#NarcoFiles

Così i narcos albanesi fanno affari con le organizzazioni criminali che dominano Roma
I narcos albanesi sono entrati a Roma silenziosamente, diventando interlocutori affidabili delle organizzazioni criminali della Capitale e rifornendo le principali piazze di spaccio
18 Gennaio 2023

Maurizio Franco
Youssef Hassan Holgado
Filippo Poltronieri

Con un braccialetto elettronico Dorian Petoku, uno dei narcotrafficanti albanesi più noti della Capitale, sta scontando la sua pena in una piccola comunità di recupero. Dopo quasi tre anni di detenzione – di cui due scontati nelle prigioni della madre patria – Petoku, il cui nome è scritto nero su bianco in tre inchieste della Procura di Roma, è uscito dal carcere dopo una perizia medica che lo dichiara tossicodipendente.

È il risultato dell’analisi di un suo capello, condotta da dottori albanesi e confermata da quelli italiani. Le rimostranze della Procura di Roma sulla sua pericolosità non sono servite. Così come non sono stati ascoltati i dubbi degli inquirenti su una tossicodipendenza mai riscontrata in narcotrafficanti albanesi di questo calibro, non avvezzi al consumo delle droghe che trattano. Inoltre, in molti si chiedono come sia possibile che il suo esame tossicologico riveli livelli così alti di stupefacenti e come abbia fatto a procurarsi la sostanza.
Quando era libero, però, nessuno si sarebbe posto questa domanda. Perché la cocaina, l’eroina e la marijuana sono le merci che i narcos albanesi trattano quotidianamente in tutto il mondo. E Dorian Petoku, a Roma, si è dato da fare abbastanza, secondo gli investigatori.

A seguito di un processo di estradizione durato due anni e pieno di ostacoli, è stato condannato a 12 anni nell’ambito dell’operazione Grande raccordo criminale per traffico di sostanze stupefacenti. Ha iniziato a scontare la pena nella comunità di recupero la Linea Punto Verde a Morlupo, un paese a pochi chilometri a nord di Roma. Dopo la chiusura della struttura, a ottobre 2022, il narcos albanese è stato trasferito in un’altra comunità, vicino a Mondragone, in provincia di Caserta. La mancata reclusione in carcere e le resistenze opposte dalle autorità albanesi all’estradizione collocherebbero Petoku in un olimpo criminale dove siedono personaggi noti della malavita romana.

Sono tanti i volti della criminalità che, dopo un breve periodo di detenzione, sono finiti in un centro di recupero. Tra questi c’era anche il capo ultrà degli Irriducibili Lazio, Fabrizio Piscitelli, alias Diabolik: colui che, prima di essere ucciso a sangue freddo il 7 agosto del 2019 nel parco degli Acquedotti di Roma, aveva contribuito a rendere Dorian Petoku un criminale di spessore, in grado di tessere relazioni e affari con le più potenti organizzazioni presenti sul territorio romano.

Anche Michele Senese era finito in comunità: emissario della camorra all’interno dei confini del Grande raccordo anulare, è soprannominato O’pazzo proprio per le numerose (e discusse) perizie psichiatriche, con cui ha evitato a lungo il carcere. La detenzione in un centro di recupero non è l’unico comune denominatore tra Petoku, Piscitelli e Senese. I tre ras della criminalità romana si conoscevano e hanno lavorato insieme con un obiettivo comune: inondare di droga le piazze di spaccio della Capitale.

La tossicodipendenza come espediente

Sulle perizie mediche e la conseguente detenzione in comunità di diversi boss di mafia, la Procura di Roma ha voluto approfondire. Una lunga indagine ha portato nel 2019 all’acquisizione delle cartelle cliniche di 56 detenuti di Rebibbia, che negli ultimi anni avevano ottenuto un “certificato” di tossicodipendenza grazie al quale avevano lasciato la prigione. Sotto la lente degli investigatori ci sono referenti di camorra e ‘ndrangheta, trasferiti in comunità per seguire programmi di recupero, broker internazionali in affari con i Bellocco di Rosarno (famiglia, come vedremo, tra le prime a voler entrare in contatto con gli albanesi) e altri legati ai Giorgi di San Luca. Non mancano neanche membri legati a organizzazioni criminali attive in quartieri della periferia romana come Tor Bella Monaca, Tufello e San Basilio.

