#InvisibleWorkers

Il sapore amaro del kiwi
Dalla provincia di Latina arrivano i kiwi Zespri, esportati in tutta Europa. I lavoratori indiani impiegati nella raccolta sono sottopagati e senza tutele. Le aziende locali rimandano ogni responsabilità a enti terzi di controllo
01 Marzo 2023

Francesca Cicculli
Charlotte Aagaard
Kusum Arora
Stefania Prandi

Con voce bassa, spalle incurvate e occhi lucidi, Gurjinder Singh ripercorre i quindici anni di sfruttamento nei campi di kiwi in provincia di Latina (Lazio). Seduto in un bar nella piazza centrale di Cisterna di Latina, ha appena finito di lavorare. A settembre la luce ancora calda delle cinque del pomeriggio si riflette sul pavimento chiaro. Gurjinder si sfrega le mani come se cercasse di togliere le macchie scure. «Uso anche il detersivo, le strofino con la spazzola, ma i segni restano» dice, mostrando i palmi neri segnati dai calli.

Ha cinquant’anni e ha lavorato in diverse aziende della zona, guadagnando tra i cinque e i sei euro l’ora. In quelle più piccole non ha mai avuto un contratto e riceveva la paga a mano, in contanti, a fine giornata. Di recente, ha lavorato in un’impresa dove erano impiegati oltre settanta lavoratori, controllati a gruppi dai capisquadra. A comandarlo una supervisora che lo sgridava, urlando, non appena si fermava per qualche istante. «Mi insultava e minacciava di picchiarmi».

Il suo non è un caso isolato.

Lo sfruttamento dietro la filiera dei kiwi

L’Italia, con 320 mila tonnellate esportate nel 2021 in cinquanta Paesi, per un fatturato di oltre 400 milioni di euro, è il principale produttore europeo di kiwi e il terzo al mondo dopo Cina e Nuova Zelanda. La prima regione del nostro Paese dove si coltiva la “bacca verde” è il Lazio. Globalmente, un terzo di tutti i kiwi commerciati nella grande distribuzione viene dalla multinazionale Zespri. Nata in Nuova Zelanda, oggi è leader nel settore e presente in sei Paesi. Dalla provincia di Latina, arriva una buona parte della frutta venduta con il marchio Zespri (il 10,5 per cento). Un mercato gigantesco, che solo in Italia conta quasi tremila ettari di campi, centinaia di produttori e migliaia di braccianti.

Difficile conoscere il numero esatto degli operai agricoli impiegati nella raccolta perché «spesso si lavora in nero», spiega Laura Hardeep Kaur, sindacalista della Flai Cgil di Latina. Nei filari che, da lontano, sembrano vigneti, è presente «una percentuale significativa di indiani» provenienti dal Punjab, di religione sikh, sostiene il sindacalista Giorgio Carra, segretario generale Uila Uil.

Secondo i dati Inps, i braccianti indiani in provincia di Latina sono quasi 9.500, con più di un milione di giornate registrate nei contratti a tempo determinato. Marco Omizzolo, docente di Sociopolitologia delle migrazioni all’Università La Sapienza di Roma, sotto protezione a causa delle minacce ricevute per il suo impegno di contrasto al caporalato nell’Agro Pontino, calcola che nell’area ci siano circa 30 mila persone appartenenti alla comunità sikh. Nella stima sono inclusi i senza permesso di soggiorno, i residenti in altre province e quanti, arrivati di recente, sfuggono ancora alle statistiche.

L’Italia è il principale produttore europeo di kiwi e il terzo al mondo dopo Cina e Nuova Zelanda. La prima regione italiana dove si coltivano i kiwi è il Lazio – Foto: Stefania Prandi

Dalle oltre cinquanta interviste realizzate per questa inchiesta in Italia e in India, tra maggio e dicembre 2022, a lavoratori, sindacalisti, ricercatori, famiglie indiane, agenti di viaggio del Punjab e intermediari, risultano condizioni di lavoro indegne. Non solo paghe da fame, contratti irregolari e la costante minaccia della violenza. C’è anche il ricatto senza fine legato al permesso di soggiorno, impossibile da rinnovare senza un’azienda che provveda, almeno formalmente, alla stipula di un contratto di assunzione.

