L’esposizione ai Pfas dei Vigili del fuoco
Le sostanze perfluoralchiliche tossiche per l’uomo sono presenti sia nelle tute che nelle schiume anti-incendio, ma il ministero dell’Interno non avvia le indagini necessarie per la sicurezza dei pompieri
19 Luglio 2023

Francesca Cicculli
Laura Fazzini

Un paio di stivali, calzettoni spessi, pantaloni e una polo grigia, una giacca. E poi sopra un altro pantalone e un giaccone anti-fiamma. E ancora l’elmo e i guanti. La divisa di un vigile del fuoco che si appresta a intervenire è una composizione di diversi strati pensati per difendere la pelle dal fuoco, dalle sostanze tossiche, dai fumi. Diversi strati per isolare e proteggere, che lasciano esposto solo il viso, che viene coperto da maschere filtranti solo se l’intervento lo richiede. Ogni pompiere sa di essere protetto solo se indossa tutti questi dispositivi di protezione individuale (Dpi).

Per essere efficaci e svolgere il loro ruolo protettivo, i completi anti-fiamma devono essere costruiti con materiali resistenti al fuoco, e quelli in dotazione al Corpo nazionale dei vigili del fuoco (C.N.VV.F) contengono il Politetrafluoroetilene (Ptfe), più conosciuto come Teflon, e altri Pfas, le sostanze perfluoralchiliche note soprattutto per essere responsabili di una delle più grandi contaminazioni ambientali italiane, avvenuta in provincia di Vicenza a opera dell’azienda Miteni.

L'inchiesta in breve
  • I dispositivi di protezione individuale (Dpi) dei vigili del fuoco, come i completi anti-fiamma, contengono Teflon, materiale composto da Pfas, le sostanze perfluoralchiliche che da diversi anni sono al centro di analisi e divieti perché tossiche e cancerose per l’uomo
  • IrpiMedia ha intervistato diversi pompieri italiani, che hanno raccontato di non sapere di essere potenzialmente esposti a queste sostanze tossiche, né di essere mai stati formati per evitare una contaminazione
  • Mentre negli Stati Uniti è stata dimostrata la correlazione tra l’esposizione ai Pfas tramite i Dpi e alcune malattie che colpiscono i pompieri, in Italia il ministero dell’Interno sottovaluta il problema, evitando analisi sui completi anti-fiamma e un’indagine epidemiologica
  • IrpiMedia ha fatto analizzare un giaccone anti-fiamma di un pompiere italiano e la concentrazione di Pfas rilevata fa invece supporre che andrebbero avviate indagini più approfondite sulla sicurezza dei Dpi dati in dotazione ai vigili del fuoco

Il Teflon fino a qualche anno fa conteneva Pfoa, un Pfas considerato cancerogeno e vietato dal 2013 a causa della sua pericolosità per l’uomo. È noto soprattutto per essere contenuto nelle padelle antiaderenti – non fa propagare le fiamme, permette ai tessuti di resistere a temperature elevate, è idro e olio repellente, quindi ideale per le tute da intervento dei vigili del fuoco. Il prolungato tempo di indossamento delle tute antifiamma, unitamente al calore dovuto alle alte temperature durante gli incendi, potrebbe però aumentare la capacità del corpo umano di assorbire Pfas, che possono portare a malattie cardiovascolari e tiroidee, a tumori, ipertensione e ipercolesterolemia.

La letteratura scientifica ha già ampiamente dimostrato che i tumori più diffusi tra chi è stato esposto continuamente a Pfas sono: il cancro ai testicoli, il mesotelioma, il linfoma non Hodgkin e il cancro alla prostata. Secondo alcuni studi statunitensi questi sono quattro degli otto principali tumori che colpiscono i vigili del fuoco con una percentuale maggiore rispetto alla popolazione normale.

