Fattorini di tutta Europa, unitevi
La sfida comune è difendere i diritti dei rider nel contesto lavorativo creato dalla gig economy. Gli esempi di Bruxelles, Barcellona e Berlino, tra sindacati tradizionali ed esperienze dal basso

24 Aprile 2023 | di Laura Carrer

Quando arriva in Place de la Bourse, nel centro storico e turistico di Bruxelles, Martin Willems porta la bici con un braccio e indossa un gilet giallo catarifrangente simile a quello dei lavoratori delle strade. Sembra di poche parole, ma in fondo fare il sindacalista significa usarle per bene e nel momento giusto. Martin lavora per il sindacato nazionale belga ACV-CSC: più di un milione e mezzo di iscritti, praticamente quasi il 30% della popolazione in età lavorativa. Nel 2019 ha creato insieme ad altri una sezione interna al sindacato chiamata United Freelancers, che ha lo scopo di sindacalizzare perlopiù i lavoratori senza un contratto dipendente, spesso giovani e impiegati nella cosiddetta gig economy. Il leitmotiv, dice Willems, «è che puoi anche non avere un contratto, ma devi comunque difendere i tuoi diritti». E i rider hanno pochi contratti e ancora meno diritti.

In molti Paesi europei, l’economia delle piattaforme sta ulteriormente affossando le tutele lavorative e sindacali, già indebolite da tempo. Il processo è in corso in molti settori e i rider non sono i soli rappresentanti di questa economia. Nello spazio urbano, sono i più visibili e le attenzioni dei sindacati maggioritari si sono concentrate inevitabilmente su di loro. Il compito però è molto arduo.

Le aziende di food delivery generano utili bassi, a volte nulli, ma i gruppi multinazionali che le possiedono attraggono continui investimenti internazionali grazie alle loro attività di ricerca e sviluppo in ambito tecnologico. Per i sindacati, contrastare il potere di queste imprese è più difficile di quanto non lo sia con aziende considerate più tradizionali, per diversi ordini di motivazioni. Una prima è che, nella maggior parte dei casi, i rider non vengono assunti o considerati lavoratori subordinati dalle aziende. E questo rende più complicato raggiungerli e far valere i loro diritti. Una seconda motivazione è il controllo esercitato dalle aziende su questi lavoratori che, nonostante la mancanza di contratti, è molto forte e non si limita al tempo delle consegne.

Una situazione paradossale che però continua grazie agli investimenti in tecnologia, attraverso i quali le piattaforme sono in grado di mettere a valore grandi moli di dati. E anche grazie all’intensa attività di lobbying svolta dalle stesse piattaforme.

L’inchiesta Uber Files

La scorsa estate, l’inchiesta Uber Files ha scoperchiato il vaso di pandora sulle attività di lobbying di una delle aziende tech più importanti, grazie alle migliaia di documenti forniti al Guardian dall’ex lobbista di Uber Mark MacGann. Tra gli episodi rivelati, uno dei più emblematici è nel 2015 lo scambio di messaggi tra MacGann ed Emmanuel Macron, oggi presidente della Repubblica francese. Il lobbista chiedeva a Macron, allora ministro dell’economia, dell’industria e del digitale, di far cessare i disordini scoppiati tra i driver di Uber e i tassisti, raggiungendo in poco tempo il suo obiettivo.

Uber ha un budget per le attività di lobbying tra i 700 e gli 800 mila euro all’anno e cinque lobbisti registrati presso le istituzioni Ue. Wolt e Bolt, altre due aziende di delivery, ne hanno rispettivamente nove e sei. Il loro impegno si è particolarmente intensificato da quando, a inizio 2022, a Bruxelles si discute di una direttiva che garantisca la subordinazione ai lavoratori della gig economy. Tra gennaio e maggio 2022, i rappresentanti dei Paesi Bassi al Consiglio dell’Unione europea, solo per fare un esempio, hanno incontrato tre volte i lobbisti di Wolt, due quelli di Deliveroo e una quelli di Bolt.

