verifica sui conti in Svizzera non forniranno informazioni utili durante le indagini. Il sospetto è che i capitali legati al villaggio turistico “Gioiello del Mare” siano transitati da lì
  • Solo nel 2014 l’autorità giudiziaria svizzera informa la controparte italiana della presenza di cinque conti correnti di Credit Suisse su cui Velardo ha il potere di firma
  • Due di questi conti correnti compaiono nel database di Suisse Secrets, assieme a un terzo conto mai comunicato agli italiani
  • Tre di questi conti, poichè intestati a un’azienda nelle isole Marshall, non potranno essere sequestrati
  • Nel 2016, il costruttore del Gioiello del Mare viene condannato per appartenenza alla ‘ndrangheta, e il villaggio confiscato. Velardo e Fitzsimons verranno assolti per mancanza di prove a causa della scarsa collaborazione delle autorità straniere
  • Degli oltre 450 appartamenti venduti, solo 33 clienti stranieri hanno ottenuto una casa
#SuisseSecrets, il progetto

Suisse Secrets è un progetto di giornalismo collaborativo basato sui dati forniti da una fonte anonima al giornale tedesco Süddeutsche Zeitung. I dati sono stati condivisi con OCCRP e altri 48 media di tutto il mondo. IrpiMedia e La Stampa sono i partner italiani del progetto. 

Centosessantatre giornalisti nei cinque continenti hanno rastrellato migliaia di dati bancari e intervistato decine di banchieri, legislatori, procuratori, esperti e accademici, e ottenuto centinaia di documenti giudiziari e finanziari. Il leak contiene più di 18mila conti bancari aperti dagli anni Quaranta fino all’ultima decade degli anni Duemila. In totale, lo scrigno è di oltre 88 miliardi di euro.

«Ritengo le leggi sul segreto bancario svizzero immorali – ha dichiarato la fonte ai giornalisti-. Il pretesto di proteggere la privacy finanziaria è semplicemente una foglia di fico che nasconde il vergognoso ruolo delle banche svizzere quali collaboratori degli evasori fiscali. Questa situazione facilita la corruzione e affama i Paesi in via di sviluppo che tanto dovrebbero ricevere i proventi delle tasse. Questi sono i Paesi che più hanno sofferto del ruolo di Robin Hood invertito della Svizzera».

Nel database di Suiss Secrets ci sono politici, faccendieri, trafficanti, funzionari pubblici accusati di aver sottratto denaro alle casse del loro Paese, uomini d’affari coinvolti in casi di corruzione, agenti di servizi segreti. Ci sono anche molti nomi sconosciuti alle cronache giudiziarie.

Aveva ragione Velardo ad essere preoccupato perché già da un anno, in Calabria, due procure antimafia – quella di Reggio Calabria e quella di Catanzaro – lo avevano messo sotto intercettazione perché sospettato di muovere capitali riconducibili alla ‘ndrangheta e all’IRA. Due indagini complesse, rese ancor più difficili dai troppi salti di giurisdizione dei soldi e dei personaggi coinvolti, e che sono finite con l’assoluzione sia di Velardo che di Fitzsimons.

La traccia dei soldi che partendo dalla Calabria arriva fino a Miami, è rimasta sepolta grazie alla discrezione della Svizzera, che non è mai davvero venuta meno. E i segreti finanziari di Velardo incastonati tra le Alpi, quella parte mai scoperta dalle procure, sono rimasti tali. Almeno finora.

Grazie alle informazioni del leak, carte giudiziarie e altri documenti ottenuti in vari paesi del mondo, Suisse Secrets può oggi svelare nuovi dettagli sui movimenti di Velardo e dei suoi soci, sia in Calabria che, oggi, nei Caraibi.

Da Capo Verde ad Africo 

Nato a Napoli, il quarantaquattrenne Antonio Velardo si presenta con uno scintillante profilo Linkedin dove si descrive come “venture capitalist” nel mondo dell’immobiliare.

