#LeManiSullaRipartenza

I progetti del Pnrr sull’idrogeno sono in mano ai big dell’oil&gas
Affiancate nella ricerca sull’idrogeno dalle principali università italiane, aziende come Eni e Snam ottengono finanziamenti per la transizione energetica senza ridurre l’utilizzo di combustibili fossili
16 Settembre 2022

Edoardo Anziano
Francesca Cicculli

Un anno e mezzo fa, a marzo 2021, IrpiMedia già raccontava le attività di lobbying che le aziende dell’oil&gas stavano attuando in Europa per far includere l’idrogeno nei piani nazionali del Recovery Fund. I progetti promossi a Bruxelles da queste aziende, ad analizzarli con attenzione, dimostravano già che il vero obiettivo non era tanto produrre e utilizzare l’idrogeno, quanto piuttosto continuare a vendere e a trasportare gas. L’idrogeno infatti non esiste in natura ed è prodotto quasi interamente attraverso la gassificazione del carbone o lo steam reforming del gas naturale (idrogeno “grigio”), ad alte emissioni di CO2. Allo steam reforming si può affiancare la cattura e lo stoccaggio della CO2 e produrre idrogeno “blu”. Esistono anche metodi di produzione più “puliti”, come l’elettrolisi dell’acqua sfruttando energia rinnovabile (idrogeno “verde”), ma resta economicamente non competitivo e di difficile distribuzione e conservazione. Improbabile quindi che possa rappresentare, almeno nei tempi brevi richiesti dalla crisi climatica ed energetica in corso, il game changer della transizione ecologica.

È piuttosto un cavallo di troia, una tecnologia abbastanza nuova ed entusiasmante da dipingere efficacemente di “verde” piani che nella pratica faranno ben poco per ridurre le emissioni di CO2 nel nostro Paese.

Nonostante questo, il Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) italiano affida più di 3 miliardi di euro alla componente per la produzione, distribuzione e utilizzo dell’idrogeno (Missione 2 Componente 2), a cui si aggiunge una parte non facilmente quantificabile degli 11,4 miliardi della Missione 4 Componente 2 “Dalla ricerca all’impresa”, che prevede fondi anche per la ricerca sull’idrogeno.

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Leggendo i bandi finalmente pubblicati per i finanziamenti alla filiera dell’idrogeno e le liste dei beneficiari, appare chiaro che le aziende del gas siano riuscite a dettare la linea per la nuova strategia energetica. Tra i principali vincitori dei finanziamenti, infatti, figurano proprio quelle aziende che in Europa hanno fatto lobbying per l’idrogeno e che vogliono produrlo da combustibili fossili. A loro fianco, gran parte delle università pubbliche italiane, divenute partner strategici delle aziende vincitrici e beneficiarie a loro volta di fondi per la ricerca e lo sviluppo sull’idrogeno.

UniBo ed Eni: l’accordo per la ricerca sull’idrogeno

L’accordo tra un ateneo pubblico e una azienda controllata dallo Stato non è materia di interesse per i cittadini. Lo ha stabilito – unilateralmente – l’Università di Bologna, rispondendo a una richiesta di accesso civico generalizzato che IrpiMedia ha presentato per conoscere i dettagli di una partnership firmata a maggio 2022 con Eni, gigante del petrolio che ha come maggiore azionista il Ministero dell’economia e delle finanze.
L’accordo fra UniBo ed Eni ha come oggetto la realizzazione di un laboratorio con sede a Ravenna «dedicato alle nuove tecnologie per la decarbonizzazione e la transizione energetica». In particolare, le ricerche si concentreranno sulla produzione sostenibile di idrogeno e la cattura e stoccaggio di CO2.

Secondo UniBo e ENI, che in quanto soggetto controinteressato si è opposto alla nostra richiesta, non ci sono motivi di interesse pubblico per rilasciare il testo dell’accordo. I giornalisti di IrpiMedia, recita il parere di UniBo, non avrebbero fatto richiesta in nome delle «riferite finalità pubblicistiche» – ovvero il diritto di cronaca su fatti di pubblico interesse -, bensì ispirati da «un bisogno conoscitivo esclusivamente privato, individuale, egoistico o peggio emulativo», non utile a «favorire la consapevole partecipazione del cittadino al dibattito pubblico».

