La mattanza invisibile
Un sommozzatore svela le reali conseguenze della pesca al tonno rosso nel Mediterraneo. Gli esemplari morti sono molti di più di quanto dichiarato, e le quote di trasferimento vengono sforate senza alcuna preoccupazione. In un settore impregnato di omertà
30 Novembre 2022

Cecilia Anesi
Simone Olivelli

Tutt’attorno al rimorchiatore, in cerchio, si muovono grandi pescherecci. Cercano il banco di tonni rossi. Alcuni pescherecci del gruppo sono lontanissimi, anche a 50 miglia. Un peschereccio avvista il banco, si avvicina, cala la rete e lo circonda. I tonni restano intrappolati, migliaia di pesci enormi che continuano a nuotare in circolo. È allora che si avvicina il rimorchiatore. A bordo ci sono sei sommozzatori, devono scendere a controllare che il banco non sia di pesci troppo giovani. I sub si preparano: infilano la muta, le pinne, la maschera e il boccaglio. E controllano la pressione della bombola: deve essere piena.

Qui si scende a 30 metri, a volte anche 50-60, non è lavoro da principianti. I sub scendono dal rimorchiatore su di un piccolo gommone d’appoggio, e navigano fino al cianciolo, la grande rete che ha catturato il banco. L’operazione deve essere fatta in fretta. Tempo per le ultime istruzioni concitate, un tuffo e poi è il silenzio. Dal caos della superficie si entra in un mondo sommerso e ovattato: iniziano a parlarsi a gesti, la missione deve essere chiara prima di tuffarsi.

Una premessa sulla sostenibilità

di Giulio Rubino

Si è conclusa la settimana scorsa l’annuale riunione di Iccat a Lisbona. Iccat, organismo intergovernativo che regola gli accordi internazionali per la pesca ai grandi pelagici migratori, in particolare del tonno rosso (bluefin tuna), è un entità intergovernativa e gode, nella sua sede di Madrid, di uno status diplomatico simile a quello delle ambasciate.
Non è quindi interrogabile con richieste di accesso agli atti e, a parte alcuni specifici “osservatori” accreditati come il WWF, opera al di sopra della maggior parte degli scrutini possibili alla società civile.

Dalla conferenza di quest’anno sono usciti fuori comunicati con toni di soddisfazione, che annunciano una nuova strategia per “ garantire pesca sostenibile e redditizia a lungo termine” nella gestione dello stock ittico. Forti dell’indiscutibile crescita degli stock di tonno rosso, che solo 15 anni fa appariva quasi a rischio estinzione, è facile vedere nella gestione Iccat della risorsa “tonno rosso” un modello di successo. Ma ci sono ombre scure su questa idilliaca rappresentazione dei fatti.

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Giovanni si tuffa all’indietro, dentro l’acqua scura. Lo seguono gli altri sub. Il Mediterraneo li inghiotte, le bolle d’aria e la luce si allontanano e nella rapida discesa c’è sempre più buio. Finalmente la rete del cianciolo, e al suo interno il banco di pesci. Giovanni cerca l’apertura, afferra la cucitura con le mani, ne scioglie i nodi e si fa spazio per entrare. Lo seguono i colleghi, nuotando come pesci.

I tonni non hanno mai visto esseri umani, e non ne hanno paura. Con quelle lunghe pinne forse sembrano a loro solo un’altra strana specie marina. Ma agli occhi dei sub il panorama è molto diverso. I tonni, pesci da 400-500 chili, sfrecciano grandi come automobili accanto ai sommozzatori. È un movimento continuo, e i sub sono in confusione mentre controllano che il banco sia composto da pesci abbastanza grossi. Sì, i pesci sono enormi, sono quelli giusti. Adesso si può tornare in superficie, e organizzare la seconda discesa, quella del trasferimento.

A tracolla hanno la fiocina, armata con cariche esplosive. «Pallettoni da cinghiale», li chiamano gli addetti ai lavori. Mentre si danno il comando per uscire dalla rete, un pesce spada catturato per sbaglio in mezzo ai tonni, inferocito, si lancia contro di loro. Giovanni vede la spada puntare contro di lui, prova a nuotare all’indietro guardando l’enorme pesce tramutarsi in un’esplosione di rosso. Un altro sub ha sparato, salvandolo.