Oggi di base ai Caraibi, Velardo ha iniziato a vendere case agli stranieri da ventenne. Dopo una laurea in ingegneria presa in Inghilterra, si è trasferito a Capo Verde – arcipelago di 15 isole al largo del Senegal, nel mezzo dell’Oceano Atlantico.

Capo Verde, terra natale della famosissima musica morna, proprio come la sua musica è sempre stato un frullatore di note e gente diversa, un tempo tristemente ultima tappa della tratta degli schiavi prima dell’imbarco verso le Americhe, oggi noto hub per il rimbalzo di carichi di cocaina che viaggiano nella direzione opposta.

Amatissima dagli italiani, Capo Verde era un mercato turistico e immobiliare perfetto dove muovere i primi passi. Ed è qui che Velardo inizia a collaborare con Henry Fitzsimons. Condannato per un attacco bomba dell’IRA a inizio anni ‘70, l’irlandese – uscito di prigione dieci anni dopo – è diventato un magnate dell’immobiliare a Belfast in un batter d’occhio. Ma Fitzsimons era soprattutto noto in quanto proprietario del Rumours, un night famoso per le sue feste e per la clientela, fatta, secondo alcune fonti, per buona parte da membri dell’IRA.

A Capo Verde, Fitzsimons ha accolto Velardo sotto la sua ala, pagandogli – secondo le intercettazioni – 4mila sterline a settimana affinché lo aiutasse con vendite immobiliari nell’arcipelago.

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I professionisti della segretezza di Credit Suisse

Il processo a Patrice Lescaudron, le sanzioni agli oligarchi russi, i procedimenti di vecchi clienti contro la banca. Come lavorano i custodi della riservatezza dei clienti più abbienti

Presto, la coppia ha iniziato a espandere le attività investendo in resort turistici in Europa. Stando alle indagini della Guardia di finanza di Reggio Calabria, Velardo non si pone mai il problema di quanto costino i beni da acquistare, «come se disponesse di una quantità di denaro illimitata».

Alla fine del 2006 aprono insieme la società irlandese VFI Overseas Properties Real Estate Agent Ltd per seguire progetti immobiliari anche in Calabria, sia nel vibonese e catanzarese, che nella Locride. Qui, dopo avere sentito della possibilità di costruire un grande villaggio turistico sulla Costa dei Gelsomini nella zona di Brancaleone (Africo), Velardo si era messo in moto per entrare in contatto con chi aveva in mano il progetto. La costa di Africo però non è una tipica meta turistica, più che altro è nota per l’ingombrante presenza di uno dei clan di ‘ndrangheta più potenti al mondo, i Morabito alias Tiradrittu. Egemoni del traffico di cocaina dall’America Latina all’Europa, nel territorio di Africo non si muove una foglia, che questo clan non voglia.

Amatissima dagli italiani, Capo Verde era un mercato turistico e immobiliare perfetto dove muovere i primi passi. Ed è qui che Velardo inizia a collaborare con Henry Fitzsimons

Anna Sergi, autrice e ricercatrice sulla ‘ndrangheta e professoressa di criminologia presso l’Università di Essex, spiega come la zona di Africo si incastoni in una lunga costellazione di paesini sulla statale 106 jonica, la strada che connette Reggio Calabria a Catanzaro attraversando tutta la Locride. «Uno dopo l’altro, senza volto, piccoli paesini. Bova Marina, Brancaleone, Africo, Bovalino, e sù fino a Locri, Siderno e oltre, tutti sulla costa, dimenticati eppure bellissimi. E tutti parte di un territorio, di una rete di ‘ndrangheta, che riconosce il comando del “clan più forte”, i Morabito di Africo, la ‘ndrina che comanda anche il territorio di Brancaleone».

La circostanza non aveva frenato Velardo e Fitzsimon che, ai primi di marzo 2007 diventano ufficialmente coinvolti, come promotori e agenti immobiliari, nel più grande sviluppo immobiliare di sempre in Locride: il Gioiello del Mare.