Lo scorso febbraio, il Parlamento europeo ha votato la sua posizione sulla direttiva. Ora, però, bisogna attendere che anche il Consiglio approvi la sua e che le due istituzioni trovino un accordo prima della fine della legislatura, nella primavera del 2024. Intanto, a seguito dell’inchiesta Uber Files, Francia e Belgio hanno aperto indagini parlamentari per esaminare le attività di Uber nei loro Paesi.

Persino in un Paese come il Belgio con una sindacalizzazione molto forte, che arriva a toccare punte del 60%, i rider e, più in generale, i lavoratori atipici sono orfani di tutele. Willems spiega che per diverso tempo «le sigle sindacali non si sono rivolte ai freelance». Poi, nel 2017, «abbiamo creato United Freelancers e, in pochi anni, si sono affiliati più di duemila tra freelance e dipendenti atipici», continua. Pur rivolgendosi principalmente ai lavoratori indipendenti, infatti, United Freelancers è aperto anche ai lavoratori subordinati atipici. Una commistione che, per i sindacati, è inedita, difficile da affrontare, ma ormai ineludibile. Secondo Willems, in Belgio «sono più di 90 mila gli iscritti al sindacato (come subordinati, ndr) che lavorano collateralmente anche come freelance per le piattaforme della gig economy». Flessibilità però fa spesso rima con precarietà.

A ottobre dello scorso anno, è stato reso noto che Uber e il sindacato belga di autisti di limousine UBT avevano firmato segretamente un accordo non totalmente condiviso dalle altre organizzazioni sindacali. La tempistica di questo avvenimento suggerirebbe una strategia da parte di Uber per ripulirsi l’immagine dal caso Uber Files, anche se indirettamente racconta in modo significativo come le piattaforme siano totalmente disinteressate ad instaurare una reale interlocuzione tra parti sociali. Questi accordi infatti non chiariscono affatto quale potere negoziale abbiano in mano i sindacati dopo aver abbracciato le richieste delle piattaforme.

D’altronde il caso inglese che nel 2021 ha visto Uber siglare un accordo con le organizzazioni sindacali IWGB e App Drivers and Couriers Union (ADCU) sembrava aver chiarito l’andazzo della piattaforma: a un anno dalla firma Uber è stata fortemente criticata dai sindacati, e non solo, perché non aveva ancora applicato lo status di lavoratore dipendente ai driver, con relativo stipendio (minimo) e orario di lavoro definito.

Da tutto a niente

Nessun contratto, incidenti sul lavoro, paga mai sicura. Le condizioni dei rider sono frammentate, cambiano da Paese a Paese. La loro precarietà, mascherata da flessibilità e autonomia, è fulcro di un conflitto perenne. L’offerta di manodopera nel settore è molto alta e sempre in crescita, mentre l’offerta di lavoro rimane imponderabile: non si sa quando l’azienda avrà bisogno di un fattorino. Non ci sono obblighi della piattaforma nei confronti del rider, quindi la quantità di lavoro è sempre un’incognita. È chiaro però che più rider ci sono, meno lavoro ci sarà a disposizione di ciascuno e di conseguenza la paga sarà più bassa. Ma meno lavoro non significa necessariamente meno rider: dipende invece dalla possibilità di un fattorino di trovare un altro impiego.

Nell’economia delle piattaforme il rischio economico è dei corrieri, e le multinazionali non applicano i diritti sul lavoro perché i costi sarebbero molto più alti degli attuali e quindi insostenibili mantenendo lo stesso modello di business. «In una prima fase molti lavoratori dicono che è facile trovare un lavoro con le piattaforme perché alla fine basta loggarsi, utilizzare le app. Ma non è per questo che si ha un lavoro. Così si sono solo iscritti ad una app, e dopo alcune settimane o mesi realizzano che fare il rider non basta per campare perché devi impegnare troppe ore della giornata», dice Willems riportando le sensazioni che raccoglie sul campo.