In Veneto inquinata la seconda falda più grande d’Europa

Tre province venete (Padova, Vicenza e Verona) per oltre cinquant’anni hanno servito Pfas ai loro cittadini tramite l’acqua di rubinetto. Prodotti dall’azienda chimica Miteni, situata nel comune di Trissino in provincia di Vicenza, questi composti sono stati scaricati nel torrente Poscola e rilasciati sotto lo stabilimento, finendo nella ricarica della falda che rifornisce 350 mila persone. Solo nel 2013 il Consiglio nazionale delle ricerche ha potuto confermare questo avvelenamento, aprendo così alla più vasta sorveglianza sanitaria italiana per sostanze chimiche. La Regione Veneto ha l’obbligo di ricercare i Pfas nel sangue dei residenti della zona rossa, la più contaminata del territorio. I primi valori raccolti nel 2017 evidenziano un superamento della soglia nel sangue per i Pfas (otto nanogrammi per millilitro) di almeno dieci volte. I bambini nascono contaminati e il tasso di alcuni tumori (rene e testicoli) nella zona rossa è il più alto del Veneto.

Nel 2021 si è aperto il processo contro 14 dirigenti Miteni e la società che ha gestito il fallimento del novembre 2018. Le accuse principali sono disastro ambientale innominato e avvelenamento delle acque. Le parti civili sono oltre 300, tra cui i ministeri della Salute e dell’Ambiente, oltre a 200 cittadini le cui analisi del sangue provano la contaminazione. Durante il processo, presso il Tribunale di Vicenza, i consulenti ambientali di Miteni hanno testimoniato come alcuni dirigenti imputati abbiano chiesto di stralciare i dati sul Pfoa nella falda, di presentare dati edulcorati all’Istituto superiore di sanità e omettere spiegazioni ai 90 operai dell’azienda.

Eppure diversi pompieri intervistati da IrpiMedia hanno raccontato di non sapere di essere potenzialmente esposti a questa sostanza tossica, né di essere mai stati formati per evitare una contaminazione. Mentre negli Stati Uniti iniziano processi contro le aziende produttrici di Dpi per i pompieri e l’amministrazione Biden stanzia milioni di dollari per gli screening oncologici dei vigili del fuoco, in Italia non risultano analisi e studi epidemiologici sui pompieri e il ministero dell’Interno dà risposte sommarie e superficiali sulla potenziale esposizione ai Pfas da parte del Corpo nazionale.

Molti malati, poche indagini

«Nei primi dieci anni in servizio ho visto molte persone a me vicine che si sono ammalate». Sergio (nome di fantasia per proteggere la sua identità in quanto già vittima di attacchi legali), pompiere con 30 anni di esperienza sul campo, ha la voce ferma quando ci racconta la sua esperienza e quella dei suoi colleghi con la malattia. Per molti il tumore è arrivato intorno ai cinquant’anni, quando erano già in pensione. Negli ultimi due anni almeno cinque persone del suo comando sono state colpite da diversi problemi di natura oncologica: chi alla prostata, chi allo stomaco o al pancreas e poi altri due, come lui, con il linfoma non Hodgink. Il più giovane tra loro ha 46 anni.

Durante le sedute di chemioterapia, tre da cinque ore ogni 23 giorni, Sergio ha iniziato a chiedersi se avesse sbagliato qualcosa nel suo lavoro, se avesse seguito sempre tutte le norme di sicurezza o se, in qualche modo, si fosse esposto accidentalmente a qualche pericolo.

A luglio dello scorso anno, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) ha infatti riclassificato la lotta antincendio dei vigili del fuoco, come occupazione ad alto rischio per il cancro. Una ricerca dell’University of Central Lancashire del 2020 aveva rivelato che il 4,1% dei vigili intervistati, ancora in servizio, avevano ricevuto una diagnosi di cancro rispetto all’1% della popolazione generale. Il cancro più comune era quello della pelle (26%), seguito da quello ai testicoli (10%), quello alla testa e al collo (4%) e dal linfoma non Hodgkin (3%). A causare tumori, secondo questa ricerca e anche secondo la Iarc, sarebbero le sostanze chimiche tossiche irritanti e cancerogene emesse durante un incendio sotto forma di polveri, fumo, vapori e fibre, prima fra tutte l’amianto.