Il sei marzo 2007 infatti Velardo apre la filiale italiana della VFI, registrandola in Calabria. Pochi giorni prima, con Fitzsimons avevano firmato un contratto con la RDV srl di Antonio Cuppari, titolare del sito di costruzione a Brancaleone. L’accordo dava mandato alla VFI per vendere gli appartamenti, pubblicizzando il mega-progetto in Irlanda, Inghilterra ma anche Norvegia, Svezia e Russia. E per ogni appartamento venduto “su carta”, VFI prendeva una commissione del 31% sul prezzo finale di vendita

Pochi mesi dopo, a maggio 2007, Velardo aveva acquistato con un’azienda immobiliare di sua proprietà, alcuni terreni all’asta vicino al grande cantiere di Cuppari. L’idea era quella di inglobarli nel progetto del Gioiello del Mare, facendoli diventare il “beachfront” – ovvero il lato spiaggia – del mega progetto. «Non avrei preso il terreno se non c’era lui», afferma Velardo in una conversazione intercettata. «Vabbè lui ha garantito la protezione sul territorio», commenta l’interlocutore. Una protezione, ritengono gli inquirenti grazie anche alle testimonianze di pentiti, che Cuppari ha potuto fornire in quanto membro della ‘ndrangheta di Africo con la dote di Vangelo. 

E Cuppari per i Morabito era un importante tassello, con il ruolo di imprenditore edile in grado di realizzare un complesso turistico-residenziale di quella portata. Il Gioiello del Mare infatti prevedeva almeno 620 appartamenti circondati da servizi di lusso come campi da golf, piscine, un hotel 5 stelle.

 Il Gioiello del Mare infatti prevedeva almeno 620 appartamenti circondati da servizi di lusso come campi da golf, piscine, un hotel 5 stelleScorri le immagini

Antonio Velardo nel corso di un’intervista

«Dalle intercettazioni e dalle carte processuali di Metropolis è chiaro che i proprietari della VFI non avessero idea che Cuppari avesse precedenti penali e che fosse associato con la mafia. Cuppari stesso ha dichiarato a processo di avere nascosto i suoi precedenti alla VFI perché, ha detto, temeva che la VFI non avrebbe più lavorato con lui se l’avesse scoperto. E aveva ragione», ha dichiarato Velardo tramite il suo PR Jamie Diaferia, dello studio Infinite Global di New York. Cuppari, contattato tramite il suo legale, non ha risposto.

Nel 2013 però, il Gip di Reggio Calabria mette i sigilli al Gioiello del Mare, bloccando definitivamente il cantiere. Cuppari viene arrestato con l’accusa di essere ‘ndranghetista, venendo poi condannato a 10 anni. Il funzionario dell’ufficio tecnico di Brancaleone firmatario dei permessi, viene assolto, e così Velardo e Fitzsimons in una sentenza che ha lasciato molti di sasso. 

Nonostante la VFI avesse venduto almeno 450 appartamenti del Gioiello, quando scattano gli arresti e il sequestro solo pochi stranieri erano riusciti ad ottenere un appartamento: 33 per la precisione, come ha potuto verificare IrpiMedia al catasto di Brancaleone.

Nonostante la VFI avesse venduto almeno 450 appartamenti del Gioiello, quando scattano gli arresti e il sequestro solo pochi stranieri erano riusciti ad ottenere un appartamento: 33 per la precisione

Simon Chambers è un avvocato irlandese che ha rappresentato decine di acquirenti. Dopo anni in causa contro uno studio di avvocati di Londra, Giambrone & Law, che si era occupato dei contratti di acquisto per gli appartamenti facendo da tramite tra la VFI di Velardo e Fitzsimons e il costruttore calabrese, Chambers è riuscito a fare compensare i suoi clienti solo della metà dei soldi persi nell’investimento, rivalendosi sull’assicurazione (di Giambrone). Chambers ha spiegato che molti suoi clienti avevano pagato, parzialmente o per intero, per appartamenti che non gli sono mai stati consegnati, in alcuni casi perché mai costruiti.

Ma se già all’epoca i conti di Velardo in Svizzera fossero stati noti, ha detto Chambers, le cose sarebbero potuto essere diverse. «Sapevamo che i soldi erano finiti da qualche parte. Dovevano essere finiti da qualche parte», ha concluso Chambers.

