#SuisseSecrets
Occrp
Nel tumultuoso ambiente politico della Libia, Hassan Tatanaki è un survivor. Nato a Bengasi, nell’est della Libia, discende da una famiglia di imprenditori. Oggi dice di essere più coinvolto nella filantropia che nell’impresa, per quanto ricopra ancora posizioni apicali nelle società del suo gruppo, che spazia dallo sviluppo immobiliare al marketing, dall’oil&gas, il business principale, alla fornitura di calcestruzzo. Grazie alla sua influenza e al suo potere economico è sempre stato un pezzo importante della politica libica, sia come promotore degli interessi della famiglia Gheddafi, sia come finanziatore della rivoluzione del 2011. Ora ha fondato un partito con il quale ha deciso di correre per le elezioni presidenziali della Libia che avrebbero dovuto tenersi nel dicembre 2014.
Il longevo dittatore Muammar Gheddafi negli anni Settanta aveva nazionalizzato tutte le attività economiche della Libia, comprese quelle della famiglia Tatanaki. Hassan Tatanaki ha per questo trascorso diversi anni all’estero fino a quando nel 1990 ha deciso di fare ritorno in patria per lanciarsi nel settore petrolifero con la Challenger Limited. Da allora in avanti ha finanziato gli sforzi di promozione del governo di Gheddafi negli Stati Uniti, anche quando la Libia era un Paese sotto sanzioni internazionali.
Dopo l’esplosione delle proteste contro il regime Gheddafi nel 2011 però, Tatanaki si è rapidamente sintonizzato sulle frequenze dei manifestanti, dei quali è diventato un sostenitore. Durante la guerra civile che ne è seguita, ha sostenuto Khalifa Haftar, il generale ribelle che combatte contro il governo di Tripoli riconosciuto dalle Nazioni unite, e ha fondato anche un canale televisivo apertamente anti-islamista. L’Esercito nazionale libico di Haftar conta infatti tra i suoi alleati milizie che si schierano contro i gruppi militari d’ispirazione religiosa (a parte pochissime eccezioni). Ora ha deciso di candidarsi alle elezioni in Libia con il supporto di un partito laico e con l’obiettivo di sostenere le martoriate istituzioni pubbliche della Libia.
All’inizio degli anni Duemila, una società di trading petrolifero in cui era coinvolto è stata accusata di aver ottenuto contratti vantaggiosi a discapito delle finanze pubbliche della Giordania e del Venezuela. In Libia, le autorità insediatesi post Gheddafi lo hanno brevemente inserito nella lista dei ricercati dell’Interpol per crimini finanziari come molti ritenuti vicini all’ex rais.
Dal 1988 Tatanaki è stato anche titolare di almeno otto conti presso il Credit Suisse, di cui il più ricco, nel 2010, appena un anno prima della rivolta libica, conteneva 530 milioni di franchi svizzeri (736 milioni di euro, con il cambio dell’epoca) depositati, come rivelano i dati di Suisse Secrets. Almeno due di questi conti sono rimasti aperti fino a pochi anni fa.
Tatanaki, contattato da Occrp, ha negato qualsiasi accusa a suo carico e ha ribadito di essere solo un normale uomo d’affari, che a volte è stato frainteso o attaccato in malafede. Ha affermato di non aver mai sostenuto personalmente né Gheddafi né Haftar. Occrp non ha prove che abbia effettivamente commesso dei crimini.
Tatanaki ha confermato di essere un cliente di Credit Suisse, ma ha detto di non essere a conoscenza del conto corrente da 530 milioni di franchi.
#SuisseSecrets, il progetto
Suisse Secrets è un progetto di giornalismo collaborativo basato sui dati forniti da una fonte anonima al giornale tedesco Süddeutsche Zeitung. I dati sono stati condivisi con Occrp e altri 48 media di tutto il mondo. IrpiMedia e La Stampa sono i partner italiani del progetto.