I salari non superano mai sette euro l’ora, e tendenzialmente sono più bassi, con una media tra i cinque e i sei euro. Ben al di sotto dei circa nove euro lordi all’ora stabiliti dal contratto provinciale come paga base di un operaio agricolo. Frequente lo stratagemma del cosiddetto “lavoro grigio”, cioè il pagamento del salario in parte regolare e in parte in nero: sistema molto diffuso fra gli imprenditori della zona per versare meno contributi e tasse, mantenendo però una regolarità formale che rende più difficili i controlli. Inoltre, ricorrono i licenziamenti immotivati, l’assenza di servizi igienici adeguati, le pause troppo brevi e la mancanza di dispositivi di protezione obbligatori, come guanti e mascherine.

L’impresa dove Gurjinder Singh ha lavorato per tre anni vende i kiwi a Zespri. Nei campi, la caporale lo ha filmato per tre volte con il cellulare mentre si fermava per bere o perché gli era entrato qualcosa negli occhi. I video servivano – almeno così minacciava la supervisora – come “prova” della sua scarsa efficienza e venivano consegnati al capo dell’impresa: un “avvertimento” usato anche con altri lavoratori, per non retribuire le giornate.

Alla domanda sul perché non se ne sia andato via subito, Gurjinder Singh risponde prendendosi il viso tra le mani e soffocando i singhiozzi. «Non avevo scelta, dovevo guadagnare per i miei quattro figli e mia moglie. Sono rimasti in India, non li vedo da tredici anni».

Le storie di violenze da parte dei capi e caporali, d’altronde, sono frequenti e ben note nella comunità sikh della zona. Vere e proprie spedizioni punitive verso i braccianti che hanno provato a ribellarsi al sistema di sfruttamento: alcuni speronati da auto mentre raggiungevano i campi in bicicletta; altri derubati e malmenati. E c’è chi è stato minacciato davanti alla propria abitazione con fucili a pompa.

«Eravamo poveri quando sono partito: per arrivare qui ho dato 14 mila euro a un trafficante. Sono dovuto passare dalla Russia, camminando a piedi nella neve per chilometri e poi caricato sui camion». Gurjinder Singh si esprime quasi soltanto in punjabi. «Non impariamo mai bene l’italiano, siamo tutti stranieri nei campi». Se un indiano parla italiano, rischia di venire mandato via dai capisquadra perché è considerato più difficile da controllare, dato che potrebbe stabilire un rapporto diretto col capo dell’azienda.

I kiwi, dopo essere stati raccolti dalle piante, vengono messi in grandi casse colorate. Dai campi vengono quindi portati nei grandi magazzini delle Organizzazioni di produzione e poi negli stabilimenti di proprietà delle cooperative – Foto: Stefania Prandi

La filiera dei kiwi: i responsabili dello sfruttamento

Attraversare la provincia di Latina, da settembre a novembre, vuol dire immergersi in un paesaggio di campi di kiwi e casse colorate, chiamate con il linguaggio tecnico bins (bidoni in inglese, ndr). Si trovano tra i filari, per essere riempite dalle squadre di braccianti. A ogni colore di bin corrisponde una Organizzazione di produttori (Op), cooperative da cui passano i kiwi destinati al mercato estero. Tredici di queste hanno la licenza per vendere a Zespri.

La multinazionale è nota soprattutto per la varietà a polpa gialla, la “SunGold”, la più piantata nell’Agro Pontino (69% contro il 31% della varietà verde). Zespri è proprietaria dell’omonimo brevetto internazionale su questa varietà e concede la coltivazione delle sue piante unicamente con la stipula di un contratto. Stabilisce quindi il numero di ettari e licenze per la coltivazione, distribuendole a consorzi o cooperative che, a loro volta, cercano gli agricoltori “migliori”. I produttori non pagano la licenza, ma sono tenuti a diventare soci delle cooperative che sostengono i costi del packaging.

Dai campi i kiwi vengono portati nei grandi magazzini delle Organizzazioni di produzione e poi negli stabilimenti di proprietà delle cooperative. Lì vengono impacchettati e diventano kiwi Zespri: l’apposizione del bollino della multinazionale segna l’avvio della commercializzazione in tutta Europa. La catena è sorprendentemente complessa, Marco Omizzolo la descrive come una sorta di «melassa imprenditoriale», dove c’è chi produce e chi vende a un altro produttore che a sua volta rivende a un marchio.