Scudi alzati

Nonostante la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria sospettasse ricchezze nascoste da Velardo, gli inquirenti non riuscivano a localizzarle. Dalle intercettazioni, l’imprenditore immobiliare parla di investimenti di lusso – una Ferrari Scaglietti comprata per 300mila euro, una proprietà da 10 milioni di sterline a Londra – e conti milionari («Antò io ho 40 milioni di euro in contanti in banca solo io»). E a un amico che gli propone di investire in opere d’arte, Velardo risponde di voler investire «soldi più elevati», nell’ordine di 500mila euro.

Quando intercettato preoccupato rispetto ai cambi di legislazione sul segreto bancario in Svizzera, l’autorità giudiziaria aveva già provato a localizzare i suoi conti, senza però riuscirci. Gli svizzeri, senza il numero preciso dei conti correnti, non potevano aiutare. «Non conoscevamo il numero dei conti correnti – ha spiegato un inquirente dell’indagine Metropolis a IrpiMedia – sapevamo solo ne avesse, perché se ne vantava al telefono».

E anche da Irlanda e Inghilterra arriva poco aiuto: nonostante sollecitate, non comunicheranno informazioni sui conti bancari dei due soci. Così, la traccia di denaro resta come una via lattea in un cielo troppo lontano.

Scavando in un’altra direzione, la Guardia di finanza di Catanzaro – nell’indagine parallela chiamata Black Money che toccava gli investimenti del clan Mancuso – raggiunge una svolta il 18 marzo 2010 quando, al varco doganale di Ponte Chiasso, gli agenti fermano uno dei consulenti commercialisti di Velardo, proprio di ritorno da un incontro con lui a Lugano.

Tra la copiosa documentazione sequestrata, spuntava anche la prova che Velardo e Fitzsimons utilizzassero una fiduciaria di Cipro, la HF & AV HOLDING. Non solo, le intercettazioni tra i commercialisti calabresi e Velardo avvenute dopo la perquisizione a Ponte Chiasso, raccontavano di una certa preoccupazione tra gli indagati rispetto a ciò che le carte potessero rivelare.

Uno schema complesso

Grazie alla documentazione sequestrata al commercialista, gli inquirenti erano riusciti a delineare un puzzle dell’operazione finanziaria di Velardo e della sua squadra. La descrivono come divisa in due fasi: la prima rappresentata dalla realizzazione di grandi guadagni con l’attività di intermediazione immobiliare per clienti stranieri in Calabria. In questa fase, ritengono, il gruppo guadagnava più del dovuto eludendo il fisco grazie ad «una serie di accorgimenti giuridico – contabili finalizzati ad evitare l’imposizione fiscale sul territorio italiano dei redditi». Nella fase due, questi soldi non tassati (e tenuti offshore) venivano investiti aprendo nuove società in Italia – Calabria, Roma, Milano, Como – per realizzare e poi vendere nuovi complessi immobiliari.

La rete transnazionale di aziende passava da varie giurisdizioni: Inghilterra,Tunisia, Russia con società controllate da fiduciarie in paradisi fiscali come Cipro e Delaware.

Una schermatura, quella delle fiduciarie, che Velardo aveva scelto di usare anche in Italia. Infatti, nel 2010 aveva dato mandato alla fiduciaria milanese EOS Finanziari Fiduciari S.p.a, posseduta da una banca svizzera, di rappresentare il suo azionariato nelle aziende calabresi.

A giugno 2021 Il Fatto Quotidiano ha dato la notizia che Eos è finita sotto la lente della procura di Milano, per avere aiutato clienti a nascondere ricchezze frutto di reati finanziari, soldi che venivano prima nascosti offshore e poi scudati e fatti rientrare in Italia ripuliti.

Sei manager apicali di Eos sono finiti sotto indagine a Milano perché «assumevano e gestivano nel tempo i mandati fiduciari mediante la diffusa e consapevole inottemperanza della normativa primaria in materia di adozione di efficaci presidi antiriciclaggio».