L’inchiesta che state leggendo è prova, se ce ne fosse bisogno, che il nostro interesse invece è unicamente quello di pubblicare storie importanti per la collettività.

Nel 2021 IrpiMedia, insieme a Scomodo, aveva presentato un’altra richiesta di accesso agli atti, riguardante un precedente accordo su energia e ambiente tra Eni e l’Università di Bologna datato 2017. La richiesta era stata accolta, seppur con l’invio del testo pesantemente censurato. Nel caso del nuovo accordo sul Laboratorio di Ravenna, invece, anche il ricorso presentato alla Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza di UniBo è stato rigettato, nonostante le evidenti similitudini rispetto al tipo di documento richiesto nella prima istanza.

Non è una questione puramente formale: come è possibile decidere se un accordo tra un’università pubblica e una controllata dello Stato italiano è di pubblico interesse se non se ne conoscono i dettagli?

In generale, prestare attenzione a come le major del petrolio guardano al futuro e alla crisi climatica è un dovere giornalistico. Nel report della fondazione Finanza Etica del 2021, emerge che Eni, nel suo piano industriale 2021- 2024, riserva solo il 20% degli investimenti ad attività verdi, il resto finanzierà ancora i combustibili fossili. Fino al 2030, inoltre, ridurrà le emissioni nette totali delle proprie attività solo del 25% e l’intensità carbonica di appena il 15%. «Quindi per altri 10 anni Eni avrà un impatto sul clima molto vicino a quello che ha oggi», si legge nel report. Per quanto riguarda l’idrogeno blu, all’interno del piano di decarbonizzazione 2021 di Eni, questo è diventato molto più importante rispetto al piano precedente.

Lo stesso nome dato al laboratorio di Ravenna è ambiguo – Hydrogen and Carbon use through Energy from Renewables – perché mette insieme l’idrogeno blu con cattura del carbonio e idrogeno verde prodotto da energie rinnovabili.

«L’università dovrebbe essere favorevolissima a fare ricerca sull’idrogeno verde, ma non dovrebbe fare ricerca sull’idrogeno blu. Non è la strada giusta. L’idrogeno prodotto con elettrolisi dell’acqua è pulito, perché non emetti anidride carbonica, se fai idrogeno blu devi essere bravissimo a catturare tutta la CO2, ed è impossibile praticamente», ha commentato a IrpiMedia Vincenzo Balzani, professore emerito di chimica dell’Università di Bologna. «Produrre idrogeno blu senza catturare tutta l’anidride carbonica non va bene per il clima e non dovrebbe andar bene neanche per l’università. L’università ha il diritto di fare accordi con chi vuole ma non ha il diritto di fare accordi controproducenti di fronte alla crisi climatica», afferma Balzani.

Il glossario

Gas rinnovabili: si tratta di gas combustibili non fossili che, per la legislazione europea ancora in corso di definizione, vengono considerati strumento efficace del processo di decarbonizzazione richiesto dalle nuove politiche contro i cambiamenti climatici. La definizione è basata o sul basso livello di emissioni prodotte, o sul processo di produzione.

e-fuel / Carburanti sintetici: sono idrocarburi non fossili prodotti “in laboratorio” tramite processi di sintesi. Di base tutti gli idrocarburi sono molecole a base di carbonio e idrogeno, e possono quindi essere prodotti da una miscela di questi elementi.

Idrogeno verde: idrogeno ottenuto tramite elettrolisi dell’acqua, alimentata esclusivamente da elettricità ottenuta da fonti rinnovabili al 100%, come eolico o solare.

Idrogeno blu: idrogeno prodotto dalla scomposizione di gas fossile, un processo inverso a quello dei carburanti di sintesi. La sua produzione (da gas fossile) separa idrogeno e carbonio. Per essere considerato “blu” (e quindi “a basse emissioni”) deve essere prodotto assieme a un processo di cattura del carbonio affinchè non sia rilasciato nell’atmosfera. Tale tecnologia al momento non sembra aver raggiunto livelli efficaci.