Il sistema però, chiaramente funziona: tra il 2021 e il 2022, Zespri ha fatturato due miliardi e mezzo di euro, con oltre 200 milioni di cassette di kiwi vendute in tutto il mondo. A favorire l’espansione nel Lazio è stato il clima, quasi identico a quello neozelandese nonostante il riscaldamento globale. La provincia di Latina, infatti, si trova al riparo dalle gelate precoci, è fertile e sufficientemente umida. Ma soprattutto, mentre in Nuova Zelanda è primavera, nel nostro emisfero è autunno, e viceversa: per la multinazionale questo significa produzione e profitti tutto l’anno.
Nel 2019 erano 2.700 gli ettari di kiwi SunGold nel nostro Paese e l’obiettivo, ha annunciato l’azienda, è arrivare ad acquistarne 5.400 entro il 2025.

Zespri non solo distribuisce le licenze, ma fissa anche le caratteristiche organolettiche dei kiwi: peso, colore, sostanza secca — zuccheri, carboidrati e amido — e durezza. Nel periodo della maturazione, le Organizzazioni di produzione prelevano alcuni campioni di kiwi dalle aziende a loro afferenti, li fanno analizzare, controllano se il frutto rispetta i criteri e decidono quando il produttore può iniziare a raccogliere. Il prelievo riguarda ogni filare: in una singola ditta, quindi, la raccolta può cominciare con tempi diversi. Le regole sono ferree, come riferiscono alcuni produttori: sono necessari guanti di cotone e manovre delicate e precise; indispensabili a non rovinare il frutto quando lo si mette nelle cassette.

La cura riservata al prodotto tuttavia contrasta con le condizioni riferite dagli operai agricoli. «Vogliono sempre che si lavori velocemente, gridano di sbrigarsi. Quando danno i soldi però, tolgono sempre alcune ore dalla busta paga e non pagano tutti i giorni di lavoro», riferisce Amandeep Singh, impiegato, in passato, a Cisterna di Latina in un consorzio produttore diretto di kiwi per Zespri. Da vent’anni in Italia, racconta di essere stato trattato sempre male. Nel consorzio di kiwi ha accettato stipendi anche da 4,50 euro l’ora pur di avere un contratto e poter rinnovare il permesso di soggiorno. Le giornate potevano durare dieci ore, per sette giorni a settimana, ben oltre i limiti imposti dal contratto provinciale.

«In busta paga scrivevano 600–700 euro e mi davano 200–300 euro in nero, togliendo dalle tre alle sette ore di lavoro», spiega. Una pratica che non riguardava solo quel posto: «Tutti i padroni fanno lo stesso», sostiene, abbassando lo sguardo per poi allontanarsi verso la cucina del gurdwara, il tempio sikh di Velletri. Nel suo curriculum c’è un’altra delle organizzazioni di produttori con licenza Zespri per cui ha lavorato due anni fa per cinque euro l’ora.

Nel tempio di Velletri il granthi, il ministro del culto, legge il “Libro sacro” con i precetti tramandati dai dieci guru del Sikhismo ai fedeli – Foto: Stefania Prandi

Nei templi, sparsi in tutta la provincia e mantenuti con le offerte dei fedeli, la comunità sikh si incontra la domenica. Molti gurdwara sono ricavati da capannoni dismessi, adibiti successivamente a luoghi di culto. Quello di Velletri è un unico stanzone dalle pareti rosa, con il pavimento ricoperto di tappeti e carta colorata che scende dal soffitto. L’altare, in fondo, ricorda un letto a baldacchino: da lì il ministro di culto – il granthi – legge il “Libro sacro” con scritti i precetti tramandati dai dieci guru del Sikhismo ai fedeli, una serie di azioni positive che ognuno deve compiere per progredire nell’evoluzione personale.

Al tempio si preparano pasti a tutte le ore per i fedeli e per chiunque ne abbia bisogno. Si mangia insieme, seduti sul pavimento di una grande sala con muri fatti di pannelli verdi di plastica. I più giovani passano a distribuire cibo e bevande. «Ho vissuto qui per due anni, senza pagare affitto, cibo né luce, perché non potevo permettermi una casa», racconta Amandeep Singh. «Sono da 20 anni in Italia e ho visto almeno 700 persone nelle mie stesse condizioni».

All’interno della «melassa imprenditoriale», la filiera dei kiwi e la sua tracciabilità si inabissano: «Quando ci sono tanti produttori che portano il raccolto alle grandi aziende, c’è un sistema di controllo sulla qualità, però non si fa molta attenzione a come il piccolo produttore tratti i lavoratori», commenta Giovanni Gioia, segretario generale della Cgil di Frosinone-Latina. Durante la stagione della raccolta, i braccianti aumentano: se nella gran parte dell’anno sono al massimo in quattro a occuparsi della pulitura della pianta, in autunno possono diventare centinaia, a seconda degli ettari a disposizione. Dei loro “padroni” i sikh conoscono a malapena il nome e quasi nessuno sa dire a chi vengano venduti i frutti raccolti. Zespri è un nome ignoto tra i sikh e i magazzini delle cooperative sono molto distanti dai campi. Quando si termina il lavoro in un’azienda, si passa alla successiva, col passaparola di amici.

