#SuisseSecrets

Il «disegno criminoso» di Credit Suisse per aiutare evasione e riciclaggio
Polizze mantello, conti cifrati e spalloni: così si sono nascosti i patrimoni all’estero tra il 2005 e il 2012. Le verifiche fiscali, però, non hanno raccolto nulla
23 Febbraio 2022

Lorenzo Bagnoli
Luca Rinaldi

Cronache dal fronte italo-svizzero delle guerre fiscali, il conflitto per accaparrarsi i patrimoni dei più ricchi del mondo. I soldati spostano denari oltreconfine invece che sparare, gli ufficiali disegnano strategie per nascondere i titolari effettivi invece che manovre di invasione. Le guerre fiscali sono combattute da eserciti di banche, fiduciarie, fondazioni e trust in competizione tra loro per conquistare la collina più alta, il cliente e la multinazionale più facoltosi. Alcuni di questi ricchi compongono la lista dei correntisti di Suisse Secrets. Le manovre “militari” delle banche di rilievo nazionale sono spesso coordinate con avvocati d’affari e legislatori. Sono loro che scrivono le regole per rendere il proprio regime fiscale più attrattivo. Quello che per gli istituti di credito sarà un cliente facoltoso, per le casse pubbliche diventerà un ricco contribuente. Anche se pagherà poco, le sue tasse saranno comunque molto gradite.

Magistrati, forze di polizia giudiziaria e autorità fiscali sono le forze speciali che conducono offensive per tentare di recuperare i gettiti sottratti a livello globale. L’equità fiscale non è una scienza esatta, ma un difficile equilibrio tra politica economica internazionale e bilancia fiscale. L’entità del maltolto e il suo conseguente recupero, quando oltreconfine, sono spesso oggetto di controversie giudiziarie, accordi bilaterali, informazioni scambiate in toto o in parte tra le autorità nazionali di accusatori e accusati. Molto spesso la battaglia dev’essere condotta su due binari paralleli: un procedimento penale e una verifica fiscale amministrativa. Nel caso di un gruppo di correntisti di Credit Suisse scovati a Milano a fine 2013 quest’ultima s’è dimostrata la partita più difficile.

IrpiMedia è gratuito

Ogni donazione è indispensabile per lo sviluppo di IrpiMedia

#SuisseSecrets, il progetto

Suisse Secrets è un progetto di giornalismo collaborativo basato sui dati forniti da una fonte anonima al giornale tedesco Süddeutsche Zeitung. I dati sono stati condivisi con OCCRP e altri 48 media di tutto il mondo. IrpiMedia e La Stampa sono i partner italiani del progetto. 

Centosessantatre giornalisti nei cinque continenti hanno rastrellato migliaia di dati bancari e intervistato decine di banchieri, legislatori, procuratori, esperti e accademici, e ottenuto centinaia di documenti giudiziari e finanziari. Il leak contiene più di 18mila conti bancari aperti dagli anni Quaranta fino all’ultima decade degli anni Duemila. In totale, lo scrigno è di oltre 88 miliardi di euro.

«Ritengo le leggi sul segreto bancario svizzero immorali – ha dichiarato la fonte ai giornalisti-. Il pretesto di proteggere la privacy finanziaria è semplicemente una foglia di fico che nasconde il vergognoso ruolo delle banche svizzere quali collaboratori degli evasori fiscali. Questa situazione facilita la corruzione e affama i Paesi in via di sviluppo che tanto dovrebbero ricevere i proventi delle tasse. Questi sono i Paesi che più hanno sofferto del ruolo di Robin Hood invertito della Svizzera».

Nel database di Suiss Secrets ci sono politici, faccendieri, trafficanti, funzionari pubblici accusati di aver sottratto denaro alle casse del loro Paese, uomini d’affari coinvolti in casi di corruzione, agenti di servizi segreti. Ci sono anche molti nomi sconosciuti alle cronache giudiziarie.