Blending: “miscelazione”, nel contesto di questo articolo fa riferimento all’intenzione dei distributori del gas di mischiare assieme idrogeno e metano nella rete di distribuzione già esistente.

GNL: il Gas Naturale Liquefatto è una miscela di idrocarburi composta per almeno il 90% da metano e per la restante parte da etano, propano e butano. Il suo volume è circa 600 volte inferiore a quello del gas naturale e per questo è più economico trasportarlo e stoccarlo. Di solito il trasporto, soprattutto per le lunghe distanze, avviene attraverso navi metaniere. Il GNL deve essere rigassificato prima di essere immesso nella rete nazionale.

Non potendo vedere il testo dell’accordo, non possiamo essere certi se l’Università di Bologna intenda aiutare Eni a produrre idrogeno dal gas. Valerio Cozzani, professore ordinario di Impianti Chimici presso il Dipartimento di Ingegneria Civile, Chimica, Ambientale e dei Materiali (DICAM) dell’Università di Bologna, intervistato da IrpiMedia, non chiarisce del tutto il punto, ma spiega che l’accordo con Eni nasce dalla volontà di entrambe le parti di fare ricerca sulla produzione di «idrogeno sostenibile, e cioè prodotto principalmente da energie rinnovabili». «L’ateneo di Bologna porterà avanti congiuntamente ad Eni progetti di ricerca che, se dovessero dare risultati applicabili, nel rispetto degli accordi di proprietà intellettuale verranno poi valorizzati industrialmente da Eni o da altri attori industriali», spiega Cozzani.

Se queste sono le basi dell’accordo, non si capisce come mai Eni si sia opposta alla richiesta di accesso agli atti presentata da IrpiMedia. La decisione, per altro, non fa appello a eventuali fughe di idee che potrebbero avvantaggiare i competitors, ma alla presunta assenza di interesse pubblico. Eppure, sia UniBo che il Cane a sei zampe risultano beneficiari – tanto in partnership quanto singolarmente – di fondi del Pnrr, ovvero pubblici, legati allo sviluppo e alla ricerca sull’idrogeno.

Pnrr fossile, vestito di verde

La ricerca e lo sviluppo dell’idrogeno sono finanziati principalmente da due Missioni del Pnrr italiano: la Missione 2 dedicata alla “Rivoluzione verde e transizione energetica” e la Missione 4 “Istruzione e ricerca”. In entrambi i casi, i bandi per la riscossione dei finanziamenti per l’idrogeno sono stati molto partecipati. A vincere, sia come proponenti che come co-proponenti dei progetti, le principali università statali italiane, tra cui l’Università di Bologna, e le più grandi aziende fossili, come Eni e Snam.

Stefano Patuanelli, allora in qualità di Ministro per lo sviluppo economico, ospite di un evento pubblico organizzato da Snam a ottobre 2019 - Foto: Simona Granati/Getty

Stefano Patuanelli, allora in qualità di Ministro per lo sviluppo economico, ospite di un evento pubblico organizzato da Snam a ottobre 2019 – Foto: Simona Granati/Getty

Una delle componenti della missione 2 del Pnrr è dedicata proprio a “Energia rinnovabile, idrogeno, rete e mobilità sostenibile” (M2C2). Sedici milioni di euro di questa componente sono destinati alla “Ricerca e sviluppo dell’idrogeno” (investimento 3.5) Gli obiettivi di questa linea di intervento sono: produzione di idrogeno verde; sviluppo di tecnologie per stoccaggio e trasporto idrogeno e per trasformazione in altri derivati e combustibili verdi; sviluppo di celle a combustibile; miglioramento della resilienza delle attuali infrastrutture in caso di maggiore diffusione dell’idrogeno.