Un peschereccio durante la caccia al tonno – Foto: Gema Alvarez Fernandez/Getty

«Siamo tutti d’accordo già dall’inizio, queste cose si sanno. O lavori così o non ti imbarchi». Al largo delle coste del Mediterraneo, ogni primavera, si svolge una delle attività più redditizie legate al mare: la caccia ai tonni. A essere coinvolti sono Paesi di tre continenti. Europei e africani per la pesca e l’allevamento, asiatici – leggasi Giappone – nella veste di acquirente finale di quello che, sempre più a ragion veduta, viene definito l’oro rosso. E come per tutti i beni preziosi, anche attorno al tonno ruota un mondo i cui protagonisti – ormai lontani dai riti della tradizione, come la mattanza, che segnavano i ritmi delle comunità locali – si muovono su scala internazionale, comunicano in inglese e, soprattutto, fatturano cifre a parecchi zeri.

Un mondo governato da regole sulla carta molto rigorose sotto l’egida dell’Iccat – l’organismo transnazionale nato per tutelare la specie – ma sul cui rispetto è lecito nutrire seri dubbi. Sono tanti, infatti, gli elementi che fanno temere l’esistenza di ampie falle nei controlli e l’impossibilità di garantire un monitoraggio puntuale e indipendente di ciò che avviene nelle varie fasi della filiera.

Un primo squarcio su una realtà che, per sua natura, si svolge lontano dagli occhi dei non addetti ai lavori è stato aperto nel primo capitolo dell’inchiesta Tonno Nero, con cui IrpiMedia ha posto al centro dell’attenzione il ruolo delle società che si occupano della formazione degli osservatori chiamati a verificare che le operazioni di pesca e trasbordo dei tonni vengano effettuate secondo le regole. Adesso, invece, a gettare ombre sulle attività che si svolgono in mare aperto è qualcuno che, accanto ai tonni, trascorre lunghi periodi. Si tratta di uno delle decine di sommozzatori che, ogni anno, vengono chiamati a lavorare a fianco dei pescherecci che utilizzano il sistema della circuizione, ovvero le amplissime reti circolari in cui i tonni vengono imprigionati per poi essere trasferiti vivi nelle gabbie che, a loro volta, verranno trasportate fino alle cosiddette farm.

Queste ultime sono dei veri e propri allevamenti, o meglio, delle gabbie di ingrasso, e si trovano a Malta. L’isola dei cavalieri rappresenta il capolinea della filiera nel Mediterraneo, l’ultima tappa prima del trasferimento dei tonni nei mercati del Sol Levante, previo però il loro oculato – e fortemente preteso – ingrassamento.

Un allevamento ittico nel Mediterraneo – Foto: Getty

Fondali trasformati in cimiteri

«Non ti puoi mettere contro questa gente, non è nemmeno una mafia, è più di una mafia». A parlare è Giovanni. Il nome è di fantasia perché ha paura di essere riconosciuto e di subire ritorsioni che, sostiene, potrebbero andare ben oltre la semplice perdita del lavoro. Giovanni si sbilancia nel paragone con la criminalità organizzata, quando gli si chiede se, a fronte delle tante cose illecite viste e fatte in mezzo al mare, ci sarebbe la possibilità di dire di no, di opporsi. «Stiamo parlando di un business enorme, milioni e milioni di euro», avverte.

Quella del sub è una figura che entra in gioco in più momenti della pesca. I compiti vanno dal coinvolgimento nelle fasi successive alle catture al contributo richiesto nelle operazioni di controllo. Un ruolo particolare, non tutelato da leggi internazionali come quello dell’osservatore, eppure cruciale per il tipo di informazioni che raccoglie di prima mano, senza la supervisione di nessuno. Proprio per questo, quella di Giovanni diventa la posizione privilegiata per poter affermare che, dichiarazioni ufficiali e proclami a parte, quello del tonno è un mondo in cui la trasparenza sembra essere ancora un miraggio.

C’è di più: al netto dei dati scientifici che confermano il trend positivo sul fronte del ripopolamento dei mari, la pesca con la circuizione sarebbe tutt’altro che un sistema sostenibile. Questo perché, in nome del profitto, si accetterebbero enormi sprechi sotto forma di animali morti lasciati marcire nei fondali, con il principale obiettivo di sfuggire al calcolo relativo al raggiungimento delle quote.