Anche Velardo si era servito di EOS per far gestire una parte dei suoi asset, aderendo allo scudo fiscale introdotto con un decreto legge di luglio 2009, che cercava di recuperare capitali italiani detenuti all’estero.  

Tutto legale, o meglio legalizzato (salvo che accertamenti successivi non dimostrino che il denaro tenuto all’estero sia provento di attività criminale).

Ma poichè permesso, Velardo nel 2010 dà mandato a EOS di gestire il patrimonio scudato pagando la tassa di adesione allo scudo (del 5% sul capitale che viene fatto rientrare in Italia) e facendo investire lo stesso in operazioni finanziarie legate alle società che controllava tramite la fiduciaria.

A dicembre 2011 però, il governo Monti introduce un’imposta straordinaria di 1.5% facendo lievitare la tassa sui patrimoni scudati a 6.5%.

Velardo non ci sta. Decide di disinvestire parte dei suoi asset in Italia e gestiti tramite EOS, spostandoli nella Banca Julius Baer, a Lugano.

«La rinuncia allo scudo fiscale comporta ovviamente, il venir meno della causa di non punibilità», scrive il giudice per le indagini preliminari nell’ordinanza di custodia cautelare di Black Money.

IrpiMedia ha scoperto che quando le autorità svizzere finalmente si svegliano dal torpore, e rispondono alla rogatoria di Catanzaro è tardi. È il 2014 ed è già un anno che la fase delle indagini è stata chiusa, con l’ordinanza di custodia cautelare del 25 marzo 2013.

Comunica, l’autorità giudiziaria svizzera, di avere trovato cinque conti Credit Suisse su cui Velardo ha il potere di firma. Due personali, e tre intestati all’azienda Apax delle Isole Marshall. Comunica anche di avere proceduto al sequestro solo dei due conti personali, e di non potere toccare gli altri tre poiché aziendali.

Alcuni di questi conti risultano anche nel leak di Suisse Secrets, incluso uno in più, dalla vita breve (2011-2012), mai comunicato dall’autorità giudiziaria svizzera ai colleghi calabresi.

Velardo aveva aperto un conto personale presso Credit Suisse a settembre 2010, un conto intestato ad un’azienda due mesi dopo, e infine un terzo conto sempre aziendale a maggio 2011. Quest’ultimo è stato aperto per poco, chiuso nel 2012, e conteneva poche migliaia di euro.

I conti Credit Suisse, che in qualche modo sono sopravvissuti alle indagini, sollevano serie domande sulle procedure di due-diligence (cioè della valutazione della clientela) dell’istituto di credito

Gli altri due, invece, hanno raggiunto rispettivamente un picco di circa 1.4 milioni di euro (quello personale) e circa 1.2 milioni di euro (quello aziendale) nel 2011, ben tre anni prima che le autorità ne scoprissero l’esistenza. Entrambi sono rimasti aperti anche dopo le operazioni giudiziarie Metropolis e Black Money: nel 2016 c’erano più di 300mila euro in uno, e più di 500mila euro in un altro.

Per gli inquirenti, tracciare i flussi finanziari di Velardo e Fitzsimons è stato un compito arduo, perché come scrive il Gip si muovevano «attraverso operazioni finanziarie e societarie mirate a canalizzare il flusso di denaro per veicolarlo verso paradisi fiscali e farne perdere le tracce». «Era un’indagine innovativa sul riciclaggio, ma non siamo riusciti a portare a giudizio i giusti accertamenti patrimoniali che avrebbero tranquillizzato i giudici», ricorda uno dei pm con un velo di frustrazione. «Tutti i prestanome e i broker sono stati assolti – spiega un altro pm – era impossibile dimostrare il flusso dei soldi, che si muoveva a loro stesso dire in modo “psicopatico” tra diverse giurisdizioni e paradisi fiscali».

