La fortezza Europa colpisce ancora
Il controllo delle migrazioni è tornato al centro della politica dell’Ue, Italia in testa. Dalle novità del Piano Mattei e del Decreto ong, fino alle missioni militari: cronistoria di 15 anni di (immutabili) politiche in Libia

27 Febbraio 2023 | di Antonella Mautone

Si torna a parlare di migrazioni. Il naufragio di Steccato di Cutro, in Calabria, con 62 morti accertati e molte decine di dispersi, è solo l’ultimo terribile episodio che ha riportato il tema al centro del dibattito pubblico e politico, in Italia come in Europa. I dati degli arrivi irregolari alle frontiere europee, dopo il forte rallentamento imposto dalla pandemia, sono tornati a salire nel 2022 e, pur restando ben lontani da quelli della cosiddetta crisi dei rifugiati del 2015-2016, hanno riportato l’argomento al più alto tavolo dei leader dell’Unione europea. La gestione dei flussi migratori, infatti, è stata uno dei punti principali di discussione del Consiglio europeo straordinario che si è tenuto lo scorso 9 febbraio a Bruxelles.

L’organismo riunisce i capi di stato e di governo dei 27 stati Ue più la presidente della Commissione Ue Ursula Von Der Leyen e il presidente del Consiglio stesso, Charles Michel, e ha il compito di orientare le politiche comunitarie. Il vertice di febbraio si è concluso con la decisione di «mobilitare immediatamente ingenti fondi e mezzi dell’Ue per sostenere gli Stati membri nel rafforzamento delle capacità e delle infrastrutture di protezione delle frontiere». «L’Unione europea – proseguono le conclusioni – rafforzerà la sua azione tesa a prevenire le partenze irregolari e la perdita di vite umane», si pone l’obiettivo di «ridurre la pressione sulle frontiere dell’Ue e sulle capacità di accoglienza», di «lottare contro i trafficanti» e «aumentare i rimpatri».

La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, durante il Consiglio europeo del 9 febbraio 2023 – Foto: NurPhoto/Getty

Nelle conclusioni del Consiglio europeo c’è anche un passaggio in cui vengono riconosciute «le specificità delle frontiere marittime». Stando alle ricostruzioni offerte dalla presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni nella conferenza stampa post vertice, questa parte di testo rappresenterebbe un successo per l’Italia. Un’ipotesi potrebbe essere che Meloni abbia chiesto maggiori sforzi per contenere gli arrivi dal Mediterraneo centrale e, contestualmente, abbia cercato di raccogliere consenso intorno al Piano Mattei, ovvero la trasformazione dell’Italia in un polo di ricezione per tutta l’Europa del gas proveniente dai Paesi africani mediterranei.

Insieme all’obiettivo energetico, il Piano Mattei intende rafforzare il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo per limitare i flussi migratori, contrastare la crescita del terrorismo e dare opportunità economiche ai Paesi africani. È la rielaborazione del 2023 dello slogan “aiutiamoli a casa loro”, che ha innervato le politiche europee dal summit europeo sulla migrazione di La Valletta, nel 2015, a cui parteciparono anche i Paesi africani.

Le cicliche promesse di sviluppo

Correva l’anno 2008 quando, all’ombra di una tenda a Bengasi, l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi siglava con il leader libico Gheddafi il trattato di «amicizia, partenariato e cooperazione» tra Italia e Libia. L’accordo, il cui valore avrebbe dovuto essere 200 milioni di dollari, segnava la collaborazione tra i due Paesi nel contrasto dell’immigrazione irregolare, attraverso il pattugliamento congiunto delle coste libiche. Allora fu il ministro degli interni Roberto Maroni a mettere sul tavolo il progetto di un’autostrada costiera che avrebbe attraversato tutta la Libia, dall’Egitto alla Tunisia; oggi promesse simili rivivono attraverso progetti di cooperazione come il Piano Mattei.

Ormai è sempre più esplicito il meccanismo di condizionalità degli aiuti europei, ovvero il fatto che la cooperazione con la sponda sud del Mediterraneo dipende dall’impegno di bloccare i flussi delle partenze. Questa strategia politica ha ormai fatto scuola. Eppure 15 anni dopo il Trattato di amicizia di Bengasi, Gheddafi è morto, dell’autostrada non c’è traccia, gli sbarchi proseguono. E quella che doveva essere una mossa escogitata sia per bloccare l’arrivo dei migranti via mare, sia per lasciare una minima traccia di influenza italiana nel Paese, sembra essere fallita.