Sono anni che si combatte sul fronte svizzero: Suisse Secrets racconta il modo in cui Credit Suisse, approfittando delle disposizioni elvetiche in materia bancaria, ha mantenuto segreti alcuni dei suoi facoltosi correntisti. Un caso che a Milano si è chiuso con un patteggiamento nel 2017 dimostra che già gli inquirenti avevano scoperto dei sistemi adottati dalla banca per “schermare” investimenti offshore. «Il sistema bancario svizzero è immorale – ha scritto il whistleblower che ha condiviso il materiale con i giornalisti di Suisse Secrets – Il pretesto di proteggere la privacy finanziaria è una mera foglia di fico per coprire il vergognoso ruolo delle banche svizzere come facilitatrici dell’evasione fiscale». La società di comunicazione incaricata da Credit Suisse di rispondere ai giornalisti che le affermazioni di Suisse Secrets sono «false, dannose e fuorvianti» e basate «su presunti fatti in gran parte vecchi».

In questo particolare momento storico, Credit Suisse attraversa una fase di profonda crisi. Nell’ultimo trimestre ha registrato una perdita di 1,8 miliardi di euro e ha chiuso il 2021 con un rosso di 1,4 miliardi di euro. Nel 2021 la banca ha ridotto enormemente il comparto che si occupava di fondi d’investimento ad alto rischio. È il settore che si è enormemente esposto con l’hedge fund americano Archegos Capital Management, specializzato nella gestione dei patrimoni di famiglie ricche. A furia di investire in azioni molto volatili, cioè dal prezzo instabile, è andato in default, ossia è fallito, provocando un buco da 5,5 miliardi di dollari nei conti di Credit Suisse.

Un caso che a Milano si è chiuso con un patteggiamento nel 2017 dimostra che già gli inquirenti avevano scoperto dei sistemi adottati dalla banca per “schermare” investimenti offshore

Solo a marzo 2021 Credit Suisse ha annunciato la liquidazione di fondi dal valore complessivo di 10 miliardi di dollari gestiti insieme a Greensnill Capital, una società australiana-inglese che si occupava di anticipare le fatture dei grandi fornitori della “supply chain”. I funzionari di Credit Suisse si sono accorti troppo tardi che i conti e le coperture della società di investimento non erano a posto e tre manager sono stati successivamente licenziati dalla banca. Scandali come Greensnill e Archegos hanno causato qualche turbamento anche ai piani alti della banca. Al momento attuale, l’attività che ancora garantisce buoni profitti e su cui Credit Suisse si vorrebbe concentrare è la gestione dei patrimoni delle famiglie ricche.

#SuisseSecrets

I professionisti della segretezza di Credit Suisse

Il processo a Patrice Lescaudron, le sanzioni agli oligarchi russi, i procedimenti di vecchi clienti contro la banca. Come lavorano i custodi della riservatezza dei clienti più abbienti

La campagna di Milano e le verifiche fiscali che falliscono

Al dicembre 2013 la Guardia di finanza, su mandato della procura di Milano, ha perquisito gli uffici di Credit Suisse in via Santa Margherita 3. La banca svizzera aveva già subito retate simili in Germania. Secondo l’accusa a Milano avrebbe favorito alcuni reati fiscali evitando di proposito di controllare quello che i suoi dipendenti facevano. A febbraio 2017 il secondo istituto di credito della Svizzera ha patteggiato davanti al Giudice per le indagini preliminari di Milano Chiara Valori una multa da un milione di euro per omissione di controllo, a cui vanno aggiunti altri 7,5 milioni di profitti illeciti confiscati. Quei denari, per il tribunale, sono provento di commissioni irregolarmente collezionate dalla banca nell’ultimo trimestre del 2011 e nel 2012.

Secondo gli inquirenti – i pubblici ministeri titolari erano Francesco Greco, Antonio Pastore e Gaetano Ruta – sei società del gruppo non hanno adottato ed efficacemente attuato «modelli di organizzazione e gestione idonei a evitare la commissione di reati di riciclaggio di provenienza delittuosa […] realizzati nell’interesse non esclusivo degli autori degli stessi reati», si legge nella sentenza di patteggiamento. Il «disegno criminoso» era eseguito «da “apicali” e “soggetti sottoposti all’altrui direzione e vigilanza”».