Ricapitolando, Velardo era stato accusato in due diversi procedimenti giudiziari: Metropolis a Reggio Calabria e Black Money a Catanzaro. È stato assolto a Reggio Calabria per non avere commesso il fatto, ma condannato in primo grado Catanzaro a quattro anni solo per associazione per delinquere finalizzata all’evasione fiscale. In appello, nel 2019, questa accusa viene cancellata dalla prescrizione. Anche Fitzsimons, all’epoca arrestato in Senegal (si crede sulla via per Capo Verde), viene assolto. Fitzsimons, tramite il suo avvocato Dan McGuinness, fa sapere di non avere più contatti con Velardo dal 2010. Aggiunge che a febbraio 2021 la Corte d’Appello di Reggio Calabria a cui si era rivolto, ha decretato l’ingiusto arresto e detenzione e ordinato un indennizzo.

Ora però Suisse Secrets getta una nuova luce su quei flussi di denaro. I conti Credit Suisse, che in qualche modo sono sopravvissuti alle indagini, sollevano serie domande sulle procedure di due-diligence (cioè della valutazione della clientela) dell’istituto di credito.

Quando nel 2013 Velardo finisce alla ribalta delle cronache perché accusato di riciclaggio in tandem con un ex-terrorista IRA, è davvero difficile pensare che Credit Suisse non se ne sia accorta. Credit Suisse, contattata da IrpiMedia e dai media partner, non ha risposto alle domande relative a questi conti bancari.

Sono tunisino ma sto ai Caraibi

Il disamore di Velardo per le tasse italiane potrebbe essere ciò che lo ha spinto a stoccare soldi in Svizzera. Nel 2009, quando la concessionaria Ferrari chiede la dichiarazione dei redditi, Velardo sbotta con un suo aiutante. «Non dichiaro niente io, non ho mai dichiarato in vita mia… digli: l’amministratore vive sempre fuori e non dichiara un cazzo…».

Un anno dopo, aprirà i primi due conti Credit Suisse, mettendo come domicilio la Tunisia. Una mossa, quella della residenza in Tunisia, che per la GdF aveva il solo scopo di eludere le tasse. «Una scoreggia in faccia a quel pezzente del Generale della Guardia di finanza che deve morire in culo perchè io ora sono tunisino!» dice euforico Velardo parlando con il suo consulente legale dell’epoca. «Mi devono sbocchinare».

In Tunisia, Velardo e Fitzsimons avevano avviato un’altra filiale di VFI, nascondendo la proprietà tramite una fiduciaria del Delaware – come i documenti ottenuti da Al Quatiba in Tunisia dimostrano. Sempre in Tunisia, Velardo ha poi aperto un’altra azienda – la Apax consulting – che ha due gemelle, quella detentrice dei conti in Svizzera e registrata alle Isole Marshall, e quella americana servita per investire nell’immobiliare in Florida. Nessuno degli indirizzi delle aziende, oggi, porta ad un ufficio, come hanno verificato i giornalisti di Al Quatiba.

In Tunisia, Velardo e Fitzsimons avevano avviato un’altra filiale di VFI, nascondendo la proprietà tramite una fiduciaria del Delaware

Tracce più concrete invece si trovano in Florida, dove Velardo e tre soci hanno acquistato – tra il 2012 e il 2014 – più di 130 case. Come ha scoperto il Miami Herald, la maggior parte sono state pagate in contanti, proprio negli anni successivi alle vendite del Gioiello del Mare.

Velardo oggi ha il suo centro d’affari nei Caraibi, da dove pubblicizza le sue competenze su un sito web personale, una pagina LinkedIn e un blog Medium. E, in Repubblica Dominicana, guida un’azienda di consulenza immobiliare e finanziaria, la Real Capital Caribe.

A possedere il capitale dell’azienda, invece, un suo amico dai tempi di Metropolis. Ex-bancario di Barclays a Londra, viene intercettato – ma mai indagato – mentre Velardo racconta dei suoi progetti immobiliari in Calabria, del suo timore di essere sotto controllo, dei suoi guadagni («ho fatturato 60 milioni di euro») e dei suoi conti bancari tra Lugano e Locarno. 

