#NarcoFiles
Cecilia Anesi
Edoardo Anziano
Il sequestro avviene all’insaputa dei narcotrafficanti, che credono il carico già partito alla volta di Trieste. In realtà, le autorità colombiane consegnano, via aereo, la cocaina alla Direzione Distrettuale Antimafia (Dda) di Trieste, che la stocca.
La Fiscalia colombiana aveva infatti avviato una collaborazione con la Dda giuliana per potere indagare a fondo il gruppo di narcotrafficanti, risalendo la china sia dei fornitori in Colombia che dei distributori e acquirenti in Europa. Una complessa indagine congiunta, che farà emergere da una parte il Clan del Golfo, anche chiamati Urabeños, il più potente cartello di narcotrafficanti attivo oggi in Colombia che conta fino a 2mila affiliati per lo più da gruppi paramilitari di estrema destra, dall’altra diversi gruppi di acquirenti est-europei e un gruppo italiano legato alla ‘ndrangheta attivo tra Roma e Milano.
A consegnare la cocaina agli acquirenti, un emissario del cartello colombiano mandato a Trieste per supervisionare e garantire che le consegne andassero a buon fine. Una misura di sicurezza presa dal clan del Golfo viste le grandi quantità spedite tra la primavera e l’autunno 2021.
Trieste viene supportata da altre procure che di volta in volta si attivano per sequestrare la cocaina in distribuzione, cadono i corrieri, ma i magistrati lasciano in sospeso per mesi gli arresti dei narcos per raccogliere tutte le prove di una fitta rete di narcotraffico internazionale. Un mese fa, il 7 giugno scorso, il Tribunale di Trieste ha chiuso il cerchio spiccando 38 ordinanze di custodia cautelare contro i narcotrafficanti attivi tra Italia, Slovenia, Croazia, Bulgaria, Olanda e Colombia. “Geppo2021”, verrà battezzata questa delicata operazione dalle molte ordinanze di custodia cautelare: in memoria di “Geppo”, finanziere undercover di Trieste venuto a mancare.
Sono in tutto 4380 i chili di cocaina sequestrati dalla Guardia di Finanza di Trieste, il terzo sequestro più grande d’Europa, e che dovevano essere solo l’inizio di un’alleanza tra il clan del Golfo e compratori europei che avrebbero ritirato di volta in volta circa 500 chili alla volta che sarebbero sbarcati al porto di Trieste. Se lasciate nelle mani dei narcotrafficanti, le quattro tonnellate avrebbero fruttato almeno 240 milioni di euro di guadagni illeciti.
Una veduta aerea del porto di Trieste
Foto: Getty
L’ambasciatore e l’infiltrato
Convinto del successo della spedizione, il cartello colombiano invia in Italia il suo «ambasciatore» Ramon Abel Castano Castano, col compito di recuperare e vendere i 300 chili di cocaina, pura al 75%. A lui vengono affidate «tutte le attività indispensabili per il recupero e la distribuzione dell’ingente carico inviato in Italia».
Castano Castano aveva già fatto un sopralluogo al porto di Trieste prima dell’arrivo della cocaina, visitando l’ufficio del titolare di un servizio di import-export: quello che doveva garantire che la spedizione di trivelle da miniera, in cui era nascosta la cocaina, giungesse tra le banchine senza intoppi.
Ciò che il colombiano non immaginava, era che l’uomo fosse in realtà un finanziere sotto copertura. Una copertura inventata dal Gruppo d’investigazione sulla criminalità organizzata (Gico) della Guardia di Finanza di Trieste, guidato dal colonnello Marco Iannicelli, una volta che la Fiscalia 42 si era messa in contatto avvisandoli del fatto che il Clan del Golfo stesse cercando un nuovo porto in Italia dove inviare i carichi al posto di Gioia Tauro.
«A Gioia Tauro c’erano stati diversi sequestri e quindi i colombiani cercavano un altro porto e Trieste è buono per i narcos perchè è grande ma anche vicino al confine con la Slovenia, quindi è la porta per i balcani e serve le mafie balcaniche», spiega a IrpiMedia il comandante Iannicelli.