Paramjit Singh lavora nella stessa ditta nominata da Gurjinder Singh e Amandeep Singh. Inizialmente dice di trovarsi bene, ma appena iniziamo a fare domande racconta della caposquadra: «Mentre lavoriamo ci urla all’orecchio di essere più veloci. Tratta in modo diverso indiani e rumeni: i suoi connazionali stanno vicino al rimorchio dove si caricano i kiwi, così fanno meno fatica». Paramjit Singh lavora otto ore al giorno per 6,50 euro l’ora nel periodo di raccolta, altrimenti la paga è di un euro in meno. «In quest’azienda sono passate più di mille persone che, appena hanno potuto, hanno cambiato luogo di lavoro», ricorda il mediatore, mentre traduce Paramjit Singh.

Mandeep Singh conferma le testimonianze di Gurjinder Singh, Paramjit Singh e Amandeep Singh. La caposquadra «era cattiva, urlava parolacce» e lui si vergogna di ripeterle. Per Mandeep Singh sono stati anni di vessazioni, durati fino a quando è stato licenziato. La sua “colpa” sarebbe stata quella di aver lavorato per altri – senza contratto – mentre lì la raccolta era finita.

L’azienda in questione, messa al corrente delle irregolarità raccontate dai suoi lavoratori, ha rigettato le accuse: «Sono tutti in perfetta regola così come previsto dalle norme, ma sono soprattutto rispettati», ha risposto per email. Sostiene di collaborare con i sindacati e di sottoporsi con apertura e disponibilità alle verifiche degli organi di controllo.

Il ruolo della distribuzione

Le catene di supermercati che vendono i kiwi Zespri provenienti dal Lazio in Paesi come la Danimarca respingono anch’esse ogni responsabilità. Tracciando la filiera, abbiamo scoperto che in Danimarca i kiwi Zespri vengono commercializzati da Lidl, Spar e Rema1000.

Contattata per un confronto, Lidl Danimarca si è rifiutata di elencare i grossisti di kiwi da cui si rifornisce. Ma nell’elenco dei fornitori del 2022, disponibile sul sito web della catena tedesca, figura anche Zespri. Tuttavia, Lidl spiega che tutti i suoi produttori hanno il certificato Grasp: «Come regola generale, Lidl ha una politica di tolleranza zero nei confronti di qualsiasi tipo di violazione dei diritti umani nelle nostre catene di approvvigionamento», scrive, dicendo di aderire anche ai Principi guida delle Nazioni Unite sui diritti umani e le imprese (UNGP). La catena di supermercati aggiunge che è possibile segnalare anonimamente eventuali violazioni delle leggi e dei diritti da parte dei partner tramite il portale online BKMS.

Anche la norvegese Rema1000 compra i kiwi italiani. «Il nostro fornitore (Zespri, ndr) non ritiene di certo che vi siano violazioni nella sua catena» e «poiché i nostri fornitori sono certificati GRASP, abbiamo anche fiducia che le condizioni di lavoro siano idonee», scrive. Tuttavia dichiara di considerare «l’Italia come un Paese a medio rischio in termini di violazioni dei diritti umani e dei diritti del lavoro».

La catena Spar non ha invece risposto alle nostre domande.

Fino allo scorso maggio anche Aldi comprava kiwi provenienti dal Lazio ma poi ha smesso per motivi non specificati. Raggiunta per un confronto ha dichiarato di non conoscere le condizioni dei braccianti italiani ma, considerate le condizioni dei lavoratori emerse dall’inchiesta, non accetterà più i kiwi dell’Agro Pontino.

Interpellata sulle situazioni di irregolarità riscontrate nel corso di quest’inchiesta nelle aziende con la licenza per produrre i suoi kiwi, Zespri ha risposto: «Mentre la stragrande maggioranza dei datori di lavoro dell’industria dei kiwi si prende cura dei propri dipendenti, una piccola minoranza potrebbe non farlo. Qualsiasi sfruttamento dei lavoratori è inaccettabile e ci impegniamo a chiedere conto a chi è coinvolto e a continuare a migliorare i nostri sistemi di conformità per aiutarci a farlo. Prendiamo estremamente sul serio le accuse e abbiamo avviato un’indagine in merito, anche per capire come sostenere al meglio i lavoratori coinvolti». L’azienda collabora «con più di 1.200 coltivatori in Italia ai quali è richiesto il certificato Gobal Gap Grasp (Global Risk Assessment On Social Practice)».