La curva dell’incasso dei fattorini ha continue salite e discese, come un ottovolante. All’inizio più cresce il tempo dedicato al lavoro più sembrano crescere i guadagni. Il salario però non sarà mai sufficiente. Per aumentare il numero di consegne assegnate dall’algoritmo e portate a termine, il rider deve quindi migliorare i suoi strumenti di lavoro e passare a un mezzo più veloce per muoversi. La fase uno è passare da una bici muscolare a una elettrica e se il rider non si può permettere l’investimento installa alla bell’e meglio una batteria sulla sua bici normale, senza la certezza che questa funzioni e, soprattutto, senza nessuna sicurezza.

Visto che tutti i fattorini si trovano imprigionati in questa dinamica, è solo questione di tempo ritrovarsi di nuovo in una condizione di stallo che non permetterà loro di guadagnare a sufficienza. A quel punto il rider cercherà un’alternativa qualunque, anche a condizioni peggiori, innescando il primo passo del meccanismo di turnover. Fuori uno, assorbito magari dal settore edile o della sicurezza privata, e avanti un altro, meglio se in una condizione di vulnerabilità economica o un richiedente asilo preso direttamente dai Centri di accoglienza, come è emerso dall’inchiesta della procura di Milano sul caso di caporalato digitale che ha coinvolto Uber Italy nel 2021. I sindacati, ancora una volta, avrebbero un ampio spazio di manovra ma si trovano a discutere con gruppi di lavoratori sempre diversi, con i quali ogni volta è necessario ripartire da zero.

Nell’ultimo report realizzato da Uiltucs in Italia e risalente al 2019, il 45% dei lavoratori della gig economy intervistati ha dichiarato di non vedere nessuno nel ruolo di rappresentante della categoria. Il sindacato è stato scelto dal 32% di loro. Dati significativi che, però, non è detto restituiscano un’immagine fedele del settore perché basati sull’opinione di pochi lavoratori. Un problema, quello della mancanza di dati affidabili, che sarebbe decisivo risolvere per svelare le zone grigie che caratterizzano buona parte dell’economia delle piattaforme, come la mancanza di sicurezza sul lavoro o anche semplicemente il numero di lavoratori che coinvolge.

Rappresentanza dal basso

A più di 1.300 chilometri da Bruxelles, poco lontano dalla Catedral de Barcelona, ha sede la Confederaciòn sindical de comisiones obreras (CC.OO.) della Catalunya. Nata in Spagna negli anni ‘70, è il sindacato più grande del Paese e ha cominciato a lavorare sul tema dei rider e dell’economia delle piattaforme da alcuni anni. «Nel caso dei rider molti lavoratori sono immigrati che entrano nel mondo del lavoro in una situazione di svantaggio e vulnerabilità», racconta Liliana Reyes Hernàndez, sindacalista di origine messicana e coordinatrice del settore dedicato alle nuove realtà lavorative del CC.OO. La legislazione sull’immigrazione, le difficoltà con la lingua, la fatica di vedersi riconosciuti i titoli di studio esteri sono tutti elementi che, secondo la sindacalista, portano molti cittadini stranieri, soprattutto di Paesi extra Ue, «a essere più facilmente vittime di abusi da parte dei datori di lavoro, e di violazioni di diritti che non conoscono quando arrivano per la prima volta» in Spagna.

Anche per le donne le difficoltà sono più grandi. Reyes Hernàndez è ferma e sicura: nella gig economy, sono più soggette a incorrere in episodi di molestie sessuali e di sfruttamento, questione legata alla precarietà del lavoro ma anche a una certa visione culturale che riserva alle donne solo precisi ruoli di genere.