L’ex-bancario è anche stato un perno fondamentale per gli investimenti immobiliari in Florida, infatti come ha scritto il Miami Herald, dopo che Velardo viene ufficialmente accusato in Calabria, il suo nome scompare progressivamente dalle aziende in Florida venendo sostituito da quello del collega. E il fil-rouge con la Calabria non sembra essersi fermato. 

Nel 2018, l’amministratore di un’azienda di Vibo ritenuto prestanome di Velardo e indagato con lui in Black Money, tale Francesco Colacino, viene iscritto come procuratore della Real Capital Caribe. Avrà potere di firma sui conti bancari, e potrà occuparsi delle intermediazioni immobiliari dell’azienda. Colacino, contattato da IrpiMedia, ha negato di avere a che fare con la Real Capital Caribe.

La Real Capital Caribe sul suo sito pubblicizza la realizzazione di due condo-hotel a Santo Domingo, e le cui unità immobiliari sono disponibili sia come affitto che per investimento. «Una grande opportunità d’investimento nel cuore dei Caraibi», recita lo slogan, promettendo guadagni dell’11% per chi dovesse investire negli appartamenti di lusso.

Una pubblicità della Real Capital Caribe

Le rovine

Nel frattempo, a Brancaleone, il Gioiello del Mare cade in rovina. A tagliarlo in due, la statale 106 jonica e campi incolti. L’erba secca, altissima, da bordo strada incornicia le case sulla spiaggia – il “beachfront” – l’unica parte completata. Dall’altra parte, al di là della statale e del suo traffico continuo, lo Smeraldo. Quello che doveva essere un mega resort da 600 appartamenti, è oggi un cantiere abbandonato. Gli scheletri di cemento spuntano dalla collina come a ricordare un sogno sbagliato, mentre solo le prime quattro schiere sono finite. Tutto attorno, gli uliveti e i campi verdissimi in salita verso l’Aspromonte severo. Di fronte, il mare, quel mare a cui lo Smeraldo doveva essere collegato con strade e passaggi pedonali apposta. Invece, l’unico modo di arrivare al “beachfront” è dalla statale jonica, girando in un angusto sottopassaggio della ferrovia. Non proprio una facility di lusso.

Un dettaglio dell’attualità dell’area del Gioiello del Mare lato fonte spiaggia mappata dal catasto di Brancaleone

IrpiMedia ha raggiunto due dei proprietari, con appartamenti allo Smeraldo e al “beachfront”, parte del gruppo di 33 stranieri che hanno ottenuto un appartamento. «È un gioiello del mare, ma è diventato un totale incubo per noi», concordano.

Chiedono l’anonimato per timore di ripercussioni. Adesso che tutto è confiscato, non possono toccare nulla delle aree comuni, nemmeno fare manutenzione ordinaria. Eppure, se non fosse stato per i loro sforzi e per un giardiniere pagato di tasca propria dal 2013, «sarebbe tutto caduto in rovina». E adesso è stato approvato un ordine di demolizione per l’intero complesso Smeraldo, un ordine che include anche le loro proprietà.

Un dettaglio dell’attualità dell’area del Gioiello del Mare lato entroterra mappata dal catasto di Brancaleone

Il 29 gennaio 2016 il Tribunale di Locri assolve Velardo, Fitzsimons e Cuppari dall’accusa di riciclaggio dicendo che sì, indubbiamente il Gioiello del Mare era «destinato – per le sue proporzioni e la sua importanza – a stimolare gli “appetiti” delle cosche di ‘ndrangheta operanti nella zona di Brancaleone» e che l’appartenenza di Cuppari ai Morabito era una prova del fatto che il clan si fosse intromesso nell’investimento, ma che mancavano le prove concrete dell’utilizzazione di somme derivanti da attività illecite. Pertanto, i tre imputati dovevano essere assolti.

Questo però, ci tengono a specificare i giudici, non per colpa dell’accusa. Se da una parte si era riusciti a ricostruire i rapporti tra la VFI e la RDV, dall’altra «la scarsa collaborazione offerta dalle autorità di polizia straniere non ha certo consentito di approfondire le modalità di approvvigionamento dei conti correnti intestati ai soci della prima, Antonio Velardo ed Henry Fitzsimons. […] è però rimasto del tutto inesplorato tutto il capitolo relativo alla provenienza di tali somme».