Ogni coltivatore viene valutato annualmente da parte dell’organismo di certificazione indipendente. I fornitori di Zespri, che provvedono all’imballaggio del prodotto, sono registrati a Sedex, «una delle principali organizzazioni di commercio etico focalizzata sul miglioramento delle condizioni di lavoro nelle catene di approvvigionamento globali», specifica. Attraverso Sedex, i fornitori italiani di kiwi SunGold vengono controllati esternamente da un organismo di certificazione terzo e confermano annualmente la loro accettazione del Codice di condotta dei fornitori Zespri.

Zespri sostiene di aver contattato sia i propri fornitori che i certificatori «per metterli al corrente delle presunte pratiche scorrette» riportate in questa inchiesta e «cercando di ottenere maggiori informazioni» a riguardo.

#InvisibleWorkers

Le madri lontane

Le migliaia di braccianti rumene e bulgare che lavorano nei campi di Italia, Spagna e Germania devono separarsi dai figli per mesi. La lontananza e la “maternità delegata” segnano i figli per sempre

Dal Punjab a Latina, pagare per diventare schiavo

Come, attraverso i debiti, una rete di intermediari che collega l’India all’agro pontino tiene sotto ricatto migliaia di lavoratori indiani, sfruttati in uno dei maggiori distretti ortofrutticoli d’Europa

Aggiungono che invitano «chiunque sia in possesso di informazioni relative a pratiche illegali» a contattare l’azienda tramite «la linea telefonica riservata EthicsPoint – Zespri International». La multinazionale afferma comunque di aver creato una propria «task force per rivedere i programmi di conformità ai regolamenti di Zespri [delle aziende fornitrici] a livello globale e identificare iniziative e/o miglioramenti da introdurre nella prima metà di quest’anno».

Le risposte di Zespri farebbero sperare in un pronto intervento “dall’alto” ad arginare pratiche fin troppo diffuse nell’area, ma c’è un ulteriore tassello che lega la multinazionale all’Agro Pontino. Craig Thompson, direttore di Zespri Group Limited e di Zespri International Limited – che per il suo ruolo ha guadagnato oltre 66 mila euro nel solo 2022 – è azionista proprio di una delle aziende produttrici di kiwi i cui braccianti abbiamo intervistato. Thompson risulta, infatti, socio della società agricola Gik di Cisterna di Latina, di proprietà del consorzio dove Mandeep Singh e Rishi Singh hanno firmato un contratto per lavorare a 6,50 l’ora, senza adeguati dispositivi di sicurezza. Come loro, anche Kamaljit Singh lavora per Gik: «Non ci lasciano fare gruppo, continuano a cambiare le squadre in modo da impedirci di parlare tra di noi».

La Gik è stata contattata per un confronto sulle dichiarazioni dei suoi lavoratori, ma non ha mai fornito risposte.

Zespri non ha commentato la relazione tra Thompson e la società di Cisterna di Latina, ma ha ribadito di prendere molto sul serio tutte le accuse e di aver contattato gli organismi di certificazione indipendenti, esponendo le proprie preoccupazioni relative alla filiera produttiva dei kiwi in Italia.

Mentre la catena di approvvigionamento dei kiwi si allarga – nel 2022 Zespri ha acquistato altri 170 ettari ad Aprilia per produrre kiwi giallo – quella delle responsabilità sembra rotta. Come Zespri, anche le Organizzazioni dei produttori che hanno deciso di rispondere alle domande di IrpiMedia dichiarano di non avere un ruolo nello sfruttamento dei lavoratori. Una di queste sottolinea che il suo obiettivo primario è «commercializzare il prodotto ortofrutticolo prodotto dalle aziende socie e valorizzarlo nel miglior modo possibile», pertanto non ritiene di avere «niente a che vedere con le responsabilità e gli obblighi delle aziende agricole fornitrici».

Nonostante questo, sottolinea che le «aziende agricole fornitrici siglano un accordo e garantiscono il rispetto dei requisiti etico-sociali basati sulle normative vigenti e codici di condotta internazionali». Il consorzio in questione sostiene di eseguire verifiche ispettive a campione. In caso di violazioni, il rapporto di fornitura verrebbe interrotto, ci dicono.