Nell’estate 2021 è entrata in vigore in Spagna la Ley Rider, una legge che aveva lo scopo di regolarizzare e migliorare le condizioni dei lavoratori del food delivery ed è stata sostenuta proprio da CC.OO insieme a un altro sindacato (UGT) e all’associazione spagnola dei datori di lavoro (CEOE). L’unica piattaforma a non voler sottostare alla legge dello Stato in cui ha sede è stata Glovo, multata lo scorso autunno dall’Ispettorato del lavoro spagnolo per questo motivo con una sanzione da 79 milioni di euro. Nonostante ciò, oggi i rider di Glovo, insieme agli autisti di Uber, sono ancora assunti su base autonoma, e le aziende confermano di voler proseguire nella stessa direzione. Il vantaggio competitivo sul mercato spagnolo per loro è dato dalla violazione di una legge a tutela dei lavoratori del settore.

Gli attivisti Felipe Corredor Álvarez e Nuria Soto discutono anche di questo, seduti a un tavolino di un bar in una zona di Barcellona vicina al mare. Raccontano di aver scelto un percorso diverso da quello intrapreso dai sindacati tradizionali per tutelare i rider, fondando RidersXDerechos. Sono stati aspri contestatori della Ley Rider sin dall’inizio, perché, a loro giudizio, il testo proposto dal governo dava troppo spazio di interpretazione alle piattaforme e questo avrebbe potuto portare a una querelle giudiziaria continua. «Dovrebbe essere ampliata a tutti coloro che esercitano in questo settore, come las rider de la limpieza (le donne delle pulizie, ndr), oppure gli insegnanti o i giornalisti freelance che lavorano tramite piattaforme.

Soprattutto è necessario che le multinazionali siano controllate sul fronte della garanzia dei diritti basilari sul lavoro, e che non servano altre cinquanta sentenze per darci ragione o addirittura che si scomodi di nuovo la Corte Suprema spagnola», afferma Soto, riferendosi alle sentenze già emesse dalla magistratura spagnola. Il rapporto con CC.OO esiste ed è di scambio reciproco, anche se, dicono i due attivisti, «i sindacati non riescono ad uscire da schemi pregressi ed evolversi in un mondo per molti versi cambiato». Le piattaforme di delivery sembrano infatti immuni a inchieste giudiziarie, giornalistiche e parlamentari: insistono nel voler continuare a non assumere i lavoratori. E, proprio per questo, i sindacati maggiori si ritrovano ancor più depotenziati che nei settori lavorativi tradizionali.

Perciò, sin da subito, il collettivo si è mosso per cercare un contatto negli ambienti dei sindacati alternativi trovando un alleato in una realtà esistente dal 1997, la confederazione Intersindacale Alternativa de Catalunya. «Conosciamo molte persone alla base dei sindacati maggioritari che svolgono un lavoro meraviglioso, ma sono strutture molto verticali e con grandi dispute di potere al loro interno nonché intorno. Che spesso vanno al di sopra degli interessi dei lavoratori», afferma Soto, raccontando come molte azioni sindacali in questo settore siano state messe in moto dai collettivi dal basso e, solo in seguito, siano state sostenute dai grandi sindacati storici.

I collettivi sono strutture orizzontali, autorganizzate, spesso composte da rider o ex rider attivi politicamente anche su altri fronti, e che agiscono al di fuori dai tradizionali rapporti consolidati tra aziende e organizzazioni sindacali. A rappresentare queste nuove forme di sindacalismo a Bruxelles sono Collective de coursiers e Coursiers en lutte, mentre a Barcellona è appunto RidersXDerechos. Realtà come queste spesso trainano lavoratori precari molto più facilmente, e svolgono approfondimenti e mappature utili a stimolare la conoscenza e la coscienza del settore dentro e fuori l’orario di lavoro.

«Dopo aver creato gruppi Telegram per organizzarci tra rider in tutta la città, abbiamo deciso di fare un passo ulteriore creando il collettivo RidersXDerechos nel 2017», afferma Soto. In quel periodo le multinazionali spagnole del delivery si scontrarono per la prima volta con i movimenti dal basso, ai quali spesso non garantivano un’interlocuzione diretta perché sono, di fatto, realtà informali. Un processo molto sofferto dicono i due sindacalisti, anche da un punto di vista personale. Spesso Soto ha ricevuto insulti a sfondo sessuale online e per la strada proprio a causa del suo lavoro sindacale.