La questione aperta delle Ong

Infine, tra i tanti temi che il documento finale del Consiglio europeo affronta, c’è anche quello delle operazioni di salvataggio. Sottolinea infatti «la necessità di una cooperazione rafforzata in ordine alle attività di ricerca e soccorso». Da questo punto di vista, l’Italia si è mossa in autonomia, cercando di fissare uno standard al quale anche i colleghi europei dovranno adeguarsi. Il 15 febbraio, infatti, la Camera ha approvato il Decreto Ong, voluto dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, capo di gabinetto di Matteo Salvini quando il leader della Lega era al vertice del Viminale. Il decreto afferma che una volta effettuato un salvataggio in mare ogni imbarcazione è tenuta a richiedere un porto di sbarco al Centro di coordinamento marittimo (Mrcc) e raggiungerlo nell’immediato, evitando perciò di effettuare altre operazioni di soccorso.

Aggiunge poi che «alle organizzazioni è richiesto anche di fornire informazioni dettagliate sull’operazione condotta» e soprattutto «informare le persone a bordo della possibilità di richiedere la protezione internazionale e, in caso di interesse, raccogliere i dati rilevanti da mettere a disposizione delle autorità». Non è piaciuto al Consiglio d’Europa (Coe), la principale organizzazione che si occupa di diritti umani in Europa, che tuttavia non è un organo dell’Unione europea. In una lettera firmata dalla commissaria Dunja Mijatovic due settimane prima dell’approvazione, si chiedeva al governo di prendere in considerazione delle modifiche al decreto «per assicurare che il testo sia pienamente conforme agli obblighi del Paese in materia di diritti umani e di diritto internazionale».

Non è andata così. Anzi, il decreto ha già sortito i primi effetti: il 17 febbraio la Capitaneria di porto di Ancona ha contestato alla nave Geo Barents dell’organizzazione Medici senza frontiere di non aver diffuso tutte le informazioni del Vdr (Voyage Data Recorder), una sorta di scatola nera che registra gli spostamenti delle imbarcazioni. Geo Barents, che fa base ad Augusta, avrebbe dovuto ripartire il 24 febbraio ma è stata raggiunta da un fermo amministrativo della durata di 20 giorni: non potrà lasciare il porto.

Il braccio di ferro tra Governo Meloni e ong s’inserisce all’interno di un nuovo clima da “emergenza sbarchi” sul quale insiste l’esecutivo: in soli tre mesi, è la tesi del Governo, è stato bloccato l’arrivo di 21 mila migranti da Libia e Tunisia. Piantedosi presenterà questi numeri agli altri ministri dell’Interno dei Paesi membri Ue convocati al Consiglio “Giustizia e affari interni” previsto giovedì 9 e venerdì 10 marzo. In vista di questo appuntamento, ha senso quindi fare ordine e provare a capire meglio quali sono gli attori che si muovono sulla frontiera marittima italiana, e quindi europea, in particolare con la Libia, dove la strategia di contrasto all’immigrazione irregolare segue le stesse linee guida da anni, a prescindere dal colore dei governi.

Pattugliare il Mediterraneo Centrale

Il 2017 è l’anno della firma del memorandum voluto dal governo di Paolo Gentiloni (dicembre 2016 – giugno 2018) e dal ministro dell’Interno Marco Minniti. Il 2 novembre scorso questi accordi sono stati automaticamente rinnovati per tre anni, così come a gennaio sono state rifinanziate le missioni militari in Libia: anche queste, come vedremo, comportano l’addestramento dei militari libici addetti al controllo delle frontiere del mare, nonostante le polemiche legate all’ormai ampiamente documentata violazione dei diritti umani che ciò comporta. Detto questo, è utile sapere quanti sono i nostri militari in Libia, cosa fanno e, soprattutto, se riescono davvero a controllare le frontiere. Spoiler: le frontiere, siano marittime o terrestri, non sono controllabili. Per diverse ragioni.

In questo momento l’Italia è presente nell’ex colonia con diverse missioni, sia propriamente italiane che sotto il cappello europeo o della bandiera delle Nazioni Unite. Dopo cinque anni, il 31 marzo 2020, si è conclusa la missione navale europea EUnavFor Med Sophia, che quell’anno ha visto fino a 270 unità di personale, un mezzo navale e due mezzi aerei impiegati. Il loro obiettivo era, ed è tuttora, monitorare e fermare il traffico e la tratta di esseri umani, anche mettendo fuori uso imbarcazioni e mezzi usati o sospettati di essere usati dai trafficanti in alto mare, in acque territoriali ed interne o nel territorio dello Stato costiero interessato. Tra gli obiettivi secondari troviamo anche il tentativo di frenare il traffico illegale di armi e di petrolio dalla Libia. 