Durante la stagione della raccolta, i braccianti aumentano: se nella gran parte dell’anno sono al massimo in quattro a occuparsi della pulitura della pianta, in autunno possono diventare centinaia – Foto: Stefania Prandi

La tratta dei Sikh dal Punjab all’Italia: il ruolo delle aziende e delle istituzioni italiane

Nei templi sikh di Velletri, Cisterna e Pontinia, la parola “debito” viene sussurata con ritrosia nel corso delle interviste. Qualcuno, dopo averla pronunciata, saluta e va via, altri si trattengono ed entrano nel dettaglio. Per arrivare in Italia hanno pagato fino a 15 mila euro. Somme versate agli intermediari indiani, in Punjab, in vari modi: chiedendo prestiti a conoscenti e parenti oppure vendendo terre, mucche e gioielli di famiglia. Da alcuni il debito contratto viene estinto in tre anni circa.

Il salario mensile di chi fa lavori manuali in Punjab è, in genere, tra gli 80 e i 120 euro. Per questo l’Italia, dove un bracciante indiano prende, in media, 863 euro al mese, rappresenta una meta ambita. Con i soldi risparmiati e mandati in India si può sistemare la propria casa oppure comprarne una più grande e, in certi casi, far studiare i figli.

I sacrifici non sono solo la lunga lontananza dalla famiglia, la condivisione dell’appartamento, a volte di una sola stanza, con altri quattro o cinque connazionali, e il risparmio estremo sul cibo quotidiano. A pesare sulle condizioni di vita ci possono essere le buste paga grigie che rendono difficile ottenere o mantenere il permesso di soggiorno e quindi essere regolari sul territorio italiano. «Alcuni padroni retribuiscono formalmente attraverso un bonifico sul conto corrente ma, allo stesso tempo, obbligano il lavoratore ad andare al bancomat a prelevare 200-300 euro per restituirglieli brevi mano» sottolinea Omizzolo, inquadrando le “abitudini” nei campi dell’Agro Pontino. «Alcuni commercialisti fanno arrivare il bracciante direttamente nei loro uffici e lo obbligano a restituire, per esempio, i contributi versati allo Stato dal datore di lavoro».

Secondo il Rapporto illegalità e criminalità nelle filiere agroalimentari e nell’ambiente delle province del Lazio, il caporalato si nasconde «dietro forme pseudo-legali». Il 65% dei lavoratori agricoli in Provincia di Latina con un contratto riceve i contributi per un numero di giornate inferiori a quelle svolte, il 4% resta senza, il 10% non sa se ne usufruirà. Solo il 15% ottiene tutti i contributi dovuti mentre il 14% dichiara di lavorare completamente in nero.

Ranbir Singh non vede la sua famiglia da quattro anni, da quando è arrivato nell’Agro Pontino dopo avere pagato, prima di partire, ottomila euro a un conoscente che li ha recapitati a un indiano della provincia di Latina. In Punjab, dove faceva il meccanico di auto – per poco più di 100 euro al mese – ha lasciato la moglie e un figlio di quattro anni. L’intermediario di Latina si è occupato delle carte per il permesso di soggiorno, ottenuto tramite il Decreto flussi. L’azienda di riferimento produceva kiwi, ma si è trattato soltanto di un contratto fittizio: Ranbir Singh lì non ci ha mai lavorato.

Con il decreto flussi il Governo italiano, ogni anno, stabilisce il numero massimo di cittadini stranieri non comunitari che possono fare ingresso in Italia per lavorare con un contratto. La domanda per un operaio agricolo straniero ancora residente all’estero può essere presentata da un datore di lavoro italiano o straniero regolarmente soggiornante. I sindacalisti delle tre sigle confederali Flai Cigl, Fai Cisl e Uila Uil sostengono che il sistema del Decreto flussi andrebbe riformato. Giorgio Carra, segretario provinciale della Uila Uil, non usa mezzi termini: «Si presta al gioco dell’illegalità di faccendieri pagati per poter procurare ai lavoratori il contratto e l’alloggio».