Sergio – che ha svolto anche il ruolo di formatore dei vigili del fuoco – grazie alla sua esperienza personale ha provato a spiegare le pratiche di decontaminazione che i colleghi dovrebbero seguire per ridurre al minimo l’esposizione alle sostanze tossiche. «Con la struttura provinciale abbiamo iniziato a cercare un percorso per riuscire a tornare in sede dopo un intervento nel miglior modo possibile dal punto di vista di igiene personale e dei Dpi», racconta. «Abbiamo iniziato facendo l’igienizzazione sul posto e tentando di bloccare polveri e fumi. Smontiamo i Dpi sul luogo d’intervento e li mettiamo all’interno di sacchetti idrosolubili e poi a loro volta in sacchi della spazzatura. Da lì vengono portati in lavanderia, che può essere esterna o interna al comando».

Esempio di giaccone anti-fiamma dato in dotazione ai Vigili del Fuoco – Foto: IrpiMedia

Ma nel 2021, Sergio inizia a leggere studi che arrivano dagli Stati Uniti, dove si parlava di una possibile correlazione tra alcune malattie dei vigili del fuoco e le sostanze presenti già nei Dpi: «Mi sono informato e ho scoperto che le nostre tute anti-fiamma sono costruite in modo da avere questi Pfas a contatto con la pelle e nel tempo, per via di sudore e delle alte temperature a cui siamo sottoposti, queste sostanze potrebbero permeare all’interno».

Sergio afferma con certezza di non aver mai saputo da nessuno che i completi antifiamma possedessero Pfas e quindi di non aver mai preso precauzioni in merito. Conferma che arriva anche da Riccardo Boriassi, segretario generale aggiunto del Conapo, sindacato indipendente dei vigili del fuoco: «Della pericolosità dei Pfas lo sapevamo perché è nota a livello mondiale, ma non potevamo certo immaginare di rischiare di averlo a contatto con il nostro corpo».

IrpiMedia ha consultato diversi capitolati del ministero dell’Interno, scoprendo che a partire dal 2010 è specificato che la membrana esterna al giaccone e al pantalone deve essere composta da «Politetrafluoroetilene (Ptfe) a struttura microporosa espansa» e che sulla «parte interna delle cuciture esterne deve essere applicato un nastro Ptfe idoneo ad assicurare una perfetta aderenza». Parti della tuta antincendio sono quindi sicuramente composte da Teflon, che potrebbe potenzialmente entrare a contatto con la pelle dei pompieri ed essere rilasciato a causa delle estreme condizioni a cui questi sono sottoposti durante un intervento. Ma in Italia non sono mai stati realizzati studi che accertassero l’eventuale esposizione ai Pfas da parte dei pompieri, né è mai stata condotta un’indagine epidemiologica che accertasse la correlazione tra l’attività professionale e alcuni tumori più comuni tra i vigli del fuoco.

«Quello che sappiamo (sulle malattie che colpiscono di più i pompieri, nda) è perché ci viene raccontato dai colleghi», racconta a IrpiMedia Riccardo Boriassi. Boriassi spiega che il Corpo nazionale dei vigili del fuoco non segue la normativa Inail che associa le patologie alla professione ma, come gli altri corpi dello Stato, segue il sistema delle cause di servizio «dove tu hai l’onere della prova di dimostrare che quella patologia derivi dal servizio».

Nei primi anni 2000, proprio per dare risposte alle organizzazioni sindacali che chiedevano attenzione al problema delle malattie professionali, è nato l’Osservatorio bilaterale per le politiche sulla sicurezza sul lavoro e sanitario del C.N.VV.F, che Boriassi descrive come «un punto di incontro fra i vari uffici dell’amministrazione e le organizzazioni sindacali per fare un focus su quelli che possono essere i rischi per la salute e la sicurezza sul lavoro. Però di fatto è stato trasformato in un organismo che poi ha il potere di discutere ma non ha la potestà di decidere», sostiene il segretario del Conapo, che ha un proprio membro all’interno dell’Osservatorio e assicura che neanche in quella sede è mai stato affrontato il problema dell’esposizione ai Pfas e le malattie a questi collegate.