IrpiMedia è gratuito

Ogni donazione è indispensabile per lo sviluppo di IrpiMedia

Erano al corrente della pratica irregolare, quindi, sia dirigenti, sia impiegati. L’Agenzia delle Entrate a ottobre 2016 aveva già chiuso con l’istituto di credito elvetico un contenzioso amministrativo con una sanzione da 101 milioni di euro. Sembrano una valanga di soldi, ma sono comunque un’inezia rispetto ai 14 miliardi di euro di illeciti contestati in una prima fase.

Il pool che ha difeso la banca sia nel penale sia nel tributario contava alcuni dei professionisti più famosi d’Italia: l’avvocata Paola Severino, ministro della Giustizia del governo di Mario Monti tra il 2011 e il 2013 e lo studio Tremonti Vitali Romagnoli Piccardi, di cui lo storico ministro dell’Economia dei governi Berlusconi Giulio Tremonti è il fondatore. Nell’ordinamento italiano è la legge 231 del 2001 che prevede la responsabilità amministrativa delle imprese nelle quali si commette un reato, «anche quando l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile», recita l’articolo 8. È stata la prima volta in cui gli inquirenti ne hanno fatto uso contro una banca. Secondo quanto stabilisce la 231 l’onere della prova è in capo al difensore.

«Il «disegno criminoso» era eseguito «da “apicali” e “soggetti sottoposti all’altrui direzione e vigilanza”»

Dalla sentenza di patteggiamento del 2017 tra Credit Suisse e il tribunale di Milano

Il patteggiamento ha chiuso il procedimento penale. Ancora in corso invece sono le verifiche tributarie dei nomi della lista, che hanno lo scopo di recuperare altro potenziale gettito perso. Sono migliaia gli avvisi di accertamento fiscale mandati dall’Agenzia. Sfruttando il logoramento della diplomazia svizzera di fronte al segreto bancario, dal 2017 si è aperto qualche spiraglio nella condivisione delle informazioni, che si è concluso poi con l’adesione della Svizzera (con tutti i suoi limiti) al sistema comune Crs nel 2018. Se i primi 3.297 clienti della lista milanese sono stati identificati come aderenti a voluntary disclosure e scudo fiscale, per gli altri 9.953 i finanzieri hanno fatto richiesta, già a luglio 2017, di cooperazione giudiziaria ai colleghi svizzeri. La richiesta, ad oggi, è stata accolta solo parzialmente e secondo una fonte giudiziaria il modo in cui la Svizzera condivide i dati è ancora incompleto: solo un nome e un cognome, spesso nemmeno la data di nascita.

Dallo scudo fiscale alla voluntary disclosure

Testo del toggle17 febbraio 2004, Silvio Berlusconi guida il suo secondo governo, il più lungo: «Se lo Stato mi chiede il 50-60% (di tasse, ndr) sento che è una richiesta scorretta e mi sento moralmente autorizzato a evadere», dichiara durante una conferenza stampa. La soglia tollerabile, per il fondatore di Forza Italia, era il 33%, circa dieci punti percentuali di troppo per un italiano con il suo imponibile. Ancora oggi Silvio Berlusconi è il politico con il maggiore patrimonio in Europa, con oltre 50 milioni di euro. Il taglio delle tasse è sempre stato uno dei cavalli di battaglia di Forza Italia.

