23 Luglio 2021 | di Lorenzo Bagnoli, Scomodo
«Inostri sogni, le nostre tensioni non hanno bisogno di sponsorizzazioni». Era l’inverno del 1989, un momento in cui le facoltà universitarie sembravano ribollire dello stesso spirito del 1968. «La Pantera siamo noi», gridavano gli studenti del movimento di contestazione della riforma universitaria che portava la firma di Antonio Ruberti, Ministro dell’Università e della Ricerca dei governi di Giulio Andreotti a cavallo degli anni Novanta. A Bologna, il 22 gennaio dell’anno successivo, gli studenti hanno occupato gli uffici del Nono centenario, luogo deputato alla commemorazione dei novecento anni dell’Alma Mater Studiorum bolognese, l’UniBo. Sono state occupate anche diverse facoltà. Sembrava che il vento della contestazione non dovesse smettere di soffiare. La riforma Ruberti era detta la Legge dell’autonomia: prevedeva per ogni ateneo la possibilità di gestire in modo indipendente statuti e finanze. È da allora che sono possibili le sponsorizzazioni private, meccanismo sempre più diffuso per sostenere la ricerca pubblica.
Decenni dopo quelle contestazioni, l’Università di Bologna ha stretto accordi di partnership con due multinazionali che operano in settori economici molto discussi: Eni e Huawei, colossi l’uno dell’industria petrolifera e l’altro nelle telecomunicazioni. Scomodo, la più grande redazione under 25 d’Italia, ha ottenuto gli accordi con l’ateneo attraverso delle richieste di accesso agli atti. Insieme a IrpiMedia, ha sottoposto i documenti a docenti ed esperti, per capire in che modo le sponsorizzazioni possono rappresentare una minaccia per la libertà di ricerca. L’ufficio stampa dell’università di Bologna non ha risposto alla nostra richiesta di commento.
Trent’anni fa – tra spaccature interne, accuse di estremismo e forte opposizione alle istanze controriformiste del rettorato e di altri gruppi politici universitari favorevoli alla Legge dell’autonomia – a Bologna (come nel resto d’Italia) l’esperienza del movimento Pantera si è esaurita in pochi mesi. Oggi chi mette in dubbio le sponsorizzazioni dei privati, come la professoressa Margherita Venturi, riporta che molti, in università, pensano che senza «non potremmo fare ricerca».
Informazioni confidenziali
È stata nel 2017 la prima firma dell’accordo quadro triennale «sui temi dell’energia e dell’ambiente» tra Eni e UniBo. L’azienda petrolifera può prorogarlo fino al 2022, vale 5 milioni di euro e prevede l’attivazione di corsi, master universitari e il coordinamento di alcuni dottorati di ricerca. Dal 2019, tra i corsi finanziati da Eni c’è una laurea magistrale internazionale in Offshore Engineering, al campus Ravenna.
L’accordo quadro tra Eni e l’Università di Bologna per le attività di ricerca
L’articolo 7 dell’accordo s’intitola Riservatezza e il punto 7.5 recita: «UniBo potrà utilizzare, nei limiti consentiti dalla legge e a titolo gratuito, le informazioni e/o i risultati riguardanti le ricerche ad esso affidatele per pubblicazioni a scopo scientifico». Si precisa però che, nel caso volesse farlo, «UniBo dovrà richiedere ed ottenere da Eni autorizzazione preventiva per iscritto». Segue una parte omissata e di seguito: «Se Eni si oppone alla pubblicazione, Eni è legittimata a modificare il documento oggetto di diffusione, eliminando ciò che ritiene possa costituire informazione confidenziale di sua proprietà, ma non potrà modificare i contenuti e le conclusioni scientifiche oggetto della richiesta di pubblicazione».
Secondo Luca Saltalamacchia, avvocato di diritto civile impegnato in diverse cause ambientaliste, anche contro Eni, si tratta di una «cessione di “sovranità intellettuale”» da parte dell’Università nei confronti di un privato. L’omissis impedisce anche di conoscere per quanto duri questa clausola di riservatezza: «Se ci fosse scritto cinquant’anni? – si domanda Saltalamacchia, – Allora sarebbe davvero come mettere una sorta di “bavaglio” all’università».
L’università con i «finanziamenti fossili»
La presenza di Eni ha spaccato il corpo docente, secondo quanto ha potuto ricostruire Scomodo dalle voci dei professori. Una parte minoritaria ha firmato una petizione promossa da alcuni studenti in cui si dice che «i finanziamenti fossili non sono compatibili con l’impegno dell’Alma Mater verso un’Università sostenibile». La professoressa Margherita Venturi, Presidente della Divisione di Didattica della Società Chimica Italiana, è tra questi: «Non sono assolutamente d’accordo – afferma – con quei docenti che si schierano a favore dei finanziamenti Eni e poi tengono invece dei corsi in cui si parla di sostenibilità». Sostiene che solo una piccola fetta della comunità universitaria sia davvero informata e resa partecipe delle scelte in materia di finanziamenti mentre gli altri le subiscono.