Centocinquantadue giornalisti nei cinque continenti hanno rastrellato migliaia di dati bancari e intervistato decine di banchieri, legislatori, procuratori, esperti e accademici, e ottenuto centinaia di documenti giudiziari e finanziari. Il leak contiene più di 18 mila conti bancari aperti dagli anni Quaranta fino all’ultima decade degli anni Duemila. In totale, lo scrigno è di oltre 88 miliardi di euro.
«Ritengo le leggi sul segreto bancario svizzero immorali – ha dichiarato la fonte ai giornalisti-. Il pretesto di proteggere la privacy finanziaria è semplicemente una foglia di fico che nasconde il vergognoso ruolo delle banche svizzere quali collaboratori degli evasori fiscali. Questa situazione facilita la corruzione e affama i Paesi in via di sviluppo che tanto dovrebbero ricevere i proventi delle tasse. Questi sono i Paesi che più hanno sofferto del ruolo di Robin Hood invertito della Svizzera».
Nel database di Suiss Secrets ci sono politici, faccendieri, trafficanti, funzionari pubblici accusati di aver sottratto denaro alle casse del loro Paese, uomini d’affari coinvolti in casi di corruzione, agenti dei servizi segreti. Ci sono anche molti nomi sconosciuti alle cronache giudiziarie.
Credit Suisse non ha dato risposta alle domande specifiche su Tatanaki, ma in un comunicato ha dichiarato di «rigettare con forza le affermazioni e le deduzioni sulle presunte pratiche commerciali della banca» formulate dai giornalisti nel progetto Suisse Secrets.
«Le questioni riportate sono prevalentemente storiche, in alcuni casi risalenti agli anni Settanta, e i resoconti riguardo tali questioni si basano su informazioni parziali e selettive estrapolate dal contesto, dando luogo a interpretazioni tendenziose della condotta commerciale della banca», ha scritto la banca nel suo comunicato di risposta.
Secondo Graham Barrow, consulente britannico in materia di criminalità finanziaria, le banche hanno una particolare responsabilità nel controllare i clienti accusati di corruzione oppure che hanno legami con governi coinvolti in simili reati: «Tutti dovrebbero avere accesso al sistema bancario… – ha spiegato -. Si dovrebbe però evitare di permettere che il sistema bancario legittimi la ricchezza acquisita con la corruzione e ripulsca il denaro». «Alla fine – ha concluso – è impossibile distinguere il denaro pulito da quello sporco».
Gli oligarchi della Libia
di Lorenzo Bagnoli
Anche la Libia ha i suoi oligarchi. Quest’inchiesta di Occrp su Hassan Tatanaki apre uno squarcio su ciò che resta di un sistema di potere che passa ancora per alcuni degli uomini che più hanno aiutato Muammar Gheddafi a prosperare, anche se con la rivoluzione del 2011 hanno poi cambiato bandiera. Non solo: rivela anche come la guerra per procura che si combatte in Libia (per semplificare: Turchia e Unione europea schierati – seppur con fratture in seno all’Ue – a favore di Tripoli e Russia ed Emirati arabi uniti a favore di Haftar) passi anche attraverso uomini d’affari libici che si muovono fuori dal Paese. Hassan Tatanaki non fa eccezione: ha una parte consistente del suo impero commerciale negli Emirati arabi uniti, che hanno ovviamente molto interesse a mantenere una presenza amica nella Libia che verrà.
Sono anni che in Libia le Nazioni unite cercano di organizzare le elezioni. Quelle evaporate della fine del 2021 erano entrate nel vivo quando a un certo punto aveva cercato di candidarsi Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi ed ex socio di Tatanaki, accreditato di un certo consenso. Sembra tuttavia sempre più difficile riappacificare la Libia attraverso un voto.