Il secondo governo Berlusconi, nel 2001, ha promosso lo scudo fiscale, di cui ci sono state due edizioni, di cui la più importante nel 2009, uscita insieme a un decreto che cambiava alcune norme sulla verifica fiscale. A guidare il ministero dell’Economia c’era Giulio Tremonti, lo stesso fondatore dello studio che poi ha difeso Credit Suisse nel 2017. «Lo scudo va preso come un primo tentativo compiuto in anni ormai passati di andare verso una direzione che allora era sconosciuta», cioè quella di recuperare patrimoni nascosti all’estero, commenta Marco Allena, professore di Diritto tributario all’Università Cattolica del Sacro Cuore. «Ha avuto in quegli anni lo scopo di dare un primo scossone a questa massa di disponibilità giacenti all’estero in situazioni più o meno irregolari», aggiunge. Lo scudo fiscale del 2009 ha regolarizzato 104,5 miliardi di euro e generato un gettito fiscale di 5,6 miliardi di euro. Il dato, secondo diversi esperti sentiti sull’argomento, può essere visto da un punto di vista duplice: per un verso, è gettito recuperato che altrimenti sarebbe stato difficilissimo da recuperare; per un altro verso, è poco rispetto all’ammontare dei patrimoni evasi.

Grande protagonista delle regolarizzazioni tramite scudo fiscale era l’intermediario che si occupava del flusso di denaro in entrata, al quale applicava la ritenuta a titolo di imposta versata allo Stato e a quel punto la giacenza andava ad affluire in un conto secretato.
Sei anni dopo è arrivata la voluntary disclosure, la sua evoluzione introdotta dal governo di Matteo Renzi: nelle sue due versioni, 2015 e 2017, regolarizzerà 64,3 miliardi di euro, per un gettito di 4,8 miliardi. «La voluntary è stata frutto di contraddittori e veri e propri accertamenti che potremmo dire spontanei ma tra il contribuente e per ogni singola posizione dell’Agenzia delle Entrate competente», precisa Allena. «Scudo fiscale e voluntary disclosure sono Istituti diversi: mentre lo scudo è stato sostanzialmente una sanatoria a un costo molto basso (il 2-4% sul totale degli imponibili rimpatriati o regolarizzati) la voluntary disclosure è stato uno strumento assai più complesso e strutturato», aggiunge il professore. Ritiene che entrambi non possano esser considerati “condoni”: non sono totali annullamenti di pena, ma sconti. In più lasciano spazio a verifiche ulteriori: «Il condono è un segno di arrendevolezza del sistema di fronte all’incapacità di accertare – prosegue – perché depone le armi e sana completamente e a prescindere situazioni pregresse». È stato l’unico modo per sanare posizioni altrimenti impossibili da accertare per le autorità fiscali e di conseguenza è stato necessario creare incentivi, come gli sconti sulle possibili pene e gli abbuoni fiscali, affinché fossero fatte le dichiarazioni.

Al di là degli aspetti tecnici, secondo il professor Allena quello che è cambiato è il clima culturale internazionale intorno all’evasione fiscale: le scappatoie sono sempre meno, i Paesi sono almeno formalmente sempre più allineati. È una politica economica sempre più diffusa quella di aggredire i patrimoni all’estero non dichiarati.

Sul piano giudiziario, però, l’Italia condanna poco per reati fiscali. Il Sole24Ore in un articolo del 2019 ne stimava all’anno circa 3mila di media. Nel 2014 i procedimenti archiviati sono stati 15mila e 23mila nuovi casi sono stati aperti. Nel 2019 i detenuti per reati fiscali, riporta Agi, erano 281. Eppure i casi di evasione fiscale transfrontaliera continuano a essere scoperti.
Nell’ultima Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva, curata dal Mef, si legge che sono 921 «i casi di evasione fiscale internazionale e di occultamento di redditi e patrimoni all’estero scoperti dalla Guardia di Finanza nel 2020». Nel 2019 erano stati 1.627, nel 2018 1.702 e nel 2017 1.809. La voluntary disclosure oggi è ancora informalmente impiegata per risolvere i contenziosi tra contribuenti e Agenzia delle Entrate, nonostante la finestra di tempo sia ormai “chiusa”.