Dal Paese delle aquile a Roma

Arben Zogu, Dorian Petoku, Elvis Demce, Kolaj Orial, Bardhi Petrit e Yuri Shelever sono i nomi più noti della criminalità albanese a Roma. Tutti hanno fatto parte di quella che ormai gli investigatori chiamano “banda Diabolik”, nota alle cronache come la “batteria di Ponte Milvio”. All’ombra di Fabrizio Piscitelli gli albanesi si erano creati una vasta rete di contatti che ha permesso loro di “sopravvivere” anche dopo la morte del leader. Per conto di Diabolik facevano da “picchiatori”, recuperando i crediti delle estorsioni, smerciavano droga per le strade e fornivano protezione al capo. Ma la batteria era – come scrivono gli inquirenti – anche «al servizio dei “napoletani”, insediatisi a Roma Nord, tra cui i fratelli Esposito, Salvatore e Genny, facenti capo a Michele Senese».

All’epoca, era Arben Zogu, detto Riccardino, a coordinare la violenza schipetara in città. Ad Acilia, epicentro della comunità albanese romana e laziale, Zogu è riuscito a fare affari con il clan autoctono dei Guarnera, prima di conquistare Roma Nord. In quella parte di territorio ai margini della metropoli, i Guarnera insieme ai campani Iovine – contigui al clan dei Casalesi – hanno imposto agli esercizi commerciali le loro slot machines. Zogu, però, matura i contatti più importanti nel mondo della criminalità organizzata durante la sua permanenza in carcere nel 2013.

I calabresi

Tra le mura della casa circondariale di Avellino, Zogu fa amicizia con Rocco Bellocco, rampollo dell’omonima famiglia di Rosarno, attiva anche nel basso Lazio, con una storica roccaforte nei territori di Anzio e Nettuno (Comuni recentemente sciolti per mafia). Lo rivelano una serie di colloqui, avvenuti in carcere tra il 2013 e il 2014, con il cugino Petoku, convinto che, parlando in albanese, gli investigatori non potessero risalire al contenuto delle loro conversazioni.

Zogu sostiene di aver instaurato rapporti con “napoletani” e “calabresi”. Contatti che possono tornare utili al cugino al quale racconta: «Sono andato a mangiare con loro e c’è il vecchio e finché non diceva lui buona digestione non ci si può alzare dal tavolo… sono tutti così i calabresi… ma io sto solo con loro». La cosca è rinomata e Petoku ne è consapevole. E risponde: «Digli di venirmi a incontrare a questi… che già li conosco».

A Roma i Bellocco fanno affari per la distribuzione di droga con membri del clan Senese e con Fabrizio Piscitelli mentre per gli approvvigionamenti di stupefacente si rivolgono agli albanesi con regolarità. Anche dopo il trasferimento dal carcere di Avellino a quello di Rebibbia, Zogu riesce a mantenere le relazioni con esponenti di ‘ndrangheta, grazie al lasciapassare dei Bellocco «presso altri detenuti calabresi ristretti nel medesimo carcere», si legge nelle carte degli inquirenti. Ma i rapporti delle gang albanesi sono fluidi e vanno oltre le amicizie di Riccardino.

IrpiMedia è gratuito

Ogni donazione è indispensabile per lo sviluppo di IrpiMedia

Anche Bardhi Petrit, il pugile soprannominato Titi – già componente della banda Diabolik e “battitore libero” al servizio di altri gruppi criminali albanesi attivi su Roma – vanta conoscenze importanti nella cosca dei Pelle di San Luca. Petrit, in un’intercettazione, dice di aver fornito a un calabrese un rifugio in Albania, per quattro anni, a casa di un suo famigliare. Non è certo la prima volta che accade. Storicamente vari esponenti della Sacra corona unita e della ‘ndrangheta hanno cercato rifugio nelle montagne al di là dell’Adriatico.

«Io c’avevo pure un calabrese… per quattr’anni… da mio zio…», dice Petrit al suo interlocutore di cui gli inquirenti ignorano l’identità. «Quattro anni, poi si è venuto a consegnare da solo… perché in Cassazione è scesa (la pena, ndr) a sei anni». Il latitante calabrese, anche lui sconosciuto agli investigatori italiani, provava a mantenere un profilo basso. «Non voleva il casino… ma io lì al paese ho tutti i miei cugini… lo sapevano che lo avevo mandato io là e doveva stare lì, punto! A capo della zona lì», racconta Petrit.