Un banco di tonni – Foto: Getty

«Faccio questo lavoro da molti anni – racconta Giovanni -. Siamo assunti dalle farm maltesi e inviati con un rimorchiatore a partecipare alle joint fishing operations (JFO), le grandi operazioni di pesca congiunta che coinvolgono anche 20 barche a circuizione, a volte anche di più Paesi: Italia, Malta, Francia, Spagna, Tunisia, Libia. Il nostro compito iniziale è quello di prendere i tonni dalla rete a circuizione e portarli nella gabbia da trasporto. Per farlo – spiega – entriamo nella rete per spaventare il banco di tonni e spingerlo verso l’ingresso della gabbia. Già in questo primo trasbordo muoiono centinaia di pesci».

Stando al racconto del sub, si tratta di un fatto ineluttabile, un costo messo in conto nel momento in cui si calano le reti. Ma a suo modo indolore poiché di fatto non pagato da nessuno: quello che accade a decine di metri di profondità, lì rimane. Anzi, cola a picco.

«Vengono tagliate le reti e questi tonni morti calano giù nei fondali. A volte riemergono in superficie e vengono recuperati in putrefazione dalle paranze a strascico che navigano», prosegue.

All’origine di quella che sembrerebbe una mattanza inevitabile ci sarebbero più motivi. Il primo riguarda il sovraffollamento nelle reti e nelle gabbie: «Capita che ce ne siano per tre o quattro volte il peso massimo che si potrebbe raggiungere. Il tonno a quel punto è molto stressato e in tanti finiscono per morire. I primi controlli che facciamo sono devastanti».

I tonni morti vanno “liberati”, ovvero presi di peso da almeno due sommozzatori, e portati fuori dalla rete. Per due ragioni: la prima, troppi tonni morti rischierebbero di trascinare a fondo anche l’imbarcazione a cui è legata la rete o la gabbia, come sembrerebbe essere già successo. La seconda è invece una ragione venale: se venissero dichiarati, andrebbero scalati dalla quota del peschereccio.

«Andiamo giù e apriamo le cuciture perché tonni morti, in superficie, non ne possono arrivare — chiarisce il sub – Sennò l’osservatore deve per forza togliere quel peso dalla quota e ogni tonno ha un prezzo». Specialmente se si considera il fattore moltiplicatore una volta che ogni esemplare arriva nelle farm, per ingrassare, e poi successivamente essere rivenduto ai ricchi commercianti giapponesi. «Non è il nostro mercato, dove il tonno lo vendono a otto o dieci euro al chilo. Lì parliamo di 130-150 euro al chilo».

Lorenzo, anche questo un nome di fantasia per proteggerne l’identità, è un osservatore regionale che lavora sulle barche a circuizione durante la campagna di pesca al tonno rosso. L’abbiamo raggiunto per corroborare le dichiarazioni di Giovanni. Spiega a IrpiMedia che è noto a tutti, anche a Iccat, che molti tonni possono morire durante le campagne di pesca, data l’estrema delicatezza di questo animale, ma che di fatto l’osservatore non riesce a conteggiarli dato che non può immergersi sott’acqua come il sub. Non essendo previsti video durante i controlli dei sommozzatori, ma soltanto durante il trasferimento dei tonni dal cianciolo alla gabbia di trasferimento, è impossibile per l’osservatore quantificare realmente l’entità della moria.

«Sicuramente a me è successo di aver visto dei tonni morti durante il trasferimento, ma si trovavano a 30-40 metri sott’acqua e non sono testimoniabili – racconta Lorenzo a IrpiMedia -. Io posso dire “guarda, è morto un tonno”, ma loro possono dire “ma no, non era morto, lo abbiamo liberato, perché poi si è ripreso ed è scappato”. È la tua parola contro la loro».

Insomma ci si basa solo su quello che viene dichiarato dai sommozzatori, e quindi poi dagli armatori, e su ciò che si riesce a vedere: se i tonni morti vengono a galla oppure se restano intrappolati nella rete una volta issata dopo il trasferimento. È per questo che a volte, nei rapporti degli osservatori regionali 2020 che IrpiMedia ha potuto visionare, sono stati dichiarati alcuni tonni morti, solitamente meno dell’1% rispetto al pescato, non certo le centinaia di pesci che Giovanni dichiara di avere buttato nei fondali.