Nel 2020 questa missione è poi stata sostituita da EUnavFor Med Irini. Entrambe sono state guidate dall’Italia, che aveva offerto di fornire comando e base operativa: «Una proposta accettata dagli altri Stati che partecipano alle operazioni – aveva dichiarato in un’intervista del 2020 l’allora comandante della missione, l’ammiraglio di divisione Fabio Agostini – perché ci è stato riconosciuto un ruolo importante di conoscenza e di trasferimento di esperienza dall’Italia a questa operazione».

Nel 2022, l’Italia ha messo a disposizione di Irini 406 unità di personale e un budget di oltre 40,3 milioni di euro. A differenza di Sophia, Irini ha cambiato l’ordine di priorità dei suoi obiettivi: quelli primari diventano far rispettare l’embargo delle armi imposto alle fazioni libiche e impedire l’esportazione illegale di petrolio dalla Libia, mentre passa in secondo piano tutto ciò che è legato ai flussi migratori. A gennaio 2023, secondo il report mensile prodotto dalla European External Action Service, di fatto, il ministero degli Esteri dell’Unione europea, su 8.376 navi cargo sospette, ne sono state indagate 230 «tramite chiamate radio», mentre cinque sono state abbordate dai militari europei, con il consenso dei comandati, su 425 raggiunte. I porti e i terminal petroliferi tenuti sotto osservazione sono stati 16. Dal 2020, le ispezioni condotte da Irini sono state circa 25 e sono stati tre i carichi trovati ritenuti in violazione dell’embargo

A fine novembre 2022, la Turchia ha denunciato le autorità europee di aver violato «le leggi marittime internazionali» a seguito dell’ispezione di una nave battente la sua bandiera. A ottobre 2022, tuttavia, Irini aveva bloccato un’altra nave turca, la Meerdijk, che aveva a bordo veicoli militari.

Armi ed energia: la presenza turca in Libia

Dall’ottobre 2022, la Turchia ha siglato un accordo triennale con il Governo di unità nazionale (Gun), la forza politica riconosciuta dalle Nazioni Unite che governa a Tripoli. Il patto concede l’esplorazione e lo sfruttamento degli idrocarburi nelle acque libiche e istituisce una zona economica esclusiva libica nel mar Mediterraneo. Questo patto ha provocato nuove tensioni nel Mediterraneo orientale, dove Egitto e Grecia sono sempre più insediate dalle mire espansionistiche di Ankara. L’indotto energetico ricavato sarà trasportato in Turchia tramite gasdotti ed oleodotti già esistenti o di prossima costruzione.

L’accordo rappresenta il ringraziamento del governo di Abdul Hamid Dabeiba per il supporto ricevuto dalla Turchia durante gli scontri di agosto 2022 con le forze fedeli a Fathi Bashaga, il rivale sostenuto dal governo di Tobruk, nella Libia dell’Est, che alla fine è uscito sconfitto. Nell’ultimo report del gruppo di esperti delle Nazioni Unite, datato maggio 2022, già si indicava come la Turchia fosse attiva nella formazione militare dei libici e come fosse stata protagonista di violazioni dell’embargo all’esportazione di armamenti in Libia. Le ispezioni di Irini hanno confermato il coinvolgimento di Ankara, accrescendo ulteriormente le tensioni con Onu e Unione europea.

Dai dati pubblicati dal Consiglio europeo, Sophia ha condotto all’arresto di 143 presunti trafficanti, alla distruzione di 545 navi e alla formazione di 477 guardacoste libici. Tuttavia è stata ritenuta da alcuni Paesi membri non meglio identificati un “fattore d’attrazione” per i migranti, ricorda l’Alto rappresentante agli affari esteri dell’Unione europea Josep Borrell nel discorso per l’estensione del mandato di Irini. Accuse che in quell’occasione Borrell ha rimandato al mittente, perché prive di fondamento. Eppure il timore che la missione sia un incentivo alle partenze è molto presente nei documenti europei.

Il Comitato politico e di sicurezza, ovvero l’organismo composto dagli ambasciatori degli Stati membri con base a Bruxelles presieduto dai rappresentanti del servizio europeo per l’azione esterna, nel documento con cui sigla la proroga della missione fino al 31 marzo 2023 scrive che Irini va riconfermata ogni quattro mesi «a meno che lo schieramento dei mezzi marittimi dell’operazione non produca sulla migrazione un effetto di attrazione». Per evitare ogni rischio, l’obiettivo dei Paesi membri è che siano i libici stessi a gestire gli interventi. Per questo Irini è impegnata anche nella formazione di guardacoste e militari della marina di Tripoli.

Mare sicuro. Ma per chi?