Intorno al caos che domina sul campo, però, ci sono influenti uomini d’affari che hanno buona parte dei loro business all’estero, ma che vogliono comunque cercare di entrare a far parte nel nuovo gruppo di potere che emergerà nella futura Libia. La loro principale preoccupazione, a tutela dei loro affari, è garantire, attraverso le proprie reti di lobbisti, anche una legittimità internazionale alla Libia che verrà. In fondo lo stesso Abdul Hamid Dbeibeh, il presidente ad interim del Governo di unità nazionale di Tripoli, che intende anche lui candidarsi quando si andrà alle urne, è un imprenditore delle costruzioni che ha avuto un forte sostegno da Muammar Gheddafi. Lo sostiene Mohamed El-Taher Issa, che è proprietario di una nuova compagnia aerea che dalla Libia porta a Malta. A volte gli interessi di questi businessman s’intrecciano
Un altro imprenditore che in vista del voto aveva fatto ritorno in Libia è stato Husni Bey, uomo d’affari che lavora nei settori finanziario, assicurativo, immobiliare e di distribuzione di beni di consumo. È finito più volte in carcere nell’epoca di Gheddafi perché aveva interessi diversi da quelli del dittatore. Ha ottimi rapporti in particolare in Italia, dove c’è una delle più importanti sedi del suo gruppo imprenditoriale.
Questi soggetti sono quelli che più di tutti hanno costruito una serie di relazioni fuori dalla Libia. Saranno importanti per il futuro del Paese tanto quanto i signori della guerra locali come i Busriba, di cui abbiamo scritto, oppure i Koshlaf.
Lobbista per la Libia
Nel marzo 1992, il Consiglio di sicurezza dell’Onu impose sanzioni alla Libia per spingere Gheddafi a collaborare alle indagini sull’attentato di Lockerbie, in Scozia. Il 21 dicembre 1988 l’esplosione di un aereo della PanAm, infatti, provocò la morte di 270 persone (principalmente americani), 259 a bordo e undici a terra. Pochi mesi prima, nel novembre 1991, i due principali organi della magistratura di Stati Uniti e Scozia accusarono un agente segreto libico di essere l’esecutore dell’attentato (è stato condannato nel 2001). L’embargo ha avuto un forte impatto economico sul Paese e ha reso più difficile per il governo libico operare all’estero.
Dopo aver vietato l’impresa privata, nazionalizzando tutti i settori dell’economia, il regime di Gheddafi ha iniziato a far coltivare numerosi uomini d’affari, a volte gli stessi a cui erano state prima confiscate le proprietà. Li ha impiegati come “intermediari” finanziari per spostare denaro dalla Libia all’estero, spiega Tim Eaton, ricercatore del think tank londinese Chatham House: «Con le sanzioni dopo l’attentato di Lockerbie – aggiunge – è emerso chiaramente il vero e proprio disastro economico che era in corso in Libia e il regime ha capito che doveva cambiare rotta».
All’epoca Tatanaki era tornato in Libia dopo anni trascorsi all’estero. Aveva appena fondato, grazie alle amicizie con Gheddafi, la sua società petrolifera. Lo stesso mese in cui furono imposte le sanzioni dell’Onu, Tatanaki iniziò quella che sarebbe stata una lunga carriera di finanziamento delle attività di lobbying per promuovere il governo di Gheddafi negli Stati Uniti.
Per prima cosa firmò un accordo con un’azienda dell’isola di Jersey chiamata GBM Consultancy Ltd, di proprietà di due ex membri del Congresso degli Stati Uniti, David Bowen e John Murphy. Già nel 1980 Murphy era stato costretto a dimettersi dal Congresso in seguito a uno scandalo per concussione ed ha trascorso in carcere quasi due anni. Il contratto di un anno, firmato in Marocco, stabiliva che Tatanaki avrebbe agito come procuratore per la società, pagando 450 mila dollari come anticipo e 225 mila dollari al mese per coprire i costi. In cambio, l’azienda avrebbe lavorato per «normalizzare le relazioni tra gli Stati Uniti d’America e la Libia» e «ritrarre l’immagine della Libia e della sua amministrazione [sic] in una visione più favorevole».