Petrit è stato arrestato l’ultima volta nel marzo del 2022 per la collaborazione con il sodalizio capeggiato da Arindi Boci (detto Rindi) e Glend Burhanaj, attivo nell’organizzare e gestire il traffico di droghe nelle aree di Acilia e Primavalle. Secondo gli inquirenti, Petrit avrebbe «fornito i contatti degli acquirenti di sostanza stupefacente facendo valere la sua caratura e le sue conoscenze con soggetti di spicco della criminalità romana». In totale sono finite agli arresti 14 persone: otto albanesi e sei italiane. Una dimostrazione chiara della varietà demografica dei gruppi, che presentano al loro interno diverse nazionalità: uomini e donne fedeli al capo clan, uniti però nel perseguire un comune profitto.

Agli arresti eseguiti dalla Dda di Roma ci è finita anche Elsa Lila, accusata di aver svolto il ruolo di contabile per l’organizzazione. Di origini albanesi, Lila è stata per due volte concorrente al festival di Sanremo (2003 e 2007) sotto i riflettori del teatro Ariston. Nelle intercettazioni suggeriva al boss Arindi Boci di avvicinare uomini di Stato per oliare gli affari. «Io non ho soldi dello Stato ed a me non mi viene nessuno dallo Stato a controllarmi… mi conoscono…», diceva l’ex cantante facendo riferimento ad alcune relazioni che aveva con uomini legati alle forze dell’ordine. «Lo so tesoro che non ti fidi…ma un amico-aggancio dello Stato serve… come in Albania lo sai… l’amico-l’aggancio dello Stato è bene perché ti salva, qualsiasi sia il governo, bisogna avere uno anche lì, cosicché anche qui bisogna trovare il modo perché anche qui c’è molta gente venduta».

Il successore e le relazioni con i Casamonica

Con Zogu in carcere, a prendere le redini del potere e ad allargare la pletora delle collaborazioni, è proprio il cugino. Dorian Petoku aveva poco più di 24 anni quando ha ereditato, nel 2013, lo scettro criminale. E istantaneamente ha sfruttato la rete intelaiata da Piscitelli nella Capitale per espandere il cordone del narcotraffico albanese anche al di fuori del Grande raccordo anulare.

L’operazione Brasil Low Cost, condotta dalla Guardia di finanza, grazie a un infiltrato e ad alcuni agenti della Dea americana, non solo è degna delle migliori trame di film d’azione, ma mostra anche la capacità di Dorian Petoku di agire come broker internazionale: insieme al serbo Tomas Pavlovic e a Salvatore Casamonica, esponente dell’omonima famiglia condannata per mafia anche in appello, intendeva far arrivare dal Brasile sette tonnellate di cocaina a Roma. Un carico di polvere bianca, spropositato per la città, per un guadagno milionario.

Il progetto ha cementificato la triade: «Qua noi si lavora come squadra, ognuno fa l’interesse dell’altro…», dice infatti Salvatore Casamonica all’infiltrato riferendosi anche a Petoku. Secondo gli inquirenti, Petoku aveva la disponibilità della sostanza stupefacente, Pavlovic si occupava del trasporto fino in Europa e Salvatore Casamonica doveva farlo arrivare a Roma, dove poi sarebbe stato venduto dal clan.

Fare affari con i Casamonica non è da tutti. La famiglia, che per anni ha terrorizzato gli esercenti di Roma attraverso estorsioni e spedizioni punitive, è nota per essere molto chiusa ai gruppi esterni, indipendentemente che siano stranieri o meno. Nelle carte dell’operazione Gramigna, che ha portato all’arresto di 37 membri della famiglia, c’è solo il nome di un albanese che è riuscito a essere considerato come “intraneo” al clan. Si chiama Besim Skarra, classe 1978, legato a Luciano e Simone Casamonica. Per conto loro recuperava con la violenza i “crediti” di usura ed estorsioni in giro per Roma.

Dal Sudamerica all’Europa

«Se aprono questi telefoni, a Roma devono costruire un carcere nuovo», dice Bardhi Petrit, intercettato dagli inquirenti. «Costa mille euro sto’ telefono sà…!», gli risponde il suo interlocutore. «Mille cinque, ogni sei mesi devi far contratto…!», ribatte il pugile. La conversazione risale all’ottobre del 2018 e all’epoca l’esponente della batteria di Ponte Milvio è convinto che basti un cellulare criptato di ultima generazione per stare al sicuro da orecchie indiscrete.