Oltre a Irini, l’Italia è impegnata anche in un’altra missione di pattugliamento dei mari solcati dai migranti. Il Dispositivo aeronavale nazionale approntato per la sorveglianza e la sicurezza dei confini nazionali nell’area del Mediterraneo centrale, noto come Mare Sicuro, è una missione che dal 2015 ha lo scopo di «prevenire e contrastare il terrorismo», di sorvegliare e proteggere le piattaforme petrolifere collocate nelle acque internazionali e le unità navali nazionali impegnate in operazioni di ricerca e soccorso, e di contrastare i traffici illeciti. Dal 2017 contribuisce all’attività di addestramento dei militari libici anche con una missione bilaterale di supporto della Marina libica. Una delle navi impegnate in questa missione è ormeggiata ciclicamente al porto di Tripoli, dove svolge compiti di supporto alla marina militare libica anche nell’ambito del progetto europeo Support to Integrated Border and Migration Management in Libya (Sibmmil).

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A inizio 2022, Mare Sicuro è stata prorogata e incrementata (l’unica ad esserlo tra le missioni che operano in Libia) sia nel personale, 774 militari, sia nel costo, 95,4 milioni euro. Ad agosto, l’operazione ha cambiato nome in Mediterraneo Sicuro e la porzione di mare da pattugliare è stato aumentata di circa dodici volte: l’area coperta passa infatti da 160 mila a due milioni di chilometri quadrati circa. Stessi mezzi e stessi obiettivi per una missione che non si occupa solo più della Libia ma anche di diverse crisi come quella tra Grecia e Turchia, sul controllo delle aree energetiche e sulle isole.

Il corridoio del Mediterraneo centrale, per altro, resta caldo non solo per gli sbarchi: a febbraio, l’Ansa riporta che quattro pescherecci hanno rischiato di essere sequestrati da una motovedetta libica a 80 miglia da Tripoli. Per evitare il sequestro è dovuta intervenire la nave militare San Marco.

Gli stivali sul terreno in Libia

L’Italia partecipa con altre missioni alla formazione e all’assistenza delle sue guardie di frontiera, anche attraverso operazioni che apparentemente si occupano di tutt’altro. Nel 2018 l’operazione Ippocrate, nata per curare le forze libiche che combattevano l’Isis a Sirte, è stata accorpata alla missione MIASIT, Missione bilaterale di assistenza e supporto in Libia, (400 unità di personale, 69 mezzi navali, due mezzi aerei, finanziata con 40.218.658 euro di cui 17.000.000 esigibili nel 2023). Quest’ultima, anche se predisposta per prestare assistenza sanitaria (nel corso della missione sono state effettuate oltre 25 mila visite ambulatoriali/specialistiche presso l’ospedale civile e il Field Hospital di Misurata) e organizzare corsi di sminamento, dal 2018 supporta la Guardia costiera libica, ripristinando i mezzi aerei e gli aeroporti, compiti che originariamente appartenevano al dispositivo aeronavale nazionale Mare Sicuro. Compiti simili anche per il personale del Corpo della Guardia di finanza, che nel decreto Missioni, oltre ad essere addetti all’addestramento della Guardia costiera libica, devono «fronteggiare il fenomeno dell’immigrazione clandestina e della tratta di esseri umani».

L’altra faccia della medaglia

I numeri delle missioni che supportano la cosiddetta Guardia costiera libica vanno letti sempre insieme a quelli delle persone che questa organizzazione ha il compito di fermare: migranti di tante nazionalità diverse, ma anche gli stessi cittadini libici, se si considera che, in un Paese di sette milioni di abitanti, l’Onu stima che almeno 800 mila necessitano di assistenza umanitaria. Le sofferenze di queste persone sono l’altra faccia della medaglia delle missioni che abbiamo descritto.

Secondo la ong Mediterranea, dal 2017 all’11 ottobre 2022 sono state 99.630 le donne, gli uomini e i bambini intercettati in mare e riportati in Libia, verso abusi e violenze. Ad attendere queste persone nel Paese africano, infatti, nella maggior parte dei casi, ci sono campi di detenzione dove per mesi, se non per anni, vengono picchiate e torturate, finché qualcuno non paga il loro riscatto.

E poi c’è chi, invece, non viene salvato, nemmeno dalla Guardia costiera libica. A metà febbraio, un barcone partito da Qasr Al Kayer con a bordo circa 80 persone è naufragato facendo 73 vittime. Secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazione, dall’inizio dell’anno, le morti nel Mediterraneo centrale solo almeno 130.

Foto: Volontari della Croce Rossa e personale della Guardia costiera rimuovono il corpo di uno degli almeno 62 migranti affogati al largo di Crotone il 26 febbraio 2023. Si stima che il barcone rovesciato a causa di una tempesta trasportasse circa 250 persone, 80 delle quali hanno raggiunto la spiaggia a nuoto – Kontrolab/Getty
Editing: Lorenzo Bagnoli, Paolo Riva

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