Gli obiettivi cambiano, però, se si leggono i due bandi aperti il 23 marzo 2022 dal Ministero della transizione ecologica (Mite) per finanziare i progetti sull’idrogeno. Il bando A, da 20 milioni di euro, è rivolto a università e centri di ricerca, il bando B, da 30 milioni, alle imprese private. I due avvisi pubblici sono quasi identici, ma con un’importante differenza rispetto al testo del Pnrr: non si parla più solo di progetti per la produzione di idrogeno verde, ma anche di idrogeno “clean”, aggettivo con cui viene identificato l’idrogeno blu prodotto da gas con cattura e stoccaggio di CO2 che, secondo l’industria dell’idrogeno, può essere considerato “pulito”.

I bandi accolgono infatti le indicazioni contenute in una decisione del Consiglio ECOFIN del 13 luglio 2021, che apre alla possibilità di produrre idrogeno “a basse emissioni”, anche se non derivante da energia rinnovabile, che «soddisfino il requisito di riduzione delle emissioni di gas serra nel ciclo di vita del 73,4 %».

«È una stupidaggine. Perché del 73,4 e non 80 o 70? È una decisione stupida. Vogliono fare idrogeno blu senza catturare tutta l’anidride carbonica, ma solo il 73%, l’altra andrà in atmosfera. Ma noi non possiamo aggiungere altra CO2 nell’atmosfera oltre quella che abbiamo già», ha spiegato a IrpiMedia Vincenzo Balzani.

La tecnologia che non c’è ma si vende: cattura e stoccaggio della CO2

La produzione di idrogeno blu prevede l’utilizzo della Carbon Capture and Storage (CCS) ovvero la cattura e lo stoccaggio della CO2, per poi destinarla a diversi usi, tra cui l’immagazzinamento nei pozzi di petrolio esauriti. Questa tecnologia, ancora in fase di prototipo, lascia comunque una percentuale significativa di emissioni nell’aria e risulta estremamente costosa. Inoltre, il trasporto dell’anidride carbonica catturata necessita di una rete di condotti, attualmente non esistente, capace di supportarne la portata. Produrre idrogeno blu quindi è praticamente ancora impossibile.

L’Unione europea è già consapevole dell’inefficienza della CCS: tra il 2008 e il 2017 ha finanziato 424 milioni di euro per sei progetti di CCS non riusciti – tranne uno che comunque non ha soddisfatto le aspettative – e per questo è stata criticata dalla Corte dei conti europea.

Altra critica avanzata alla CCS riguarda una delle sue applicazioni principali: l’anidride carbonica verrebbe pompata in vecchi pozzi petroliferi per recuperare il petrolio difficile da estrarre, con ulteriori benefici economici per le industrie petrolifere e un incremento della disponibilità del fossile.

I bandi specificano che sono ammissibili i progetti che riguardano l’immissione e la miscelazione nella rete del gas naturale esistente e la trasformazione dell’idrogeno in e-fuel.

Come già raccontato da IrpiMedia, proprio il blending – cioè il passaggio di idrogeno e gas negli attuali gasdotti – e la produzione di e-fuel, sono due dei temi su cui le lobby del gas e dell’idrogeno hanno spinto per far passare le loro posizioni, ma che sono facilmente contestabili. Le attuali tubature del gas, infatti, possono trasportare, secondo le stime più ottimiste, fino al 20% di idrogeno miscelato a gas: le aziende che sostengono il blending, di fatto, puntano a continuare a vendere l’80% di metano.

Gli e-fuels – carburanti sintetici – sono invece idrocarburi fatti in laboratorio e hanno rappresentato l’ultima frontiera del lobbismo del settore dell’automotive e dell’oil&gas per non perdere i finanziamenti europei che puntavano a una definitiva stretta sulle emissioni climalteranti. Questi combustibili, prodotti a partire dall’idrogeno “verde” mischiato poi con la CO2, hanno un’efficienza, al netto di sprechi e perdite lungo la catena, del 13% appena.