Nel 1993, quando la società era già stata chiusa, Bowen e Murphy sono stati multati dal governo statunitense per aver violato le sanzioni sulla Libia e sono stati condannati a pagare 30 mila dollari, una cifra irrisoria rispetto al volume che avrebbero voluto spostare. Il collegamento tra Tatanaki e i due è stato ampiamente riportato dai giornali, così come l’attività di lobbista per conto del governo di Gheddafi. Eppure questo ruolo non sembra aver influito sulla possibilità di essere un cliente di Credit Suisse: tre conti correnti, aperti nel 1988 e nel 1991, sono infatti rimasti aperti anche a seguito di questi episodi. Un quarto è stato aperto nel 1999 a suo nome, insieme ad altri tre titolari, tra cui due membri della famiglia.
Tatanaki ha dichiarato a OCCRP che la sua attività di lobbying è stata legale e non era finalizzata a promuovere Gheddafi o il suo regime, ma piuttosto ad aiutare il popolo libico, che stava sopportando il peso delle sanzioni.
Dopo che le Nazioni unite hanno revocato le sanzioni alla Libia nel 2003, Tatanaki ha continuato a finanziare attività di lobby mentre il Paese cercava di rilanciarsi. Nel 2007 avrebbe contribuito a finanziare uno sforzo del governo, guidato dal figlio di Gheddafi Saif Al-Islam, per trasformare l’antica città di Cirene in un centro di “eco-turismo” (il progetto non è mai decollato e non è chiaro se e quanto denaro sia stato effettivamente fornito).
Nel 2008, Tatanaki ha finanziato un’altra campagna a favore della Libia. Nel gennaio dello stesso anno ha firmato un contratto con la società di consulenza statunitense Brown Lloyd James Worldwide, accettando di pagare 35.000 dollari al mese. In cambio, la società ha dichiarato che avrebbe aiutato «cittadini libici», non meglio identificati a contattare politici e accademici statunitensi, e di aver aiutato Saif Al-Islam a organizzare programmi di ricerca e per lo studio all’estero.
In un altro documento, Brown Lloyd James ha dichiarato di aver fornito consulenza su un editoriale a firma di Gheddafi e di aver contribuito a organizzare la famosa visita del 2009 del dittatore a New York per partecipare all’Assemblea generale delle Nazioni unite, durante la quale Gheddafi ha strappato pubblicamente una copia dello Statuto dell’Onu. Brown Lloyd James ha poi dichiarato di aver ricevuto oltre 1,25 milioni di dollari dalla missione libica presso il Palazzo di Vetro.
Lo scandalo del petrolio giordano
Le connessioni ad alto livello di Tatanaki si estendevano però ben oltre la Libia. Dopo il trasferimento della sua famiglia in Egitto negli anni Settanta, Tatanaki ha collaborato con personalità di spicco. Mentre studiava in Gran Bretagna, ha frequentato anche i membri della famiglia reale emiratina. Ha persino ottenuto un passaporto degli Emirati, oltre a quelli di Egitto, Turchia e Brasile.
Nel 2004, uno scandalo in Giordania ha mostrato come le connessioni internazionali di Tatanaki potessero invischiarlo in accuse di appropriazione indebita, commessa grazie alla partecipazione a un sistema clientelare.
La controversia ebbe inizio dopo l’annuncio che il Kuwait aveva concesso alla Giordania una fornitura di 25 mila barili di petrolio al giorno per un anno. L’allora ministro del petrolio del Kuwait, Ahmed Al-Fahad, disse ai media che la fornitura era stata «offerta alla Giordania come compensazione per ciò che aveva perso dal petrolio iracheno durante la guerra di liberazione dell’Iraq».
Il ministro Al-Fahad ha però glissato sul fatto che il petrolio non sarebbe stato utilizzato direttamente dalla Giordania, ma venduto sui mercati internazionali. I funzionari giordani hanno sostenuto che fosse necessario in quanto il greggio era troppo pesante per essere raffinato nel loro Paese.
Non è stato nemmeno reso noto che i proventi della vendita del petrolio non sarebbero stati depositati nelle casse pubbliche della Giordania, ma sarebbero invece stati trasferiti sul conto statunitense di una società registrata nel Delaware chiamata Free Market Petroleum. Tra gli azionisti di quest’ultima società c’era anche Tatanaki.