Insomma il Gico si adopera per costruire una copertura credibile, ovvero un logista che avrebbe potuto fare arrivare la cocaina fino a Trieste nonché organizzare il suo stoccaggio.
L’obiettivo è scoprire gli acquirenti finali della partita, quei terzisti che si divideranno i 300 chili per poi venderli a pesci più piccoli che si occuperanno di rifornire le reti di spaccio.
«La particolarità di questa operazione è non solo la quantità sequestrata, ma il fatto che siamo riusciti a seguire passo passo la distribuzione e svelare la rete di acquirenti», incalza Iannicelli.
Quando dalla Colombia parte la cocaina, c’è un’altra cosa che Castano Castano non immagina: la droga è stata sequestrata, tolta dal container e consegnata alle autorità italiane per via aerea. L’agente sotto copertura, con grande maestria, riesce a far credere all’ambasciatore del cartello di essere riuscito a recuperare la spedizione al porto di Trieste.
Mostrando i 300 chili effettivamente arrivati e stoccati, il finanziere undercover riesce a conquistare definitivamente la fiducia di Castano Castano, al punto da aiutarlo con le diverse consegne che consentono di tracciare la rete di acquirenti in diretto contatto coi produttori colombiani.
Si tratta, come scrive il gip di Trieste, di individui «strettamente contigui ad organizzazioni criminali di indiscutibile alto profilo». Infatti, ciascuno di loro acquista quantitativi che variano, ogni volta fra 60 e 115 kg di cocaina, per non meno di 35.000 euro al chilo.
A organizzare le spedizioni dalla Colombia sono o direttamente uomini del Clan del Golfo, o Antonio Prudente, un italiano residente in Colombia e tutt’ora latitante. «Hanno infatti organizzato dalla Colombia la spedizione dei carichi di cocaina, inviando in Italia dei loro emissari incaricati di sovraintendere le operazioni di stoccaggio e gestire le consegne ai diversi gruppi di trafficanti – scrive il gip. In Italia hanno pagato solo un corrispettivo per la logistica mentre la merce è sempre stato pagata anticipatamente direttamente in Colombia: lo si desume agevolmente dalle conversazioni captate».
Infatti, i narcos utilizzavano telefoni cifrati che sono stati decriptati grazie alla collaborazione della Homeland Security (HSI) americana.
Surespot l’app di Isis e narcos, infiltrata da HSI
I narcotrafficanti colombiani e calabresi colpiti dalle indagini congiunte della Fiscalia 42, della Dda di Trieste e con il supporto della agenzia statunitense Homeland Security Investigations, utilizzavano un’app di messaggistica istantanea chiamata Surespot, sviluppata nel 2013 da due statunitensi, che offre un modo di comunicare completamente cifrato end-to-end. Si tratta di una tecnologia che (al pari di Whatsapp e Signal) cifra ogni messaggio prima di inviarlo, in modo che possa essere decifrato esclusivamente dal dispositivo a cui è destinato. Vale a dire che chi controlla l’infrastruttura o i server non dovrebbe poter avere accesso all’informazione.
In seguito alle accuse di essere lo strumento di riferimento dello Stato islamico, tra il 2014 e il 2015 alcuni esperti di sicurezza informatica e giornalisti hanno iniziato a chiedere a 2fours, azienda che sviluppa l’app, se questa fosse ancora sicura e se le autorità statunitensi avessero in qualche modo cercato di ottenere l’accesso ai messaggi scambiati dagli utenti. Adam Patacchiola – CEO dell’azienda – non avrebbe risposto a ripetute domande relative a una possibile infiltrazione delle autorità statunitensi nella rete di Surespot. Lo stesso profilo Twitter dell’app risulta dormiente da anni e di Surespot non si è più parlato, sebbene sia rimasto disponibile negli store di Google e Apple.