I soliti noti, progetti opachi in mano alle aziende che fanno lobby in Ue

Il caso Eni-UniBo, date queste indicazioni dal Pnrr, risulta tutt’altro che isolato. Scorrendo le graduatorie dei progetti ammissibili e finanziabili presentati per i due bandi in questione infatti, compaiono senza sorpresa proprio alcune delle aziende che in Europa si sono battute a favore di idrogeno blu, blending ed e-fuels. L’attività di lobbying di queste aziende non solo sembra riuscita, ma ha finito per inglobare anche l’attività di ricerca delle università pubbliche italiane, che sembrano essere al servizio di aziende private che promettono una transizione energetica che nei fatti non è altro che greenwashing.

Le università vincitrici del bando A sono: l’università di Messina, di Calabria, di Genova, di Parma, La Sapienza di Roma, l’Università del Piemonte Orientale e il Politecnico di Milano.
Queste hanno ottenuto più di un finanziamento perché risultano sia capofila che partner di altre università. Nel progetto dell’Università di Messina, per esempio, figura come partner l’Università della Calabria, che a sua volta è capofila del secondo progetto vincitore in graduatoria. Del progetto dell’Università della Calabria, è partner l’Università di Bologna.

Pochissimi sono i dettagli disponibili sui progetti vincitori, sia perché quasi nessuna università ha rilasciato comunicati stampa dettagliati, sia perché non sono stati inseriti sul sito OpenCUP, la piattaforma del Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica della Presidenza del consiglio dei ministri dove è possibile ricercare i progetti che hanno ottenuto finanziamenti pubblici, inclusi i fondi del Pnrr.

Conosciamo però le ricerche che gli stessi atenei, da anni, portano avanti insieme alle aziende private del gas, come Eni e Snam, risultate a loro volta vincitrici di finanziamenti del Pnrr destinati alla ricerca e allo sviluppo dell’idrogeno.

A fine 2021, per esempio, Eni, Snam, Edison e La Fondazione Politecnico di Milano insieme al Politecnico di Milano hanno dato vita a una piattaforma di ricerca congiunta tra università e aziende – Hydrogen Joint Research Platform (Hydrogen JRP) – per lo sviluppo delle tecnologie legate all’idrogeno. Nel comunicato stampa rilanciato subito dopo spiegano che l’obiettivo della piattaforma è quello di «promuovere studi e ricerche innovative su: produzione dell’idrogeno pulito, che comprende l’idrogeno verde e “low carbon”».

Pochi mesi dopo, a febbraio 2022, Edison ed Eni, insieme e Ansaldo Energia, hanno annunciato la firma di un accordo per portare l’idrogeno a Porto Marghera, nella nuova centrale termoelettrica di Edison. Quale idrogeno? «L’accordo prevede l’avvio di uno studio di fattibilità per la produzione di idrogeno verde, tramite elettrolisi dell’acqua, o in alternativa, di idrogeno blu, tramite l’impiego di gas naturale con cattura della CO2 prodotta».

L’attività di lobbying di Snam ed Eni in Europa

Secondo il database LobbyFacts, che si occupa di monitorare l’influenza delle aziende sulle istituzioni europee, fra il 2018 e il 2021, Snam ha speso circa 700.000 euro in attività di lobbying. Ha 4 lobbisti accreditati presso il Parlamento europeo e ha partecipato, dal 2014 a oggi, a 33 incontri definiti di “alto livello”, cioè con Commissari europei, membri di gabinetto o direttori generali presso la Commissione europea. A conferma del forte interesse dell’azienda nei confronti dell’idrogeno, è interessante notare come, fino al 2019, nessuno degli incontri di lobbying avesse a che fare con l’idrogeno.

Fra il 2020 e il 2022, Snam ha partecipato a 4 incontri specifici sull’idrogeno, fra cui uno con la commissaria all’Energia Kadri Simson sullo “Sviluppo del mercato dell’idrogeno europeo, i futuri bisogni legati al trasporto e opzioni legate agli aspetti infrastrutturali” e uno col direttore generale per l’azione climatica della Commissione europea Mauro Raffaele Petriccione – entrambi nel 2020. Di “visioni sull’economia verde e nuove sfide in tempi di Covid” i lobbisti di Snam hanno discusso con l’attuale commissario all’economia – ed ex Presidente del Consiglio italiano – Paolo Gentiloni, nel novembre 2021. Più recentemente, nel luglio 2022, Snam ha discusso di “diversificazione delle forniture, infrastrutture e idrogeno” con il direttore generale per l’energia Ditte Juul Jørgensen, a testimonianza dell’importanza dell’idrogeno – non viene specificato se prodotto dal gas o meno – nella strategia di Snam.