Delle circa 130 mila richieste di regolarizzazione pervenute all’Agenzia delle Entrate entro l’inizio del dicembre 2015, quasi al termine dell’operazione, circa il 70% erano per posizioni aperte in Svizzera. Per l’80% circa hanno riguardato quattro banche: Credit Suisse, Ubs, Bsi e Julius Baer. «Con la voluntary disclosure ci si è riproposti di far pagare le imposte sulle giacenze all’estero, tendenzialmente negli ultimi cinque anni – spiega Marco Allena, professore di Diritto tributario all’Università Cattolica del Sacro Cuore -. Chi non ha avuto redditi da quelle giacenze non ha pagato imposte». Le giacenze sono le somme di denaro depositate in un conto corrente. Quindi la voluntary disclosure puntava a radiografare le fonti di guadagno di un contribuente all’estero, dai patrimoni fino ai redditi passivi, come gli interessi su un investimento, i dividendi di una società. Le sanzioni per la mancata dichiarazione erano del 16,65%. Tra chi ha sfruttato gli sconti delle manovre per far rientrare i soldi dall’estero ci sono il gruppo Gucci e alcuni manager storici. Scrive Il Fatto quotidiano, in un’inchiesta collaborativa con il consorzio Eic, che almeno dal 2011 al 2017 il gruppo ha evitato di pagare al fisco 5 miliardi di euro. Uno dei manager che aveva partecipato allo schema ha aderito alla voluntary e ha pagato 16 milioni di euro per rimettere a posto la sua posizione fiscale.

Almeno una ventina di accertamenti fiscali di cui si è occupato il dottore commercialista tributarista Maurizio Reggi si sono chiusi in primo o secondo grado a favore dei contribuenti accusati di evasione. Spesso si legge che «l’onere probatorio» non è stato assolto nella maniera corretta dall’Agenzia delle Entrate, che ha fallito in molte circostanze persino a provare il legame tra presunto sottoscrittore e assicurazione sulla vita. In una sentenza del 2021 si legge, ad esempio, che la polizza «non è mai stata prodotta in giudizio». Mentre la banca ha patteggiato per l’accusa di aver facilitato i clienti nella creazione di strumenti per schermare gli investimenti all’estero, quando si va alla verifica fiscale questo assunto spesso non è dimostrato dall’Agenzia delle Entrate, a leggere le sentenze.

I motivi principali di questi esiti sono due. Il primo è che i redditi oggetto di accertamenti risalgono a troppi anni fa. Le polizze erano spesso del 2005, 2006 e 2007 e solo nel 2009 è stata introdotta una norma per cui l’autorità fiscale presumeva che i patrimoni degli italiani nei paradisi fiscali fossero in nero. Questa norma non è retroattiva, dice la Cassazione, anche perché la prova di dimostrare il contrario era a carico dei contribuenti. Il secondo motivo riguarda i nominativi a disposizione nella lista di Milano: sono parziali, incompleti e approssimativi e spesso non è nemmeno chiaro il motivo per cui siano stati ritrovati nella sede di Milano. Per completarli serve la collaborazione delle sedi svizzere di Credit Suisse – dove fisicamente sembrerebbe siano stati firmati i contratti delle assicurazioni a vita – e dell’autorità svizzera. L’aiuto è arrivato – parzialmente – solo molto più tardi, stando agli inquirenti.

Mentre la banca ha patteggiato per l’accusa di aver facilitato i clienti nella creazione di strumenti per schermare gli investimenti all’estero, quando si va alla verifica fiscale questo assunto spesso non è dimostrato dall’Agenzia delle Entrate, a leggere le sentenze