Quando un membro del parlamento kuwaitiano ha reso pubbliche queste informazioni, si è scatenato un putiferio in Kuwait e in Giordania.
I funzionari giordani e kuwaitiani non hanno mai detto quanto petrolio sia stato effettivamente venduto nè a quale prezzo. Dato che all’epoca il costo al barile oscillava tra i 30 e i 40 dollari, si può stimare con prudenza una fornitura da 270 milioni di dollari all’anno.
Sui giornali di Giordania e Kuwait ci sono state molte critiche all’accordo, e sospetti in merito alla destinazione finale dei fondi. Parlamentari giordani hanno chiesto di sapere perché i pagamenti non erano stati fatti attraverso la loro banca centrale, una domanda rimasta senza risposta da parte del governo giordano.
L’intera storia non è mai stata davvero chiarita, ma la controversia, col tempo, è scomparsa dai titoli dei giornali.
Secondo Tatanaki l’accordo mirava solo ad aiutare a vendere il petrolio per conto dei giordani, ma non è mai stato completato. Ha aggiunto che le accuse dei membri del parlamento giordano nei suoi confronti sono infondate e «totalmente fuori luogo» e che non si è quindi mai preoccupato di rispondere. Ha confermato di essere un azionista della Free Market Petroleum, ma non ha fornito ulteriori informazioni. La società, ha detto, è stata in definitiva uno «spreco di denaro» perché non ha prodotto alcun affare concreto.
Alla domanda se fossero stati effettuati pagamenti sul conto della Free Market Petroleum, ha risposto: «Per quanto ricordo, nessuno».
I rapporti di Tatanaki con Credit Suisse sono proseguiti anche dopo la denuncia del suo ruolo nell’affaire Giordania-Kuwait: nel 2006 sono stati aperti due conti a suo nome, uno dei quali insieme ad altri due membri della sua famiglia. Un altro, anch’esso con due parenti, è stato aperto nel 2009.
Da Amman a Caracas
A migliaia di chilometri di distanza, la Free Market Petroleum è stata coinvolta in un altro caso simile, questa volta riguardante la vendita di petrolio per conto della compagnia petrolifera statale venezuelana Petróleos de Venezuela S.A. (PDVSA).
In base a un accordo triennale firmato nel gennaio 2003, la Free Market Petroleum avrebbe dovuto vendere 50 mila barili di petrolio al giorno, dalla PDVSA alla Strategic Petroleum Reserve del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti. I termini dell’accordo non sono stati resi pubblici, ma i dettagli sono poi trapelati ai media.
L’accordo, del valore potenziale di oltre 1 miliardo di dollari, ha suscitato un’attenzione particolare in Venezuela e negli Stati Uniti per diversi motivi. La PDVSA è solita condurre le trattative direttamente con gli acquirenti, non attraverso intermediari, e la Free Market Petroleum – che avrebbe potuto realizzare un profitto significativo – non era in alcun modo accreditata in Venezuela. Una bozza dell’accordo, visionata da Occrp, includeva anche una clausola che permetteva alla Free Market Petroleum di vendere il greggio ad acquirenti diversi dalla Strategic Petroleum Reserve con l’approvazione della PDVSA.
Il rappresentante venezuelano per l’accordo era l’ex ministro dell’Energia e presidente della PDVSA Rafael Ramírez, che la Commissione del congresso venezuelano del 2016 ha ritenuto responsabile di corruzione e illeciti che sono costati alla PDVSA 11 miliardi di dollari.
L’accordo ha attirato l’attenzione anche per il coinvolgimento di Jack Kemp, ex segretario degli Stati Uniti per la casa e lo sviluppo urbano e candidato alla vicepresidenza nella lista di Bob Dole, senatore Repubblicano e candidato alla presidenza degli USA nel 1996. La bozza del contratto indicava Kemp come firmatario della Free Market Petroleum e indicava fra i suoi azionisti l’avvocato americano dell’industria energetica William Hickman e Arturo Sarmiento, un uomo d’affari venezuelano che si è arricchito commerciando petrolio e importando whisky scozzese (nessuno dei due ha risposto alle telefonate e alle richieste di commento).