Snam è inoltre membro dell’associazione Hydrogen Europe, che dichiara di «aver promosso, fin da subito, l’idrogeno clean (ovvero idrogeno prodotto a partire dal gas, ndr) e le sue tecnologie per realizzare un sistema energetico decarbonizzato». A Hydrogen Europe è affiliata anche Eni, che ha investito ben più di Snam in lobbying presso le istituzioni europee, passando da 300.000 euro nel 2010 a quasi 1,4 milioni nel 2020. Eni conta anche 9 lobbisti accreditati presso l’Europarlamento e 51 incontri di alto livello con la Commissione europea. Anche se nessuno di questi ha avuto come oggetto l’idrogeno, secondo LobbyFacts, fra i principali dossier europei su cui punta Eni ci sono proprio le regole comunitarie legate a gas naturale e idrogeno.

Sia Eni che Ansaldo Energia risultano beneficiare dei fondi della M2C2. IrpiMedia ha cercato su OpenCUP, grazie al sostegno dell’associazione onData, i loro progetti scoprendo che Eni ha vinto il bando con un progetto chiamato “Innovativo Processo intEgrato per la Produzione intensificata di eGas da Idrogeno Verde – IPEReGas” che dovrebbe essere localizzato nel Mezzogiorno (per cui era previsto un punteggio maggiore in graduatoria), ma su OpenCUP risulta posizionato a Roma. Abbiamo richiesto i dettagli del progetto all’azienda per capire dove intendono produrre idrogeno e cosa intendono per eGas, ma non abbiamo ricevuto risposta. Ad ogni modo il lemma eGas rimanda ai carburanti sintetici, con tutte le problematiche che abbiamo riportato.

Ansaldo Green Tech – controllata di Ansaldo Energia – ha vinto, invece, con il progetto “Nuovi Elettrodi e Membrane per Elettrolizzatori a Scala Industriale”. Apparentemente sembra un progetto per la produzione di Idrogeno verde, ma su OpenCUP il nome del progetto diventa: “Produzione di idrogeno clean e green”. Idrogeno da gas, quindi, ancora una volta.

Ma non sono le uniche aziende pro idrogeno blu e blending, che troviamo nell’elenco dei beneficiari dei fondi del Pnrr. C’è la Sapio Produzione Idrogeno Ossigeno srl con il progetto “HyPER Mantova – Hydrogen High Pressure Efficient Renewing at Mantova Facility: Innovazione ed efficientamento della filiera di distribuzione dell’idrogeno compresso” che da OpenCUP però risulta localizzato a Fiano Romano. Sapio, nel 2008, ha attivato ad Arezzo il primo idrogenodotto urbano al mondo, lungo circa un chilometro. Lo scopo era quello di fornire idrogeno puro alle aziende orafe della zona di San Zeno. Dichiarano di produrre idrogeno tramite steam reforming del gas fin dal 1922, processo che non è sostenibile sia perché brucia combustibile fossile sia perché altamente energivoro. Nel loro bilancio aziendale dichiarano che «l’utilizzo di energia primaria del Gruppo sotto forma di combustibili fossili è destinato, in ordine di rilevanza, a: attività logistica; produzione di idrogeno» e che «gran parte delle emissioni dirette sono riconducibili a: emissioni di anidride carbonica da processo (in prevalenza steam methane reforming)».