Le indagini recenti hanno dimostrato il contrario. A quattro anni di distanza i database di quei cellulari da oltre 1.500 euro sono stati violati e gli inquirenti hanno delineato un quadro più chiaro del modus operandi e delle relazioni internazionali che i gruppi criminali albanesi avevano costruito. Ci sono riusciti anche grazie al lavoro dell’Europol, che ha avuto accesso ai server criptati di Sky ECC ed Encrochat, entrando nelle utenze di quasi 200 mila persone in tutto il continente.

Per approfondire

Estradato il narcotrafficante albanese che faceva affari con i clan romani

La presenza dei clan albanesi nel sottobosco della Capitale è un tema ancora poco noto. Grazie all’estradizione di Dorian Petoku, fornitore di cocaina per diverse gang romane, gli inquirenti puntano ad approfondire le indagini

Per quanto riguarda Roma, con questa operazione internazionale, sono state sgominate la banda di Elvis Demce e quella del suo ex collega in affari, diventato poi il suo principale nemico, Ermal Arapaj – per i quali sono stati chiesti 20 anni di reclusione. In una storia di reciproci tentativi di omicidio e violenza inaudita, Demce e Arapaj non sono né i primi né gli ultimi a sfruttare i contatti diretti con i grandi broker, connazionali, che controllano le tratte che portano la cocaina dal Sud America ai porti del Nord Europa.

Gli albanesi arrestati, così come gli ‘ndranghetisti di spessore, difficilmente parlano. Ma quando lo fanno rivelano informazioni preziose agli inquirenti, come quelle rilasciate dal narcotrafficante Erti Kjalliku che ha deciso di collaborare con la giustizia. Secondo quanto si legge nell’ultimo rapporto Mafie nel Lazio, le sue dichiarazioni sono state fondamentali per portare a termine le operazioni Aquila nera 1 e 2.

La Dda di Roma ha così smantellato l’organizzazione capeggiata da Daiu Lulzim, un narcotrafficante albanese che dal Sudamerica, passando per l’Olanda, era in grado di portare quintali di cocaina nelle piazze della periferia romana, già controllate da gruppi organizzati, come quelle dei quartieri di San Basilio e Tor Bella Monaca. Lulzim muoveva i carichi nei doppifondi di furgoni e automobili. Veicoli costruiti appositamente da un colombiano a Madrid. Ad aiutarli negli affari c’erano anche cittadini italiani, proprio come nel caso del gruppo di Boci. Tra gli arrestati anche Fabrizio Fabietti, braccio destro, all’epoca, di Diabolik.

Le organizzazioni albanesi di alto livello, disseminate in Europa, possono contare su broker e corrieri presso i principali cartelli di cocaina sudamericani, grazie a emissari in Ecuador e a relazioni strutturate con il Clan del Golfo in Colombia. I gruppi in Europa si servono poi di bande di connazionali, sparse sul territorio italiano, per fare arrivare e piazzare la cocaina nelle principali città d’Italia. I canali di approvvigionamento dei vari gruppi, spesso, sono gli stessi. Le gang sparse sul territorio, però, non sempre comunicano tra di loro. I singoli nuclei hanno legami stretti, spesso familiari, ma non sempre c’è una rete che li collega e sia gli “operai” che i “quadri” hanno un alto tasso di intercambiabilità.

In modo simile, ma su scala più ampia, agiva il cartello chiamato Kompania Bello, una capillare organizzazione criminale albanese, con tanto di timbro distintivo sulle confezioni di stupefacente, in grado di trasportare tonnellate di cocaina dall’Ecuador all’Olanda. L’organizzazione, coordinata dal carcere di Quito dal narcotrafficante albanese Dritan Rexhepi e che comunicava, anche questa, grazie a sofisticati sistemi di criptazione, riusciva a smistare la sostanza in dieci nazioni differenti.

A Roma, e in altre città italiane, Rexhepi faceva arrivare lo stupefacente grazie a una rete di corrieri. L’uomo aveva dato ordine a tre suoi sodali di attivare un nuovo punto di distribuzione della droga nella Capitale nel 2017. Un ulteriore tentacolo del narcotraffico di marchio albanese a Roma, mozzato sul nascere dagli 84 arresti eseguiti nel settembre 2020 con la maxi operazione internazionale Los Blancos. Per ora Kompania Bello è l’organizzazione albanese più simile a una mafia che sia mai stata scovata, ma gli inquirenti, anche se non ne hanno prove al momento, non escludono che ci siano casi simili.