I documenti dei Paradise Papers – trapelati al quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung e condivisi con l’International Consortium of Investigative Journalists – elencano Tatanaki e queste stesse persone come proprietari di una Free Market Petroleum registrata alle Bermuda nel 2003, questa volta insieme a Jamal Ali Abdulla Sanad Al-Suwaidi, che in seguito è diventato consigliere politico di Mohamed bin Zayed quand’era principe della Corona di Abu Dhabi.
Tatanaki ha negato qualsiasi ipotesi di illecito nell’accordo, che a suo dire non è mai stato attuato. Ha sottolineato che all’epoca non esistevano sanzioni o altri divieti a trattare con il Venezuela.
Dopo la rivoluzione
Nel febbraio 2011, la Primavera araba ha investito la Libia. Le manifestazioni hanno rapidamente lasciato il posto a una rivolta armata, sostenuta dalla potenza aerea della Nato.
Mentre i ribelli avanzavano, Tatanaki iniziò a modificare il suo brand, innanzitutto creando un’associazione di beneficenza chiamata Libya Al Hurra Foundation (Fondazione Libia Libera), registrata in California con uffici in Egitto, Libia e Tunisia. Nel 2011, la testata statunitense The Hill ha identificato Tatanaki come il suo principale donatore. Lo ha confermato Omar Khalifa, che si è descritto come un consigliere della fondazione, secondo cui la Fondazione aveva speso più di 20 milioni di dollari dall’inizio della rivoluzione.
Nell’ottobre 2011, la Libya Al Hurra Foundation ha accettato di pagare 15 mila dollari al mese alla Franklin Partnership, una società di lobbisti con sede a Washington DC costituita per informare i politici statunitensi sulle attività della fondazione in Libia, che includono opere civili, sviluppo di infrastrutture e cura dei libici feriti in Egitto e Tunisia.
La svolta di Tatanaki verso una posizione più favorevole alla rivoluzione non ha impedito alle autorità libiche, dopo la caduta di Gheddafi, di inserirlo per un breve periodo nella red notice, la lista dell’Interpol che include latitanti da tutto il mondo, con l’accusa di frode. I documenti dell’Interpol non chiariscono quando o perché Tatanaki sia stato rimosso. Tatanaki ha detto che le accuse sono derivate da un attacco personale da parte di un singolo funzionario e sono state chiarite «nel giro di una settimana» dopo aver presentato i documenti necessari alle autorità.
Dopo la caduta di Gheddafi, la Libia è stata dilaniata dagli scontri tra milizie rivali. Nel maggio 2014, il generale ribelle Khalifa Haftar ha lanciato una campagna per attaccare le milizie filo-islamiste a Bengasi, nella Libia orientale. La campagna si è poi trasformata in una vera e propria ribellione contro il governo riconosciuto dalle Nazioni unite a Tripoli, nella Libia occidentale, dividendo il Paese in due.
Nei resoconti dei media, Tatanaki è stato spesso descritto come un sostenitore di Haftar. In un’intervista, ha definito la campagna di Haftar «il futuro della Libia». Nell’agosto 2014, in un’intervista rilasciata a Foreign Policy dal suo ufficio a Dubai, si è definito «partner» del generale ribelle.
Tatanaki ha dichiarato a Occrp di non aver sostenuto Haftar in prima persona, ma di aver appoggiato la campagna agli inizi perché la vedeva come un possibile modo per affrontare la minaccia delle milizie islamiste e per ricostruire le istituzioni libiche.
Nel 2017, il nome di Tatanaki è emerso anche in relazione all’ex procuratore capo della Corte penale internazionale, Luis Moreno Ocampo. Secondo i documenti ottenuti dal giornale francese Mediapart, analizzati dalla European Investigative Collaborations e condivisi con Occrp, nel 2015 Tatanaki ha firmato un accordo per pagare a Ocampo tre milioni di dollari in tre anni per servizi di consulenza (il contratto è stato concluso prima della scadenza e solo la prima rata di 750 mila dollari è stata pagata).