Sapio fa parte insieme ad Eni, Confindustria Venezia Area Metropolitana di Venezia e Rovigo, Decal e Berengo, del consorzio Hydrogen Park, costituito il 15 luglio 2003 per la realizzazione di un Distretto dell’idrogeno a Porto Marghera. È proprio qui che Eni, secondo quanto reso noto da Staffetta Quotidiana, avrebbe avviato la valutazione di impatto ambientale per la produzione di idrogeno da steam reforming del metano. Ad esprimersi sarà ora la commissione Pnrr Pniec del Mite. L’idrogeno prodotto sarà inizialmente “grigio”. Ma diventerà “blu”, quando Eni potrà catturare la CO2 emessa per seppellirla a Ravenna, dove la stessa ha richiesto anche l’autorizzazione per un progetto di CCS (già bocciato dalla Commissione europea, che ha negato a Eni il Fondo europeo per l’innovazione).

Il professor Cozzani dell’Università di Bologna ci ha assicurato che nel Laboratorio sull’idrogeno di Ravenna non verrà testato il progetto di CCS di Eni, perché «è una tecnologia abbastanza matura e già utilizzata in ambito industriale», mentre nel laboratorio congiunto verranno studiati solo progetti che ancora devono essere applicati a livello industriale.

Snam e il Politecnico di Bari

Eni non è l’unica azienda che ottiene finanziamenti per lo sviluppo dell’idrogeno mentre continua a investire sui combustibili fossili. Merita infatti attenzione anche il caso di Snam, la principale società di infrastrutture energetiche italiana. Si occupa principalmente di trasporto, stoccaggio e rigassificazione del metano. Possiede 41.000 Km di tubi per il trasporto del metano e ha una capacità di stoccaggio di 20 miliardi di metri cubi. Nelle ultime settimane della calda campagna elettorale italiana è tornata all’attenzione delle cronache per aver proposto un progetto per il rigassificatore di Piombino, necessario secondo alcuni partiti a sopperire alla crisi energetica esacerbata dall’invasione russa dell’Ucraina. Sul piano di investimenti 2020-2024 della società, è messo nero su bianco che 6,5 miliardi dei 7,4 totali saranno destinati alla realizzazione di infrastrutture per il trasporto del gas e di biometano e idrogeno .

Attivisti di Greenpeace presso la sede romana di ENI protestano per le politiche insufficienti dell'azienda in tema di cambiamento climatico - Foto: Stefano Montesi/Getty

Attivisti di Greenpeace presso la sede romana di ENI protestano per le politiche insufficienti dell’azienda in tema di cambiamento climatico – Foto: Stefano Montesi/Getty

Snam vuole continuare quindi a trasportare gas, e per provare a prendere i fondi del Recovery Plan ha tentato di dimostrare che per rendere l’idrogeno trasportabile e competitivo bastasse adattare la rete attuale di gasdotti. «L’interesse di Snam è chiaro – spiega Elena Gerebizza, campaigner energia e infrastrutture di Re:Common – perché già controlla tutta la rete dei gasdotti italiani e ha delle quote di controllo di importanti gasdotti fuori dall’Italia. La sua visione è che l’idrogeno di qualsiasi colore deve essere trasportato sulla lunga distanza, nonostante questo sia assolutamente inefficiente e insostenibile. Quindi è un interesse il mercato: utilizzare i soldi del Pnrr, per dire che i loro gasdotti sono pronti a trasportare anche delle quote di idrogeno, sebbene in quote molto piccole. In questa maniera gli asset continuano ad avere un valore, anche nel bilancio delle aziende e loro di facciata diventano delle aziende che guardano a un futuro più sostenibile».

Allo stesso tempo, anche quella dell’idrogeno verde sembra essere una promessa irrealizzabile. Per poter produrre una tonnellata di idrogeno da elettrolisi, infatti, sarebbero necessari circa 9.000 litri d’acqua, il che significa 6,3 milioni di metri cubi d’acqua per raggiungere il target di 700 mila tonnellate di idrogeno entro il 2030. Una risorsa che, tuttavia, scarseggerà sempre di più – come dimostra il prolungato periodo di siccità di quest’estate.

Snam, insieme alle già citate Sapio e Ansaldo Energia, fa parte di H2IT, l’Associazione italiana per l’idrogeno e celle a combustibile che «si propone di creare le condizioni politiche e normative per lo sviluppo di un mercato delle applicazioni idrogeno in Italia». Il Presidente di H2IT è Alberto Dossi, Presidente del Gruppo Sapio. Si propone come ente indipendente di consulenza per il governo, ma molte delle aziende che ne fanno parte sono membri della lobby per il gas che spinge a livello europeo a utilizzare l’idrogeno come vettore per la transizione energetica.