La capitale del narcotraffico

Roma è un unicum a livello nazionale. Il mercato della droga è infatti estremamente vasto, e nella metropoli c’è spazio per tutti, come testimoniano le ultime relazioni antimafia e le indagini delle forze dell’ordine. Inoltre il rapporto tra le organizzazioni criminali è orizzontale e non gerarchico. Ogni gruppo ha una zona di competenza dove imporre il proprio predominio. Il dialogo è stato uno strumento indispensabile per preservare la cosiddetta pax romana.

Lo “sgarro”, però, è punito con il piombo delle pistole. I criminali albanesi sono entrati silenziosamente a Roma. E nell’indifferenza hanno compiuto la loro scalata. Lo hanno fatto cercando di non pestare i piedi a chi c’era prima di loro sul territorio che i vari gruppi riescono a rifornire con diversi canali di approvvigionamento. C’è chi proviene da famiglie con notevoli trascorsi criminali in Albania e ci sono, invece, organizzazioni gestite da narcotrafficanti giovani: parlano in romanesco, sono cresciuti in Italia e hanno consolidato legami con i clan autoctoni.

Sempre più albanesi hanno a disposizione contatti in Sudamerica e nel Nord Europa in grado di garantire loro la materia prima. La vendita di cocaina avviene sempre di più utilizzando la tecnica del “cotto e mangiato”, come la definiscono gli investigatori. Significa che il carico è già stato venduto alle organizzazioni che lo spacciano nelle piazze ancora prima di arrivare a Roma. Appena ricevuti, in poche ore, i panetti di cocaina sono quasi tutti consegnati e il denaro viene incassato rapidamente. Soldi che in parte gli albanesi reinvestono per comprare altra cocaina e in parte, fino a qualche anno fa, finivano nel giro del riciclaggio composto da club, bar, ristoranti e pompe di benzina.

Oggi i clan albanesi difficilmente lasciano traccia dei proventi delle attività criminali: un fenomeno che gli inquirenti vedono con sempre più frequenza a Roma. I guadagni milionari vengono fatti entrare in patria dove molti dei broker e narcotrafficanti hanno costruito interi villaggi e resort di lusso. Beni molto più complicati da raggiungere con ordini di confisca di natura internazionale.

L’ultimo degli albanesi

Uno degli ultimi membri della banda di Diabolik è Elvis Demce, un pluripregiudicato che aveva già scontato un periodo in carcere con una condanna all’ergastolo in primo grado – poi assolto dalla Corte d’Assise di Roma – perché ritenuto il killer di Federico Di Meo.

Federichetto – questo il nomignolo di Di Meo – è di origini calabresi. Nel 2013, a Velletri, cinque colpi di pistola lo colpiscono al torace e alla testa. Un omicidio per la conquista dell’egemonia del traffico di stupefacenti nel piccolo comune dei Castelli romani. Demce, accusato inizialmente come mandante dall’esecutore materiale dell’assassinio, viene poi scarcerato perché il fatto non sussiste.

La sua attitudine alla violenza però è cosa nota agli inquirenti. Durante un pestaggio per un’intimidazione ha cavato un occhio alla vittima già agonizzante sull’asfalto. Il suo temperamento, molto apprezzato all’interno della banda Piscitelli, lo ha portato a fare affari con tutta la malavita romana dopo la morte del capo ultrà della Lazio, non solo nella parte Est della capitale.

Quando esce dal carcere decide di fare ritorno tra le rocche dei Castelli romani. Nel frattempo, però, il gruppo criminale capeggiato da Ermal Arapaj, un tempo compagno, adesso nemico di Demce, lo aveva soppiantato. La batteria Arapaj era ben organizzata – con legami in tutta Europa – e capace di importare in Italia chili e chili di cocaina. Arapaj si riforniva da alcuni connazionali presenti a Porto S. Elpidio ma aveva anche uomini in Germania e Olanda e tramite una broker colombiana di nome Fajardo Tellez Maribel aveva anche l’opportunità di far arrivare la cocaina a Roma direttamente dalla Colombia. Avrebbe «dovuto acquistare 50 pacchi (ragionevolmente 50 kg) di stupefacente su una fornitura complessiva, destinata anche ad un altro gruppo, di 150 pacchi», si legge nelle carte degli inquirenti.