Anche Harmandeep Singh è arrivato in Italia comprando, a 10 mila euro, un visto con un permesso di soggiorno per lavoro stagionale da un agente indiano. «Nel 2011 mi sono laureato in Tecnologia Informatica in India. Ho esperienza nel campo dell’hardware. La maggior parte della popolazione del mio Paese ha talento, ma lì essere bravi non ha valore. Per questo motivo ho deciso di partire», spiega. «Dall’aeroporto in India sono volato direttamente a Roma e poi sono finito a lavorare in Campania. Guadagnavo 20 euro al giorno per otto o nove ore di lavoro. Sono rimasto lì cinque mesi e poi me ne sono andato perché in provincia di Latina le paghe erano di un euro e mezzo in più all’ora».

Harmandeep Singh si è trasferito in Lazio e ha cercato un’altra azienda che gli convertisse il permesso di soggiorno stagionale in subordinato, ma non l’ha trovata. È rimasto per tre anni irregolare fino a quando è riuscito di nuovo a ottenere un permesso di soggiorno stagionale con il Decreto flussi, nonostante fosse già in Italia. Una parte delle quote dei flussi, infatti, viene usata per regolarizzare i lavoratori stranieri presenti sul territorio italiano, ma con un visto scaduto. Adesso che finalmente ha i documenti in regola, Harmandeep sogna di poter far valere la sua laurea anche in Italia, abbandonando i campi. «Se avessi l’opportunità di guadagnare di più aprirei un’attività nell’ambito informatico perché ho una buona esperienza nel settore».

A Jalhandar e nei dintorni della città ci sono centinaia di agenzie di viaggio che offrono visti per emigrare in Italia e in Europa – Foto: Stefania Prandi

Il sistema dei permessi di lavoro legati al decreto flussi trova riscontro visitando le agenzie di viaggio di Jalhandar, in Punjab. Un’agenzia, in particolare, assicura di avere una lista di sessanta aziende italiane disponibili a fare contratti. Un’altra, invece, al momento non ha contatti con aziende libere e offre altre vie: raggiungere l’Italia attraverso Malta, ad esempio, dove con un visto di lavoro ci si può fermare per pochi mesi e poi spostarsi nel resto della Comunità europea. Ce ne sono che promuovono la Romania come Paese d’arrivo da cui poi muoversi verso l’Italia. Esiste poi la rotta illegale della cosiddetta “donkey route”, intrapresa da più di un bracciante, che prevede, ad esempio, un volo fino al Qatar e poi da lì un viaggio in camion per arrivare in Turchia, risalire verso i Balcani, attraversare l’Ungheria, l’Austria e arrivare in Italia.

Stando a quanto riportato da Amandeep Singh e Mandeep Singh, per rinnovare il permesso di soggiorno in Italia una delle opzioni è ottenere contratti in ditte nelle quali poi non si va a lavorare per davvero. Amandeep Singh ha comprato il contratto da un “padrone” della zona per 600 euro più i contributi che l’imprenditore avrebbe dovuto versare allo Stato se fosse stato davvero assunto. Il contratto era della durata di un mese. Quando è scaduto, per rinnovare il permesso di soggiorno, Amandeep Singh ha dovuto acquistarne un altro da un’azienda diversa. E così per altre due volte. A fare da intermediario tra lui e le imprese c’era un indiano.

Uno sfruttamento generale, Balbir

Balbir Singh è il primo immigrato in Italia ad avere ottenuto il permesso di soggiorno per motivi di giustizia. Non si è sempre occupato della raccolta dei kiwi. Prima Balbir ha lavorato e vissuto in un’azienda agricola della provincia di Latina nella quale doveva occuparsi di badare alle mucche. Le condizioni di lavoro sono degenerate fino a quando ha deciso di denunciare i suoi “padroni” per sfruttamento. Balbir chiede giustizia perché, per sei anni, dal 2012, ha vissuto segregato in una roulotte, a volte guadagnando soltanto cinquanta euro in un mese, come scrive Omizzolo in Per motivi di giustizia (People, 2022). Doveva lavarsi con l’acqua con la quale puliva le mucche e mangiava gli avanzi gettati nel cassonetto dal “padrone”, che gli aveva sequestrato i documenti per non farlo andare via. E poi c’erano le minacce di morte. È riuscito a salvarsi grazie all’intervento delle forze dell’ordine, avvertite da Omizzolo con il supporto di un altro bracciante.

Balbir ha continuato a ribellarsi nel corso degli anni, facendo un esposto anche a un’altra ditta, nella quale ha lavorato dal primo gennaio 2021 al 31 dicembre dello stesso anno come operaio agricolo addetto all’allevamento e alla mungitura di bovini e bufale da latte. Nella denuncia Balbir elenca più di una irregolarità: ore di lavoro in eccesso rispetto a quanto previsto dal contratto collettivo nazionale, anche nei giorni festivi; assenza di giorni di riposo; straordinari non retribuiti; paghe non corrisposte. Nel 2022 Balbir ha iniziato a lavorare con i kiwi.