Ocampo ha dichiarato di aver accettato il lavoro nel tentativo di aiutare i libici. Ma i documenti dimostrano che era stato informato dei legami potenzialmente problematici di Tatanaki.
Diverse e-mail, ad esempio, indicano chiaramente la sua relazione con Haftar e i suoi sostenitori regionali. In una di queste, Omar Khalifa, dipendente di Tatanaki, ha anche detto a Ocampo che si erano incontrati con «apparati di sicurezza» egiziani e che «Hassan è in comunicazione con il capo dell’intelligence nazionale egiziana».
In un’altra e-mail, uno dei dipendenti di Ocampo segnala un audio su YouTube, apparentemente di una telefonata intercettata di Saif Al-Islam Gheddafi durante i primi giorni della rivolta, in cui il figlio del dittatore dice che Tatanaki stava ancora «facendo il suo lavoro» per sostenere il regime. Tatanaki ha replicato di essere stato travisato nella telefonata e di non aver avuto alcun contatto con Saif Al-Islam all’epoca.
Nel maggio 2015, un leader militare vicino ad Haftar è apparso sul canale televisivo Libya Awalan, di proprietà di Tatanaki per dichiarare che coloro che non si fossero uniti a Haftar sarebbero stati «massacrati» e «le loro donne violentate davanti ai loro occhi». Il video non chiarisce se fosse una minaccia o se fosse un allarme per le atrocità che i militanti islamisti avrebbero potuto commettere se non fermati in tempo, ma le email di cui Mediapart è entrata in possesso mostrano che il team di Ocampo considerava l’incidente come potenzialmente problematico.
Pochi giorni dopo, Ocampo scrisse a Omar Khalifa per suggerirgli di sviluppare un piano per proteggere Tatanaki da un eventuale processo della Corte penale internazionale, come risulta dai documenti. I risultati sono stati ampiamente riportati da Der Spiegel, Financial Times e Sunday Times.
Raggiunto per un commento, Ocampo ha detto: «Non ci sono errori a cui dare spiegazioni: Hassan Tatanaki, un cittadino libico, mi ha chiesto un consiglio su come la giustizia internazionale potesse contribuire a porre fine alla violenza nel suo Paese».
Ocampo ha sostenuto di aver subito un furto di dati personali nell’ambito di un conflitto tra i Paesi del Golfo che coinvolge la Libia e che «le informazioni confidenziali sono state utilizzate per condurre un attacco infondato contro la reputazione di Tatanaki, la mia integrità e la Corte penale internazionale».
Tre dei conti Credit Suisse di Tatanaki sono stati chiusi nell’anno successivo all’inizio della rivolta. Ma almeno due sono rimasti aperti fino a pochi anni fa, secondo i dati di Suisse Secrets.
Alla fine dello scorso anno, Tatanaki ha annunciato che sarebbe entrato nella mischia politica libica e si sarebbe candidato alle elezioni presidenziali previste per dicembre.
Il suo aereo è arrivato all’aeroporto Mitiga di Tripoli il 22 novembre. Per ragioni non chiare, è stato brevemente trattenuto, ma presto rilasciato. Ha presentato la sua candidatura e il suo nome è stato inserito in una lista di oltre 70 candidati.
A seguito di altre complicazioni interne e divisioni politiche c’è stato un nuovo rinvio delle elezioni in Libia. Secondo gli esperti, le possibilità di successo elettorale di Tatanaki sono sempre state scarse. Ma questo non lo ha scoraggiato. Alla domanda se avesse ancora intenzione di candidarsi alla presidenza, ha risposto a Occrp: «Assolutamente sì».
L’articolo è un adattamento in italiano di IrpiMedia. Questo è l’articolo in inglese originale.
CREDITI
Autori
Occrp
Traduzione e adattamento
Editing
Giulio Rubino
Foto di copertina
(Hassan Tatanaki/Facebook)