Niente stipendio, niente assistenza sanitaria

In Germania la maggior parte dei rider, così come molti altri lavoratori, è assunta con un contratto dipendente che stabilisce ferie, salario minimo, assicurazione sanitaria e cassa previdenziale. Nonostante ciò non è sempre detto che le tutele promesse dal contratto si concretizzino poiché dipendono da altri fattori, uno su tutti il pagamento puntuale del salario mensile da parte del datore di lavoro.

Il quartiere di Friedrichshain di Berlino è da anni al centro di un processo di riqualificazione simile a quello che ha investito molte città europee. Nei nuovi palazzi in classe A a ridosso del quartiere vivono famiglie di mezza età mediamente benestanti, che spesso utilizzano le app di delivery per ordinare la cena. «Un’ottima coincidenza per sindacalizzare altri rider», dice in tono sarcastico Avik Majumdar, rider e membro del consiglio dei lavoratori di Gorillas a Berlino. Al piano terra di una delle palazzine che circondano il parco comune, infatti, c’è la sede del consiglio dei lavoratori, uno spazio che il servizio di consegna della spesa a domicilio Gorillas ha dovuto riconoscere per legge come luogo di incontro ufficiale del sindacato spontaneo nato all’interno dell’azienda.

Punto di riferimento di molti rider berlinesi, di Gorillas ma non solo, lo spazio è gestito da Majumdar e da altri sindacalisti dal basso. Anche in Germania il livello di sindacalizzazione nelle aziende è molto alto, ma i settori di mercato investiti dalla tecnologia come il food delivery non sono rappresentati come gli altri. «L’idea dietro a questo posto è fornire supporto legale e comunitario ai rider tutto il giorno e anche la notte, visto che gli store di Gorillas chiudono solo per sei ore al giorno», racconta Majumdar.

Gorillas ha operato brevemente anche nel nostro Paese. Lo scorso anno, però, la piattaforma ha abbandonato il mercato italiano, causando il licenziamento di più di 500 dipendenti nonostante l’accordo sottoscritto con la Fit-Cisl proprio per garantire ai rider un contratto nel settore logistica. Una mossa che sembra essere solo uno dei tanti esempi del comportamento poco lineare delle aziende di delivery. Spesso non sembra vogliano entrare nel mercato in maniera oculata, seguendo un’attenta strategia, ma con grandi finanziamenti alle spalle. In gergo finanziario le aziende che si espandono in maniera così veloce si chiamano “unicorni” e Gorillas è stata definita tale lo scorso anno, quando ha ricevuto finanziamenti per 290 milioni di dollari che le hanno reso possibile raggiungere una valutazione aziendale di un miliardo.

Ma come detto, alla crescita improvvisa non ha fatto seguito una visione di lungo periodo che potesse includere anche i diritti dei lavoratori, anzi. Secondo il sindacalista Majumdar, sembra esistere una «questione sistemica» che riguarda il «mancato o errato pagamento dei salari dei rider» da parte di Gorillas.

In un tardo pomeriggio primaverile, all’interno della sede del consiglio dei lavoratori, seduti attorno a un grande tavolo tra faldoni e post-it, ci sono una decina di rider che compilano i documenti per esortare l’azienda a pagargli lo stipendio. «Stiamo cercando di risolvere i problemi di più di trecento rider di Gorillas, che dopo cinque o sei mesi che non ricevono lo stipendio oltrepassano questa porta», dice Majumdar, indicando tra gli altri anche una ragazza italiana emigrata in Germania ormai da tempo, Chiara. Come per altri rider, anche per lei il ritardo nel pagamento del salario comporta un ridimensionamento concreto delle tutele stabilite dal contratto subordinato.

«La Krankenkasse (l’assicurazione sanitaria tedesca, ndr) è pagata in parte da me sulla base del mio reddito e in parte dal datore di lavoro, ma dopo due sole settimane che Gorillas non mi pagava lo stipendio ho ricevuto una lettera nella quale l’ente sanitario mi chiedeva di dimostrare se fossi ancora assunta», afferma Chiara.