Riceviamo, pubblichiamo e rispondiamo alla replica del sig. Antonio Velardo

La replica

Antonio Velardo sperava non succedesse mai più di trovare il suo nome pubblicato sui giornali associato a fatti e crimini a cui la sua estraneità è stata provata su tutti i piani a partire da quello giudiziario. Il suo nome ancora qualche giorno fa è uscito tra quelli di 700 italiani che avevano dei conti segreti in banche svizzere, nel reportage conosciuto come Suisse Secret.
Questo ha fatto emergere rappresentazioni giornalistiche destituite di fondamento Siamo sicuri della buona fede dei giornalisti quindi abbiamo iniziato in questi giorni un percorso di verità di rispetto e di trasparenza.

  1. I tre conti in Credit Suisse, non erano segreti, nel 2010 Antonio Velardo aveva conti regolari in Credit Suisse, infatti, sono gli stessi messi a disposizione della magistratura italiana, la cui trasparenza è stata una dei fondamenti delle sue assoluzioni. Pensate che i conti sono stati verificati in Italia e le autorità svizzere hanno firmato il decreto di “abbandono” non avendo motivo di credere che il denaro potesse avere origini illecite.
  2. Quindi parlare di questi conti assimilarli a quelli segreti d’altri e alludere che possano essere fonte d’illeciti è un’azione priva di ogni fondamento.
  3. Di più la natura e l’origine del denaro posto nei conti della banca Credit Suisse sono leciti rintracciabili e giustificati niente di più che i dividendi delle attività di marketing e vendita sono alla luce del sole.
  4. Antonio Velardo ha subito due processi con accuse lunari che sono finite con piene assoluzioni e che hanno escluso ogni legame con organizzazioni criminali, questo non dovrebbe consentire a nessuno di dire il contrario.
  5. Sul suo caso stiamo preparando un instant book in cui pubblicheremo tutti gli atti del processo, delle banche per chiudere definitivamente lo strazio che viene compiuto periodicamente alla sua Reputazione. Un’azione che non solo devasta la sua vita e quella della sua famiglia ma impatta sulla sua attività internazionale in modo devastante.

La nostra risposta

Prendiamo atto delle repliche ricevute, facendo presente che fin dai momenti precedenti la pubblicazione ci siamo premurati di concedere spazio alle posizioni del Sig. Velardo. Tanto che queste trovano spazio proprio all’interno di questa stessa pagina.

Sui punti sollevati ci preme rilevare quanto segue: 

I conti in Credit Suisse sono definiti “segreti” nel testo, come per tutti gli altri clienti Credit Suisse citati nell’inchiesta internazionale nominata Suisse Secret, in quanto protetti dalla stringente norma sul segreto bancario della Svizzera. Inoltre, non tutti i conti in Credit Suisse di Antonio Velardo sono stati messi a disposizione della magistratura italiana: infatti, i magistrati non sono mai stati informati rispetto al conto aperto nel 2011 e chiuso nel 2012. 

Non solo, le informazioni che l’autorità giudiziaria svizzera ha mandato all’omologa di Catanzaro nel 2014, arrivano a procedimento penale già chiuso quando l’unica azione possibile era un congelamento del conto e non un’indagine sui flussi di denaro. Non risulta inoltre alcuna comunicazione rispetto a questi conti fatta alla autorità giudiziaria di Reggio Calabria, tant’è che il giudice di Locri nella sentenza di assoluzione dice che la mancanza di prove rispetto all’origine del denaro era dovuta alla scarsa collaborazione dei collaterali esteri. Come del resto risulta da alcuni passaggi della sentenza di assoluzione datata 26 gennaio 2016 allo stesso modo citata all’interno di questo stesso pezzo.

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Autori

Cecilia Anesi
Ben Wieder (Miami Herald)
OCCRP

Ha collaborato

Rahma Behi (Al Qatiba)
Walid Mejri (Al Qatiba)

In partnership con

Editing

Giulio Rubino

Foto di copertina

Occrp