Come Eni, Snam ha numerose collaborazioni sulle ricerche per l’idrogeno anche con le università italiane, tra cui il Politecnico di Milano e il Politecnico di Bari. Con il primo ha all’attivo un accordo di collaborazione «sull’analisi e la reingegnerizzazione delle tecnologie di produzione, stoccaggio e utilizzo dell’idrogeno», oltre ad approfondimenti sull’impatto delle miscele di idrogeno e gas naturale sulle infrastrutture di trasporto esistenti. Sono inoltre previsti studi congiunti sulla mobilità sostenibile, sul biometano, su liquefazione e GNL (gas naturale liquefatto) small scale, oltre che su progetti di cattura, trasporto, stoccaggio e riutilizzo dell’anidride carbonica.

Con il Politecnico di Bari, invece, Snam è risultata vincitrice di un finanziamento del Pnrr legato alla missione 4, Istruzione e ricerca. In particolare gli investimenti della Componente 2, “Dalla ricerca all’impresa”, mirano ad aumentare la spesa in ricerca e sviluppo e a un «più efficace livello di collaborazione tra la ricerca pubblica e il mondo imprenditoriale». Il totale degli investimenti per la componente è di 11,4 miliardi, di cui 1,61 miliardi per i Partenariati estesi, oggetto dell’investimento vinto dal Politecnico di Bari e Snam, con un progetto relativo alle «energie verdi del futuro». Per questa tematica, da bando, non erano ammissibili attività connesse ai combustibili fossili o attività generatrici di emissione di gas a effetto serra.

IrpiMedia anche in questo caso ha richiesto al Politecnico di Bari di poter avere più informazioni sul progetto. Ci è stato promesso un comunicato stampa con i dettagli e i nomi dei responsabili scientifici da poter intervistare, ma ad oggi non abbiamo ricevuto nulla, nonostante i numerosi solleciti. Anche in questo caso non possiamo sapere che tipo di accordo esista tra un’università italiana che riceve fondi pubblici e un’azienda che sulle “energie verdi del futuro” ha dei piani che puzzano di greenwashing.

Come nel caso dell’accordo tra l’Università di Bologna e l’Eni, sarebbe necessario sapere i dettagli del progetto del Politecnico di Bari perché nel Pnrr italiano si legge che l’obiettivo degli investimenti per l’idrogeno è quello «di sviluppare un vero network sull’idrogeno per testare diverse tecnologie e strategie operative, nonché fornire servizi di ricerca e sviluppo e ingegneria per gli attori industriali che necessitano di una convalida su larga scala dei loro prodotti». Il progetto del Politecnico di Bari potrebbe quindi essere potenzialmente il laboratorio in cui Snam potrà testare i suoi progetti su idrogeno blu, blending e cattura e stoccaggio della CO2.

Mentre l’Italia e l’Europa intera affrontano la crisi energetica che si pensa di risolvere caricando quasi tutte le responsabilità sulle spalle dei singoli cittadini e delle loro buone abitudini, il governo ha deciso di affidare i fondi per la transizione energetica alle aziende che nei loro piani industriali continuano a sottolineare la necessità di investire ancora sul gas, anche quando presentano progetti per l’idrogeno. Su questi progetti manca quasi totalmente la trasparenza perché i partner delle aziende in questione, che sono pressoché tutte università pubbliche italiane, non rilasciano dichiarazioni o dettagli, rifiutando persino le richieste di accesso civico agli atti. E il Pnrr rischia di essere un piano che ci terrà ancora legati al gas per decenni a venire.

CREDITI

Autori

Edoardo Anziano
Francesca Cicculli

Editing

Giulio Rubino

Foto di copertina

Attivisti di Greenpeace presso la sede romana di ENI protestano per le politiche insufficienti dell’azienda in tema di cambiamento climatico
(Stefano Montesi/Getty)