Pescherecci ormeggiati al porto di La Valletta, Malta – Foto: Daphne Project

Antonio Di Natale, biologo marino che ha lavorato vari anni in Iccat e in prima linea nella battaglia per la protezione del tonno rosso, raggiunto da IrpiMedia ha confermato di avere ricevuto varie segnalazioni sulla mattanza invisibile del tonno rosso durante le campagne di pesca. Anche IrpiMedia ha ricevuto delle segnalazioni, tra cui una che rappresentava la rabbia e la frustrazione di pescatori di pesce spatola (Lepidopus caudatus) siciliani che, durante operazioni di pesca demersale (sul fondale) nelle zone specifiche per il pesce spatola, si sono trovati a raccogliere centinaia di tonni in decomposizione. Pochi invece i pesci spatola, probabilmente disturbati dalla presenza dei “cimiteri” di tonni, e quei pochi affetti da cattivo odore e sapore.

Sono almeno tre i “cimiteri” identificati dai pescatori e localizzati in tre punti d’altura tra Sicilia e Malta secondo coordinate condivise con IrpiMedia. Nell’area più estesa, secondo le stime dei pescatori, si parla di almeno cento tonnellate di tonno.

Fonti informate sui fatti riferiscono che la moria sia avvenuta alla fine di maggio 2020, quando una circuizione siciliana e una algerina hanno cercato di liberare una parte di tonni che non sarebbe entrata nelle gabbie di trasporto perché in misura nettamente superiore alla quota. Gli altri due cimiteri sono nel punto in cui sono avvenute JFO tra pescherecci italiani e di altri Paesi. A detta dei pescatori di pesce spatola, alcuni dei tonni morti rinvenuti superavano i 400 chili. IrpiMedia ha mandato una richiesta di commento alla maggiore associazione di categoria delle barche a circuizione italiane, l’associazione Tonnieri del Tirreno, con sede a Salerno, ma non ha ricevuto risposta.

Falsi d’autore

Gli anni di esperienza a bordo dei pescherecci hanno portato Giovanni a un convincimento: affinché tutto vada avanti senza intoppi è necessario che a fare la propria parte, fuori dalle regole, sia ogni ingranaggio del sistema. Tutti gli attori sarebbero al corrente di ciò che accade. «Sanno cosa succede, ma nessuno va a controllare. Anche gli osservatori sono loro amici», è l’accusa di Giovanni, secondo il quale le principali farm e gli armatori dei pescherecci, per garantirsi trattamenti di favore, avrebbero anche la possibilità di influenzare l’assegnazione degli osservatori.

Tra i momenti più significativi in cui emergerebbero le complicità, ci sono le riprese subacquee realizzate durante le fasi di trasbordo dei tonni. L’operazione, sulla carta, dovrebbe contribuire alla quantificazione dei tonni pescati e, di conseguenza, alla stima del peso complessivo da decurtare dalla quota assegnata. Un computo che inevitabilmente soffrirebbe di un margine di errore, ma che, stando all’esperienza di Giovanni, verrebbe volutamente falsificato. «È tutta una cosa fatta da noi sommozzatori, gestita prima sott’acqua e poi in superficie, con la collaborazione degli armatori e degli osservatori che visionano i filmati al computer».

Secondo Giovanni, gli armatori dei pescherecci hanno l’occhio allenato rispetto al peso dei tonni, quindi si renderebbero conto quando nella gabbia di trasporto è entrata la quantità di tonno concessa dalla quota. A quel punto viene fermato il video e la seconda parte del trasferimento viene tagliata. «Stimano per esempio una quota e il proseguimento del passaggio dei tonni lo cancellano».

Pescatori maltesi issano un tonno a bordo della propria imbarcazione nell’area tra Malta e Tunisia – Foto: Victor Borg

Lorenzo, l’osservatore regionale, non ha mai vissuto in prima persona una situazione del genere ma spiega che lui, osservatore onesto, si accorgerebbe immediatamente del video truccato. «Se c’è una taglia e cuci e un salto nel video, io osservatore devo dirlo, lo devo dichiarare – sottolinea – perché poi chi riguarda il video in Iccat si accorgerebbe che non hai svolto bene il tuo lavoro. Certo, se sei un osservatore superficiale, che si annoia a guardare tre ore di video, e vai avanti veloce, non ti accorgi che c’è stato un secondo in cui è saltato».

Secondo Antonio Di Natale, al momento non c’è la garanzia che eventuali video truccati vengano scoperti dagli ispettori presenti nella sede Iccat, perché «attualmente Iccat si trova molto sotto organico, quando arrivano centinaia di video è impossibile verificarli bene. Il punto è stato sollevato, e si vorrebbe implementare un metodo automatico più efficace».