Alcuni pompieri hanno scoperto le loro patologie grazie ai controlli sanitari a cui devono sottoporsi ogni due anni. Si parte dall’analisi del sangue, la spirometria, l’oculistica. Poi c’è un consulto psicologico e l’elettrocardiogramma. «I risultati vengono inviati al medico presente in ogni comando che, in caso di referti dubbi, può chiederti di fare ulteriori esami a tuo carico», racconta Sergio. Se la patologia viene diagnosticata fuori dai controlli programmati, molti decidono di nasconderla per evitare il decurtamento dello stipendio che scatta quando il problema persiste per più di nove mesi. «Quindi la gente ci pensa bene prima di rendere noto un problema di salute finché può andare avanti con le proprie forze», spiega Sergio, che è stato tra quelli che ha deciso di nascondere la propria patologia.

L’apripista

Nel frattempo, negli Stati Uniti, la lotta per la difesa della salute dei vigili era già cominciata nel 2014 con una frase: «Yes, it’s cancer». A pronunciarla un medico dell’ospedale di Worcester (Massachusetts) a Paul Cotter, vigile del fuoco di 55 anni, ammalato di cancro alla prostata. Un vigile sano, senza patologie familiari, senza sintomi, aveva ricevuto la diagnosi dopo un’analisi di routine. La moglie Diane decide di capire meglio il motivo di quella tragedia: studia i documenti sanitari presenti negli archivi dei sindacati trovando una richiesta del sindacato Iaff (International Association of Firefighters) del 1999 in cui si chiedeva di ritirare delle tute a seguito della morte per ustione di un pompiere. A certificare le tute come idonee è la National Fire Protection Association, organizzazione statunitense che rilascia gli standard ed è composta per metà dai produttori delle tute. Diane inizia a chiedere la composizione dei dispositivi di protezione, ma riceve risposte vaghe. Sul Pfoa le viene detto che era presente solo in tracce.

Decide allora di comprare un intero equipaggiamento nuovo e farlo analizzare. Il professore di fisica nucleare Graham Peaslee dell’Università di Notre Dame si offre per svolgere questo lavoro. Il lavoro di Peaslee, interamente pro bono e pubblicato nel 2020, dimostra che le giacche contengono Teflon che viene rilasciato costantemente, sia durante i lavaggi sia durante il loro utilizzo. La nuova direzione della Iaff con il presidente Ed Kelly ottiene la conferma che le giacche siano rivestite da Teflon e riesce a siglare accordi con i singoli Stati per cercare dei sostituti sia per i vestiti sia per le schiume antincendio, anch’esse piene di Pfas.

A luglio 2020 il senatore democratico Dan Kildee presenta al 116esimo Congresso la richiesta di una legge che tuteli i pompieri dalle esposizioni a Pfas dovute agli equipaggiamenti. La stessa amministrazione di Joe Biden a marzo 2023 ha destinato 370 milioni di dollari per sostenere screening oncologici per i pompieri.

Ora Diane e Paul, che ha superato la malattia, hanno intrapreso una seconda battaglia. Il 5 giugno scorso è partito un processo penale contro alcuni produttori di tute anti-fiamma, aiutati dall’avvocato Robert Bilott che per primo agli inizi degli anni ’90 scoprì i Pfas nelle acque potabili del West Carolina.

Gli stessi pericoli

Le vicende e gli studi statunitensi, anche grazie a IrpiMedia che ha iniziato a lavorare sul tema, sono arrivati due anni fa ad alcuni sindacati italiani dei vigili del fuoco, tra cui il Conapo e la FNS Cisl. Quest’ultima, il 7 giugno 2021, durante una riunione dell’Osservatorio bilaterale per le politiche sulla sicurezza sul lavoro e sanitario, chiede «specifiche verifiche tecniche all’Amministrazione per accertare la presenza dei Pfas nei Dpi e negli schiumogeni usati dal personale del C.N.VV.F», visto che «negli Stati Uniti e in altri Paesi Ue, recenti e fondati studi scientifici hanno riscontrato la presenza del Pfas nei Dpi e nelle attrezzature dei vigili del fuoco, scoprendo, addirittura, che tali sostanze sono state rinvenute non solo all’esterno degli indumenti protettivi, ma anche nel rivestimento interno degli stessi».