Il triangolo delle Bermuda dove scompaiono i patrimoni

La tipologia di polizze che hanno trovato i militari della Guardia di Finanza a Milano è soprannominata “polizza mantello”. Sotto la veste di una normale assicurazione per la vita, la polizza mantello nasconde prodotti prettamente finanziari, dai quali si può investire e disinvestire quando si vuole. La differenza fondamentale è che le polizze vita non devono finire nella dichiarazione dei redditi, gli investimenti finanziari invece sì. Durante le udienze per gli accertamenti fiscali è emerso che i prodotti sono stati sottoscritti in uffici di Credit Suisse in Svizzera tanto è vero che a Milano non sono state scoperte delle polizze originali, ma solo questo elenco, prodotto in udienza in uno scarno foglio excel. Nella sentenza di patteggiamento si legge che Credit Suisse «aveva sollecitato alla sottoscrizione delle polizze almeno 4mila clienti». Il prodotto proposto si chiamava “Polizza Bermuda”, un prodotto di Credit Suisse Life (Bermuda) Limited, soggetto che per il Tribunale «non [è] legittimato allo svolgimento di alcuna attività finanziaria e assicurativa nel territorio dello Stato (italiano, ndr)». La sottoscrizione con una società delle Bermuda permetteva sia di tenere la polizza mantello nascosta (l’Agenzia delle Entrate parla di «conti separati» nelle verifiche fiscali), sia di evitare l’euroritenuta, una somma che la società assicurativa avrebbe dovuto trattenere al cliente e poi dividere tra amministrazioni tributarie coinvolte nell’operazione. Credit Suisse però non lo faceva, secondo il patteggiamento.

Inoltre per i clienti di Credit Suisse si accendevano conti a Guernsey, Panama, Singapore, Liechtenstein, Bahamas, Cipro, Isole Vergini Britanniche, Antille Olandesi, Costa Rica, Svizzera e Hong Kong, Paesi offshore dove riusciva a garantire l’anonimato ai propri clienti, che così si rendevano invisibili al fisco italiano. Secondo il dispositivo di patteggiamento, la banca si prendeva cura di organizzare lo spallonaggio attraverso cui far rientrare i soldi in Italia. I consulenti che se ne occupavano, i relationship manager, gravitavano sulla sede di Milano. Questi consulenti dovevano seguire un codice di comportamento quasi da agente segreto, che l’Espresso nel 2016 ha definito “il manuale del perfetto evasore”. Si tratta di slide di corsi di formazione aziendale in cui si suggeriva «massima discrezione per evitare che eventuali terzi intuiscano lo scopo della chiamata» dalla banca al cliente, si suggeriva di stare attenti al «pericolo di intercettazioni» telefoniche, per le trasferte dai clienti «prendere solo automobili a nolo», di non portarsi dietro agende, di parcheggiare lontano dai luoghi degli incontri, di evitare gli incontri in sede, di non lasciare documenti incustoditi, di cambiare albergo «ogni 2-3 giorni», di annunciarsi solo con nome e cognome e mai come istituto di credito, di contattare solo clienti introdotti da persone già conosciute alla banca, di non rispondere alle domande dei finanzieri sulla propria professione se non alle dogane e soprattutto «non fornire info in merito all’attività svolta».

L’ex consigliere economico del principe Andrea si è comprato Credit Suisse Life & Pensions

Credit Suisse Life & Pensions AG – principale società del settore assicurativo di Credit Suisse con sede a Vaduz, in Liechtenstein – a gennaio 2022 è stata acquisita dal gruppo assicurativo Octium, specializzato nelle polizze vita che contengono prodotti finanziari. Proprietario è l’uomo d’affari britannico di stanza a Guernsey David Rowland, ex tesoriere del partito conservatore britannico, amico e consigliere finanziario del Principe Andrea, la cui lunga carriera che l’ha portato da figlio di un commerciante di rottami a magnate immobiliare della Londra dei nobili negli anni è stata interrotta da qualche piccolo incidente giudiziario, riporta il Guardian. Nel 2017 Octium ha acquisito il branch assicurativo di Ubs e ora punta a diventare una potenza nel settore.

Nell’ultimo bilancio di Credit Suisse Life (Bermuda) Limited si legge che dal 2014 il branch non ha alcun nuovo business. Dopo lo scandalo delle polizze, infatti, l’autorità di vigilanza del mercato delle Bermuda, la Bermuda Monetary Authority (Bma), ha ordinato una revisione di un campione dei suoi prodotti assicurativi per fare in modo che sia certificato da un revisore indipendente che si occupa di antiriciclaggio. Nel bilancio si legge che Credit Suisse da allora attende istruzioni dalla Bma. La società gestisce ancora cinque polizze, che non può chiudere per motivi legali, che generano un patrimonio complessivo di circa 14 milioni di dollari e dal 2016 le rimanenti sono state trasferite in capo ad altre società del gruppo Credit Suisse.