L’assistenza sanitaria in Germania può essere pubblica o privata. Molte persone sono iscritte a quella pubblica per legge poiché hanno un salario dipendente lordo mensile sotto i 5.000 euro, sono studenti universitari sotto i trent’anni oppure tirocinanti e apprendisti. I lavoratori dipendenti come Chiara dividono una parte dell’importo dovuto per la loro assicurazione sanitaria con il datore di lavoro, mentre l’altra parte è direttamente detratta dall’ente sanitario in busta paga. Nel momento in cui Gorillas ha smesso di corrisponderle il salario mensile l’ente sanitario le ha inviato una comunicazione in cui le spiegava che per le successive due settimane sarebbe stata coperta da un’assicurazione minima, che le permetteva ad esempio di recarsi dal dentista per un controllo ma che non le avrebbe coperto le spese di un’eventuale operazione chirurgica o di interventi più complessi. Se il prerequisito dell’assunzione da dipendente manca, in Germania il lavoratore passa ad un regime sanitario riservato agli autonomi e liberi professionisti che comporta l’esborso dell’intera quota dell’assicurazione sanitaria a suo carico.

Un paragone con l’Italia

In molti Paesi europei, il lavoro del fattorino è svolto perlopiù da migranti spesso in una situazione di irregolarità. In Italia, iscriversi al sistema sanitario nazionale significa avere in tasca un permesso di soggiorno e svolgere un’attività lavorativa dipendente o autonoma regolare, e ciò rende la platea degli aventi diritto più ristretta. Inoltre, ottenere un documento di identità, un codice fiscale o un tesserino sanitario – anche se regolari – non è sempre facile a causa di una mancanza di rete sociale che avrebbero nel loro Paese d’origine, e per via di barriere linguistiche o culturali.

Alle Questure italiane ad esempio occorrono mesi prima di rilasciare alle persone straniere con il permesso di soggiorno scaduto un appuntamento per il rinnovo. Come in un sistema a matrioska, senza quel documento non è possibile ottenerne altri ed accedere anche all’assistenza sanitaria. La procura di Milano a fine marzo ha annunciato di aver aperto una seconda inchiesta sul mondo del food delivery volta a tracciare un quadro sullo scambio di account personali tra rider in regola e non, mezzo al quale ricorrono molti fattorini per ovviare alla mancanza di documenti di soggiorno in Italia, e sulle eventuali responsabilità delle piattaforme in merito.

A ottobre 2021, durante le elezioni del consiglio dei lavoratori, Majumdar si è recato insieme ad altri sindacalisti immigrati in ogni store di Gorillas e Getir – un’altra piattaforma di spesa a domicilio – per informare rider e picker (coloro che mettono insieme la spesa da dare poi ai rider per la consegna, ndr) delle elezioni in corso e invitarli a votare. «Dovrebbe farlo l’azienda, come dovrebbe dire ai lavoratori che quel tempo è pagato ed è un diritto andarci. Di fatto non lo fanno. Abbiamo incontrato rider che si convincevano in poco tempo, altri che ci hanno messo mezz’ora, altri ancora che ci hanno guardato spaventati», commenta Majumdar.

Il lavoro di sindacalizzazione, soprattutto se svolto dal basso e se non poggia su una rete che invece le sigle tradizionali possiedono, è estenuante e quasi totalmente gestito da pochi individui che dedicano buona parte della loro giornata agli altri. «In quei cinque giorni ho lavorato tutto il giorno e dormivamo dalle tre alle cinque ore a notte», continua. A suo parere, nonostante ci sia un rapporto con la politica e i sindacati maggioritari, si può fare di meglio. Anzi, si deve fare di meglio. Per questa fetta di lavoratori del digitale, spiega Majumdar, la sindacalizzazione «non è una questione di volere. È una questione di bisogno».

Foto: Luca Quagliato
Editing: Paolo Riva

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