Ma al di là di eventuali montaggi di video, secondo l’osservatore Lorenzo, il problema principale è che Iccat ha creato un sistema che ha delle gravi falle. Iccat permette di dichiarare il 10% di margine di errore rispetto alla quantità di pesci, ma questo è chiaramente un paravento dietro cui si nasconde altro. Oltre ai tonni che muoiono e che non vengono registrati, perché solo i sommozzatori assunti dalle farm ne conoscono davvero l’entità (e sono costretti al silenzio), c’è anche il problema della certezza della reale quantità di tonni vivi catturati e trasferiti.

«Ormai i proprietari delle farm e i loro operatori hanno capito come aggirare le regole. Io saprei come fregare il sistema, sarei anche in grado di andare sott’acqua e fare un video in cui l’osservatore non riesce a capire che succede».

Iccat richiede che il video inizi con la porta chiusa della gabbia, poi la si deve aprire filmando il passaggio dei tonni, e infine la si deve chiudere. Soltanto in quel momento il video può essere interrotto. «Ma questo requisito minimo che non devi mai fermare il video è ridicolo – esclama Lorenzo – sarebbe molto facile, e penso che lo facciano, aprire la porta, far passare i tonni, chiudere la porta, stoppare il video, e riaprire la porta, perché il video non inquadra il resto della gabbia o del cianciolo, inquadra solo la porta».

Tale modus operandi, sia che si tratti di un video girato ad arte o di uno manipolato, avrebbe come effetto quello di rendere una pura formalità la gestione dei contingenti assegnati dai singoli governi, trovando una convergenza di interessi sia nei pescatori che negli allevatori di tonno. I primi sono consapevoli della maggiore remunerazione ricavata dalla vendita dei pesci vivi alle farm, i secondi, a loro volta, tengono lo sguardo fisso verso l’Oriente e il periodico arrivo dei giapponesi ben disposti a sborsare cifre da capogiro per avere tonni grassi, capaci di soddisfare le esigenti richieste del mercato di casa.

Gli allevamenti

Gli acquirenti giapponesi richiedono un tonno ingrassato, ed è per questo che è nato il business degli allevamenti a Malta, dove le acque sono più calme e con più facilità si possono ingrassare i tonni. Questi sono pesci che non si riproducono in cattività, pertanto l’unico scopo di queste enormi fattorie – delle reti molto più ampie del cianciolo e ancorate al fondale nonostante già in mare aperto – è quello di ingrassare gli animali a suon di aringhe per prepararli alla, inevitabile, mattanza. Dopo mesi e mesi di ingrassatura, i proprietari delle farm impiegano i sommozzatori per svolgere la mattanza.

Curve di crescita del peso del tonno

Una delle potenziali debolezze dei regolamenti Iccat, che già è stata segnalata da diverse fonti in passato a IrpiMedia, è la “curva di crescita” dei tonni all’ingrasso accettata da Iccat.
Ovviamente lo scopo delle gabbie d’ingrasso è di far crescere di peso i tonni nei 4-5 mesi in cui sono tenuti lì e alimentati ad aringhe, ma quanto può ragionevolmente ingrassare un tonno già adulto in quel periodo?

Fino ad ora la crescita permessa era del 40%, e già questo delta era considerato molto alto da alcuni, e lasciava sospettare che gli allevamenti ottenessero quest’aumento di peso non già ingrassando i tonni, quanto inserendone di nuovi illecitamente. Dall’ultima conferenza di Iccat, sulla base di uno studio fatto su di un singolo allevamento nell’oceano Atlantico, a largo delle coste del Marocco, è raddoppiata la percentuale di crescita accettata, dal 40% fino addirittura all’80%.

Che un tonno adulto possa quasi raddoppiare di peso in 4-5 mesi, e che la regola venga cambiata sulla base di un singolo studio, appare un ennesimo trattamento di favore riservato ai proprietari delle farm già oggi i più ricchi e potenti attori dell’intera filiera.

Arrivano alla farm con un rimorchiatore, lo stesso tipo di imbarcazione di supporto su cui i sub si trovano durante la campagna di pesca, e qui inizia di nuovo la preparazione per l’immersione. Appena fuori dalla farm è parcheggiata la nave-mattanza giapponese. Tre sommozzatori sono gli addetti a sparare ai tonni, che cadono a fondo, giù ci sono altri tre colleghi a cui spetta prendere i tonni e legarli con un cappio alla coda. I pesci vengono sollevati da una gru direttamente sulla nave mattanza dove vengono sfilettati dai giapponesi.