Seppur le sponsorizzazioni abbiano un valore economico ridotto, sono tante le università con cui Eni ha in essere accordi quadro. Secondo quanto dichiarato dall’azienda durante l’assemblea degli azionisti di quest’anno, «Eni ha corrisposto un totale di €31.250 a INSTM (Consorzio Interuniversitario Nazionale per la Scienza e Tecnologia dei Materiali, ndr), Politecnico di Milano, Università di Milano, Università di Padova, Università di Parma e Università di Pavia» per brevetti sviluppati in partnership con questi atenei dal 2016 a oggi.
L’azienda ha poi precisato di non aver mai ricevuto pagamenti diretti da parte per brevetti sviluppati nell’ambito dei singoli accordi quadro e «non ha ottenuto royalties direttamente riconducibili a singoli brevetti sviluppati in collaborazione con Università».
Sindrome cinese
Nessun pagamento pattuito, nessun progetto specifico, nessuna prelazione su progetti futuri o brevetti. Il protocollo d’intesa firmato con Huawei a gennaio del 2021 (e valido fino a dicembre 2021) richiede a UniBo, in particolare al dipartimento che si occupa di intelligenza artificiale, ALMA-AI, tre «attività»: uno, partecipare alla Open Edge and HPC Initiative (organizzazione non profit di cui fanno parte aziende del settore telecomunicazioni e informatica, tra cui Huawei) allo scopo di promuovere il settore in Europa; due, testare e impiegare software e tecnologie di Huawei «per scopi di ricerca ed educazione»; tre, partecipare insieme a Huawei e i suoi partner al programma di finanziamento europeo per attività di ricerca Horizon Europe, il programma quadro di finanziamento alla ricerca dell’Unione 2021-2027.
Al punto 4.4 si aggiunge che se l’università volesse condurre attività simili con competitor di Huawei dovrebbe chiedere esplicito consenso all’azienda cinese. In pratica, dal punto di vista di Huawei, la collaborazione è finalizzata ad accedere a bandi e progetti di ricerca europei con la sponsorship esclusiva di una prestigiosa università italiana. L’azienda in Occidente è spesso accusata di essere sotto il controllo del partito comunista cinese, nonostante le smentite.
Il Memorandum of Understanding tra Huawei e l’Università di Bologna
Oltre al bando europeo Horizon 2020, tra le altre gare a cui partecipare Huawei cita come esempi GAIA-X, un progetto nato dalla collaborazione tra undici aziende che si occupano di cloud e protezione dati francesi e undici tedesche per costituire un’infrastruttura digitale sicura per l’Europa. Tra le parole chiave dell’iniziativa c’è «sovranità digitale», ma il club è già frequentato da aziende che stanno fuori dai confini dell’Unione europea e ha aperto le porte a università, aziende pubbliche e startup. Da marzo Huawei è dentro attraverso la sua divisione tedesca. Altro consorzio a cui Huawei aspira ad accedere attraverso UniBo è AI4EU, iniziativa continentale a sostegno della promozione dell’intelligenza artificiale.
Tra gli altri obiettivi della cooperazione nell’accordo sono inclusi «lo sviluppo congiunto di un ecosistema aperto di industria AI in Italia» e «condurre analisi, test e validazioni della preparazione delle tecnologie AI in diversi ambiti, in particolare nel settore sanitario e manifatturiero».
I legami di Huawei con il governo di Pechino
Huawei, da visura camerale, è controllata da una cooperativa di dipendenti che secondo l’azienda non ha alcun legame con il governo cinese. Come funzioni questa cooperativa, però, non è chiaro: nel 2019 il New York Times, in un articolo che cita due ricercatori contestati dall’azienda, spiegava che gli azionisti di fatto non hanno alcun potere. Nel 2020 un’inchiesta della Camera dei Comuni inglese, riportata da Bbc, ha concluso che esiste «collusione» tra il governo cinese e Huawei. Una delle prove prodotte è il flusso di finanziamenti dalle casse statali all’azienda: 75 miliardi di dollari in tre anni. A luglio 2020 il governo britannico aveva escluso Huawei dalla gara d’appalto per l’infrastruttura 5G.
Dal lato UniBo, l’interesse certo è disporre delle tecnologie della società cinese negli ambiti della ricerca. In più, un possibile ulteriore sviluppo potrebbe portare incassi da progetti di ricerca e sviluppo a cui si è lavorato insieme. Poi, chissà, in futuro si potrebbe costruire qualcos’altro. L’esempio di come può andare quest’avventura è citato tra i partner a cui Huawei può affidare progetti previsti nell’ambito della cooperazione con UniBo. Si chiama Evidence Srl, azienda di Pisa controllata al 100% da Huawei nata come spin-off di un laboratorio della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. «Il bilancio chiuso al 31/12/2020 evidenzia un utile di Euro 4.666.469», si legge nell’ultima rendicontazione dell’azienda. L’anno prima era stato di meno di 10 mila euro. Nel 2020 Evidence srl ha anche maturato crediti verso la controllante Huawei Technologies Co Ltd «relativi ad addebiti di costi di ricerca e sviluppo» pari a 2,9 milioni di euro.