Sull’ultima azienda in cui è stato per tre mesi afferma: «Non ho niente da ridire sul modo in cui mi hanno trattato, ci davano i guanti e gli stivali, soltanto mancavano gli impermeabili per quando pioveva. Certo, mi pagavano sei euro all’ora quando avrei dovuto prenderne nove. Me ne sono andato perché a ottobre sono tornato in India a trovare la mia famiglia e per il matrimonio di mio figlio».

Le lotte sindacali iniziate nel 2016 hanno portato a un aumento delle paghe orarie ma hanno reso il sistema di sfruttamento più sofisticato (con il coinvolgimento di commercialisti e avvocati) e difficile da smantellare – Foto: Stefania Prandi

Un sistema difficile da smantellare

Le lotte sindacali iniziate nel 2016 hanno portato a un aumento delle paghe orarie – dai 2,50 ai sei euro l’ora – ma, secondo esperti come Omizzolo, hanno reso il sistema di sfruttamento più sofisticato (con il coinvolgimento di commercialisti e avvocati) e difficile da smantellare. I braccianti hanno paura di denunciare. Un timore motivato dalle aggressioni subite da chi ha provato a ribellarsi alle irregolarità, come Gill Singh, colpito alla testa con una spranga e gettato in un fosso dai suoi datori di lavoro nell’estate del 2020, perché aveva richiesto le mascherine.

Giorgio Carra della Uila Uil ha una serie di vertenze aperte sul recupero delle retribuzioni non pagate e sul rispetto del contratto: «Per lo sfruttamento vero e proprio facciamo intervenire la procura e l’ispettorato, soprattutto quando abbiamo il sentore che venga perpetrato da aziende cooperative». Da verifiche di IrpiMedia nel corso dei mesi scorsi, non risultano però denunce o processi a carico dei consorzi agricoli.

I sindacati, comunque, ribadiscono la necessità di evitare generalizzazioni: «La provincia di Latina ha tante aziende virtuose capaci di valorizzarne i propri lavoratori», sostiene Islam Kobt, segretario della Fai Cisl, citando la Rete del lavoro agricolo di qualità (tavolo aperto all’interno del progetto Laborat della Fislas, l’ente bilaterale che riunisce Confagricoltura, Coldiretti, Cia, Fai Cisl, Flai Cgil e Uila Uil). La Rete è composta dalle aziende ligie alle norme ed esenti da segnalazioni per sfruttamento. Grazie ai comportamenti corretti, hanno diritto ad alcuni vantaggi, inclusi i microcrediti.

Senza volere generalizzare la situazione di un territorio complesso, va rilevato che nel solo mese di ottobre 2022, in quattro giorni, due operai agricoli di nemmeno venticinque anni si sono tolti la vita nelle aziende dell’Agro Pontino dove erano impiegati. I suicidi rientrano purtroppo in un microfenomeno che va avanti da diversi anni, rilevato anche da Omizzolo, e dovuto alla disperazione per le terribili condizioni di vita e di lavoro.

Per arginare questo fenomeno, l’associazione Tempi Moderni, di cui fa parte Omizzolo, nel 2020 ha dato vita al progetto Dignità-Joban Singh, dal nome del tredicesimo sikh suicidatosi nella provincia di Latina negli ultimi tre anni. Joban Singh si è tolto la vita dopo avere subito gravi ingiustizie. È entrato in Italia pagando novemila euro a un trafficante indiano, è stato sfruttato in una delle maggiori aziende agricole dell’Agro Pontino e ha subito il rifiuto da parte del padrone italiano alla sua richiesta di emersione dall’irregolarità, prevista dall’articolo 103 del Decreto rilancio (D.L. n. 34/2020). Con il progetto, l’associazione vuole offrire assistenza legale gratuita alle donne e agli uomini sfruttati nell’Agro Pontino. Una via per lottare contro i “padroni” e chi li sostiene e provare a ricostruire la filiera delle responsabilità.

* I nomi dei lavoratori sono stati cambiati per proteggere la loro identità.

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Autori

Francesca Cicculli
Charlotte Aagaard
Kusum Arora
Stefania Prandi

In partnership con

Danwatch
The Wire

Editing

Giulio Rubino

Con il sostegno di

Foto di copertina

Stefania Prandi