«La mattanza si fa con dei fucili subacquei, con un’asta da fucile però davanti viene messa… si chiama lupara, si svita e viene armata con bossoli che ammazzano i cinghiali – spiega Giovanni -. Il tonno va ucciso sparandogli in testa, perché se viene colpito in qualche altra parte del corpo il giapponese lo scarta e hai perso 45 mila euro». Ma nessuno controlla se la quantità di tonni corrisponde a quelli che erano stati dichiarati durante la campagna di pesca. Secondo Giovanni, ogni anno nelle farm ne entrano molti di più di quelli dichiarati, e avviene tutto alla luce del sole, perché i proprietari si «sentono intoccabili», visto che anche Tarantelo, la più famosa indagine internazionale sulle irregolarità del loro lavoro, si è arenata e da anni non riesce ad arrivare al processo. IrpiMedia ha mandato una richiesta di commento all’associazione di categoria delle farm maltesi, la Maltese Federation of Aquaculture, ma non ha ricevuto risposta.

Un allevamento ittico nel Mediterraneo – Foto: Getty

«A tuo rischio e pericolo»

Il paradosso di questa storia, contrassegnata da molteplici presunte irregolarità, è rappresentato dal fatto che, nonostante i ricchi ricavi in ballo, le attività spiccherebbero anche per una ridotta attenzione alla sicurezza. Quello del sub, si sa, è un mestiere tutt’altro che esente dai rischi.

«Siamo sottoposti per tantissimo tempo a decompressione a profondità che arrivano fino ai cinquanta metri – spiega Giovanni -. E sotto sforzo, perché spostare tonni di centinaia di chili è un grande sforzo. Se succede qualcosa, loro (i titolari dei pescherecci, ndr) non sono attrezzati. A bordo non hanno camera iperbarica, nonostante sia prassi per le attività lavorative in mare. Una volta – rivela – uno di noi si è rifiutato di scendere dopo la terza bombola. Gli abbiamo spiegato cosa può succedere a un corpo immerso così tante ore per compiere sforzi di quel tipo. Molti di noi hanno avuto problemi da malattia da decompressione».

A muoversi fuori dalle regole sarebbe l’intero rapporto di lavoro. Oltre alla questione sicurezza – «non ci sono esami per iniziare, se sai nuotare, ti metti le bombole sulle spalle e vai giù» -, le prestazioni a Malta avverrebbero anche in nero, con sommozzatori pagati in contanti duecento euro al giorno. «E se ti fai male il rischio è tuo, come è successo a parecchie persone. Funziona che se lavori ti pagano, se ti fai male non ti danno nulla e se ti lamenti ti minacciano. Sono persone potenti».

Il clima da prendere o lasciare, a detta di Giovanni, caratterizzerebbe anche l’attività degli osservatori e sarebbe tra i motivi all’origine degli scarsi controlli. «Le società che fanno la formazione organizzano corsi che durano pochi giorni, poi ti mandano a bordo. Ogni anno ne cercano altri. Se c’è qualcuno che rimane per tanti anni – sostiene – è perché accetta di mantenere il gioco. Altrimenti non sarà richiamato. Non guadagnano tanto, magari ogni tanto ricevono un regalo».

Un mondo denunciato anche da Lorenzo, l’osservatore regionale che crede fermamente nella sua professione e cerca di svolgere il lavoro con tutti i crismi. «È pieno di osservatori che non osservano, e le società di formazione puntano a formare osservatori nuovi ogni anno per avere gente meno preparata possibile e più controllabile sulle barche».

Un mondo per pochi

Se dovesse decidere di continuare ad accettare queste condizioni, a Giovanni il lavoro, grazie alla profonda esperienza alle spalle, non mancherà. Il sub, però, fa il punto sul settore e su chi ne è tagliato fuori per la concentrazione delle quote in poche mani. «Più volte ci siamo imbattuti in banchi di tonni enormi, al punto che i pescherecci prima di calare le reti hanno atteso più giorni per il timore di prenderne troppi e mettere a rischio le stesse imbarcazioni – commenta il sub – Assistere a queste cose fa rabbia, perché è inevitabile pensare a quei pescatori a cui viene vietato di pescare anche un solo tonno, per rivenderlo al mercato a pochi euro al chilo, mentre questi ne ammazzano quanti ne vogliono».

CREDITI

Autori

Cecilia Anesi
Simone Olivelli

Video

Diego Parbuono

Editing

Giulio Rubino

Mappe

Lorenzo Bodrero

Con il supporto di

Foto di copertina

Un banco di tonni
(Getty)