Il fronte svizzero nelle guerre fiscali

Dopo il patteggiamento di Credit Suisse anche altri istituti bancari sui quali erano state formulate le stesse accuse hanno pagato. Nell’ottobre 2019 Ubs, la prima banca svizzera, ha patteggiato 2,1 milioni di sanzione, con confisca di 8,1 milioni di euro per riciclaggio. Il contenzioso con l’Agenzia delle entrate era stato chiuso a giugno con una sanzione da 101 milioni di euro «per non aver pagato all’erario le imposte legate alle sue attività con clienti italiani dal 2012 al 2017», scrive Reuters. Nel 2021 ha patteggiato anche Pkb Privatbank, pagando nei procedimenti penali e tributari, tra confisca e sanzioni, circa 120 milioni di euro. L’ufficio stampa del dipartimento federale delle finanze ha risposto alle domande di Suisse Secret precisando che «la legislazione svizzera in materia di lotta contro il riciclaggio di denaro e di scambio internazionale di informazioni in materia fiscale è regolarmente oggetto di verifiche da parte degli organismi internazionali competenti» e che la Svizzera è «conforme agli standard internazionali». «Ogni grande piazza finanziaria ha un certo rischio di essere sfruttata per operazioni illegali – aggiunge l’ufficio stampa -. La Svizzera affronta questi rischi in modo mirato nella lotta contro il riciclaggio di denaro, il finanziamento del terrorismo, i reati fiscali e la criminalità finanziaria, conformemente agli standard internazionali».

Dopo il patteggiamento di Credit Suisse anche altri istituti bancari sui quali erano state formulate le stesse accuse hanno pagato

Per approfondire

La sede della banca nazionale svizzera a Bern - Foto: marekusz/Shutterstock

Guerra al segreto bancario svizzero

Dal 1932 ad oggi, storia degli assalti al privilegio della riservatezza svizzera. Tra compiacenze degli Stati europei e interessi americani nel grande mercato dell’evasione fiscale

«I conti cifrati sono strumenti che fanno parte di un’altra epoca – commenta Marco Allena, professore di Diritto tributario all’Università Cattolica del Sacro Cuore -. È impensabile che rimangano tali quando tutti gli istituti bancari trasmettono i dati e quando le varie amministrazioni fiscali sono in grado di esporre dati e informazioni di un contribuente praticamente in tempo reale». Sulle polizze mantello, osserva che «le polizze mantello si sono rivelate uno strumento che indubbiamente non favoriva la compliance e la trasparenza» ma che in generale sulle polizze sia la giurisprudenza italiana, sia quelli di altri Paesi abbia in corso «una riconsiderazione dello strumento».

Però per tutto questo serve tempo. Ritardare l’impiego di automatismi, lasciar sopravvivere prodotti del mondo bancario ormai in declino sono strategie da combattimento ritardatore, per dirla con l’avvocato Paolo Bernasconi. Mentre la Svizzera fa resistenza, per altro, ci sono fronti delle guerre fiscali che ancora sono (quasi) totalmente inesplorati: dalla Cina ai Paesi del Golfo, al Medio Oriente. Invece dei caschi blu dell’Onu, le forze di pace sono gli esperti contabili dell’Ocse che dopo i trattati impongono l’introduzione di strumenti attraverso cui scambiare informazioni – bene primario di ogni conflitto – in modo automatico. Al di là di accordi e proclami e di oggettivi passi in avanti, la guerra non sembra comunque destinata a concludersi. E del tempo che passa se ne approfittano riciclatori, criminali ed evasori che cercano riparo ai loro soldi in nero.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli
Luca Rinaldi

Editing

Giulio Rubino

Foto di copertina

Harold Cunningham/Getty Images