Ciò che i narcotrafficanti hanno curiosamente sottovalutato, è la possibilità che HSI tenesse un piede dentro Surespot, cosa effettivamente avvenuta. Quando il 7 giugno sono scattati gli arresti di Trieste, e l’operazione “Geppo2021” è stata chiusa, sul sito di Surespot è comparsa una notizia: dal 31 luglio prossimo l’app verrà definitivamente disattivata. Surespot ha esaurito il suo scopo (ra. an.)
IrpiMedia è gratuito
Ogni donazione è indispensabile per lo sviluppo di IrpiMedia
Stando alle informazioni rese pubbliche dalle autorità colombiane, i carichi di cocaina erano riconducibili a Chiquito Malo, ovvero Jobanis de Jesus Avila Villadiego, un narcotraficante che ha preso la guida del clan degli Urabeños dopo che il gran capo del gruppo, Dario Antonio Úsuga David alias Otoniel era stato arrestato, ad ottobre 2021, e estradato negli USA lo scorso maggio.
Cocaina su tutto lo stivale
A maggio 2021, Castano Castano si attiva per la distribuzione sul territorio italiano. La prima consegna, appena 10 chili, è una partita di prova ceduta a due noti narcotrafficanti bulgari.
La seconda consegna è dieci volte più grande: il colombiano recapita 100 chili a due pregiudicati pugliesi, referenti di un gruppo chiamato “i veneziani”. Il pagamento, viene spiegato all’undercover, sarebbe stato «saldato mediante la cessione a Angel [uno dei capi degli Urabeños] alcuni immobili nel napoletano.
A giugno i bulgari si rifanno avanti, con un ordine di 60 chili. I finanzieri li seguono fino a Roma, ma lì ne perdono le tracce. Non hanno voluto fermarli e sequestrare la droga: si sarebbe preclusa la possibilità di indagare l’organizzazione criminale transnazionale e la possibilità di sequestrare carichi più grossi.
La pazienza premia: questo primo carico non è altro che una «prova generale» di una spedizione molto più grande.
Quattro tonnellate di polvere
La Fiscalìa 42, infatti, informa gli italiani che un grande carico di cocaina è in preparazione: si parla di circa 1800 chili «che il cartello avrebbe deciso di destinare nuovamente al mercato italiano». Quasi due tonnellate, che secondo i narcos potrebbero essere facilmente distribuite in Italia, con lo stesso meccanismo usato per i primi 300 chili.
«C’è stata una progressione in cui i colombiani promettevano di inviare prima 1800 chili poi 2000 e poi si è arrivati fino a 4000 e a quel punto ci siamo mossi per organizzare la consegna controllata», spiega il comandante del Gico Iannicelli.
E così alla fine dalla Colombia (sempre con consegna controllata) a ottobre 2021 partono 4080 chili, il doppio di quanto ipotizzato. Una montagna di cocaina, con picchi di purezza fino all’85%.
Con le stesse modalità della prima spedizione, l’agente sotto copertura recupera la droga e aiuta i colombiani a smerciarla, consegnando ai clienti in Italia partite da non meno di 500 chili l’una.
A metà dicembre l’agente sotto copertura viene infatti contattato da un gruppo albanese, interessato a comprare 1800 chili di cocaina in tre consegne.
La procura di Trieste ha già tessuto la sua tela: i primi 600 chili vengono caricati il 20 gennaio 2022 in un camion sloveno in un magazzino gestito da finanzieri undercover. Ignaro, l’autista porta il camion in un capannone alle porte di Roma dove verrà arrestato assieme a chi era venuto per ritirare la cocaina.
La droga non interessa solo alle organizzazioni criminali straniere. Infatti a dicembre 2021 l’undercover viene contattato da Francesco Megna, referente di un’organizzazione calabrese che aveva concordato direttamente con il Clan Del Golfo un ritiro di 500 chili a 24mila euro al chilo, un ottimo prezzo.
Dall’incrocio tra le chat cifrate e le conversazioni ascoltate dall’undercover si capisce che Megna fa parte di un’organizzazione di narcotrafficanti di matrice ‘ndranghetista guidata da tale “Jio Scotti” (questo il nickname nelle chat).