L’ascesa criminale di Arapaj si scontra con il ritorno di Demce che vuole riprendersi il posto. A ogni costo. Uscito dal carcere Demce chiede a due suoi uomini (di origine italiana) di inviare un eloquente messaggio ad Arapaj: «Gli dici…è uscito il padrone di casa…è uscito l’isis…mo’ andatevi a chiudere tutti quanti».

I due gruppi arrivano subito allo scontro. Per risolvere i conti Demce pianifica una serie di attentati che non hanno successo. Il 9 luglio del 2020 sei dei suoi uomini attaccano Arapaj che si salva sparando a raffica contro gli aggressori. Qualche mese più tardi, il 5 settembre del 2020 Demce ci riprova: i suoi danno fuoco alla villa di Arapaj e alla sua automobile ma il nemico giurato fugge in Spagna, in cerca di rifugio. Dalla penisola iberica inizia a pianificare il suo contro-attentato, ma il piano viene vanificato dall’intervento delle forze dell’ordine.

Mitomane, egocentrico e con deliri di onnipotenza, Demce aveva anche intenzione di progettare un attentato insieme ad Alessandro Corvesi – pluripregiudicato che da lui acquistava ingenti quantità di stupefacente e lo distribuiva al dettaglio ai rispettivi clienti – contro il pm Cascini.

«Quando me parte a ciavatta co questo vado a sparare a Cascini fori a piazzale Clodio», dice il narcotrafficante in un’intercettazione. Francesco Cascini fa parte del pool antimafia del tribunale di Roma, mentre suo fratello Giuseppe è attualmente membro del Consiglio superiore della magistratura, considerato responsabile della condanna in primo grado di Demce per l’omicidio di Federichetto.

Non solo violenza nei confronti dei magistrati ma anche intimidazioni e ricatti attraverso la minaccia di diffusione di video compromettenti (da realizzare): «Queste tipo Nency (riferimento a escort, ndr) ce potrebbero da na mano – dice Demce in un’intercettazione – A questi per faje più male che sparaje, faje qualche video o avè qualche cosa per ricattarli e tenerli per le palle. Sarebbe il top». Ora sia Arapaj che Demce sono in carcere in attesa che si concluda il loro processo.

La scia di sangue

I procuratori non hanno subito ripercussioni ma la scia di sangue non si è fermata e un altro delitto di spessore ha fatto seguito all’assassinio di Piscitelli. A Torvajanica, sul litorale romano, presso lo stabilimento Bora bora, un sicario ha ucciso, il 20 settembre del 2020, Selavdi Shehaj con un colpo di pistola alla nuca. Un’altra mano esperta capace di uccidere a sangue freddo in pieno giorno, proprio come accaduto con Piscitelli l’estate precedente.

Shehaj aveva 38 anni quando è stato ucciso. Era legato al mondo del narcotraffico ma, a differenza di altri suoi connazionali, non era un nome di spicco della criminalità romana. Secondo gli investigatori sarebbe stato ucciso dallo stesso sicario di Diabolik. Stessa arma, movente differente.

A oltre tre anni dall’omicidio di Piscitelli, eluso il rischio di una guerra più cruenta su Roma, i vertici della banda di Diabolik si trovano ora in carcere. Ognuno di loro da luogotenente è diventato capo, sostituendo il proprio predecessore, finito agli arresti. È solo questione di tempo prima che il vuoto da loro lasciato venga colmato dal prossimo gruppo. La rete internazionale criminale e i suoi gangli sono sempre attivi e periodicamente nuovi personaggi e clan prendono il sopravvento, ereditando la ben oliata macchina che garantisce alla Capitale un flusso di droga costante.

Dal momento degli arresti dei gruppi che facevano capo a Demce e Arapaj, gli investigatori hanno notato un crescente attivismo di criminali albanesi presenti sul territorio laziale che compaiono, a vario titolo, in nuove operazioni portate a termine nei quartieri della Capitale. Nel momento in cui un sodalizio criminale finisce in carcere, c’è pronta una nuova cellula completa che dal corriere arriva fino al vertice. D’altronde è sempre stato così. Morto un re, a Roma, se ne fa un altro. Anche quando si tratta di albanesi.

CREDITI

Autori

Maurizio Franco
Youssef Hassan Holgado
Filippo Poltronieri

Editing

Giulio Rubino

Illustrazioni