Il mese successivo, lo stesso giro di narcos torna alla ribalta. “Jio Scotti” chiede all’infiltrato di incontrare un altro suo uomo, un giovane narcotrafficante di San Luca, che dovrà ritirare un’altro carico. Seguendolo, il Gico arriverà fino al suo capo, il misterioso “Alexander”, che solo ad aprile viene identificato. È un romano di nome Rossano Sebastiani, direttamente in contatto con i colombiani. Classe 1975, Sebastiani ha precedenti per associazione a delinquere e traffico di stupefacenti. Viene arrestato la prima volta nel 2006, perché membro di una banda che distribuiva cocaina importata dalla Spagna fra Roma e Viterbo. E poi ancora nel 2015, con oltre mille chili di droga fatta arrivare dal Brasile per la ‘ndrangheta.
Parla con l’undercover solo tramite chat cifrata, la app Surespot, e racconta come lui e “Jio Scotti” facciano capo «ad un’unica famiglia locale operante nel narcotraffico», il cosiddetto «Gruppo dei Calabresi».
Sebastiani non si dà per vinto, nonostante l’arresto del suo luogotenente sanlucota. Vuole 300 chili e così Pedro, uno dei capi del Clan del Golfo, gli organizza un incontro con i logisti triestini (ovvero gli undercover). Nel convincere l’undercover, Pedro si lascia sfuggire dettagli fondamentali: Sebastiani e i calabresi lavorano per la stessa organizzazione, e così anche Antonio Prudente dalla Colombia.
Ai primi di maggio di quest’anno il Gico viene a sapere che Sebastiani è in viaggio con un colombiano, in taxi, dalle parti dell’aereoporto di Ciampino. La GdF di Trieste, coordinata dal colonnello Leonardo Erre, decide di chiudere il cerchio e manda gli agenti a braccarlo. Ma a casa sua c’è solo la madre. Eppure dalla cellula risulta nei paraggi: i finanzieri scavalcano un cancello, trovandosi di fronte un bed & breakfast. A difenderne l’ingresso, due grossi pastori maremmani. Stanno per aggredire gli agenti quando in accappatoio, calmissimo, esce Sebastiani. Sono le nove di mattina, ha già sentito il notiziario: «Siete qui per me». Ha però una richiesta, se mi volete vivo non portatemi al carcere di Rebibbia. Deve dei soldi ad una grossa organizzazione di narcotrafficanti romani, connessa alle guerre di mafia della capitale.
Prudente resta invece latitante, come gli esponenti degli Urabeños.
I pugliesi, gli albanesi, gli sloveni e i bulgari invece sono stati tutti catturati, uniti da uno stesso destino pur essendo di gruppi slegati tra loro. «Gli acquirenti entravano direttamente in contatto con i colombiani e non si conoscevano tra loro», spiega Iannicelli a IrpiMedia.
«Normalmente l’arresto viene fatto contro i primi broker che si presentano. Gli altri candidati acquirenti spariscono perché mangiano la foglia», ha spiegato in un’intervista Antonio De Nicolo, Procuratore capo di Trieste.
Per questo, in un anno e mezzo ci sono state 19 consegne controllate che hanno permesso di tracciare gli acquirenti, e di volta in volta sequestrate la cocaina e arrestare i narcotrafficanti con delle specifiche ordinanze di custodia cautelare che il pm Federico Frezza man mano chiedeva al gip di spiccare. Un’indagine che ha richiesto una continua capacità di adattarsi, fra l’imprevedibilità di ogni consegna, il timore per la sicurezza degli undercover e vere e proprie scene da film: pedinamenti, droni, pistole in pugno. Ma la partita non è ancora chiusa, restano da fare gli arresti nella giungla colombiana e capire chi fosse “Jio Scotti”.
CREDITI
Autori
Cecilia Anesi
Edoardo Anziano
Editing
Giulio Rubino
Box
Raffaele Angius