Il giorno successivo si unisce alla richiesta anche il Conapo che registrava «preoccupazione tra i vigili del fuoco italiani dopo la pubblicazione di una ricerca condotta su 135 vigili del fuoco del New Jersey che ha rivelato la presenza nel sangue di valori di sostanze perfluoroalchiliche di molto superiori alla media della normale popolazione». Il sindacato chiedeva quindi di rendere noto con urgenza se anche negli indumenti e nei dispositivi di protezione individuale dei vigili del fuoco italiani fossero presenti tali sostanze.

La risposta arriva il 14 giugno 2021 da parte della Direzione centrale per le risorse logistiche e strumentali in capo al ministero degli Interni. Non è firmata e contiene una serie di informazioni che la Fns Cisl definisce «approssimative e contrastanti». Il Ministero sostiene infatti di aver «proceduto ad effettuare un controllo su un documento di analisi rilasciato da laboratorio certificato, così come previsto in occasione di forniture di Dpi». Il documento fa riferimento a una fornitura di completi antifiamma del 2018 che, secondo i dati consegnati dall’azienda produttrice, presenta «una concentrazione di PFOA e PFOS < 0,1 μg/m2 (inferiore a 0,1 microgrammo per metro quadrato, ndr)». L’Amministrazione centrale quindi afferma che: «Per quanto riportato, non vi è alcun elemento che giustifichi il dubbio circa la sicurezza dei Dpi in uso ai vigili del fuoco italiani, per quanto riguarda la presenza di Pfas» e aggiunge che va considerato anche che «il completo antifiamma non viene mai utilizzato a contatto con la pelle, ma sono interposti più indumenti di separazione, fra cui l’uniforme da intervento».

Il Ministero quindi conferma che le tute contengano Pfas, ma non ritiene necessario approfondire, con ricerche indipendenti rispetto a quanto dichiarato dai produttori e dai certificatori degli indumenti, la percentuale di Pfas presente nei completi antifiamma, né se queste sostanze possano rappresentare un pericolo per i pompieri.

La risposta del Ministero non ha soddisfatto quindi i sindacati, che hanno chiesto a Roma di procedere con un biomonitoraggio nazionale per valutare, in un campione significativo di pompieri, l’eventuale presenza di Pfas nel sangue, l’eventuale correlazione con alcune malattie e per procedere, in caso di necessità, ad acquistare indumenti privi di queste sostanze.

«Noi ci saremmo aspettati che un gruppo di vigili del fuoco venisse sottoposto ad analisi. Perché al di là di quanti Pfas ci siano nelle uniformi, quello che effettivamente dobbiamo sapere è se poi questi vadano nel corpo umano e se li assorbiamo», afferma Riccardo Boriassi, che aggiunge: «La risposta poi è arrivata dalla Direzione centrale per le risorse logistiche e strumentali, cioè coloro che si occupano di acquistare le uniformi, non ci ha risposto l’area sanitaria del Corpo nazionale, cioè quella che si sarebbe dovuta occupare di verificare se ci fosse o meno una contaminazione da parte di queste sostanze. L’impressione che abbiamo avuto è che questo dei Pfas non sia un problema per la nostra Amministrazione».

È vero, inoltre, che il giaccone anti-fiamma non dovrebbe essere utilizzato direttamente a contatto con la pelle, ma le interviste raccolte da IrpiMedia restituiscono un quadro più complesso: «Per disposizioni noi dovremmo indossare al di sotto di questi giacconi la nostra maglia, il nostro giubbetto e anche i pantaloni, ma in alcune situazioni diventa impossibile essere vestiti in questa maniera, quindi, alcune volte si mettono i pantaloni e la maglietta a maniche corte e si va, perché altrimenti sarebbe improponibile lavorare con temperature all’esterno e all’interno altissime», dichiara a IrpiMedia Paolo Zanarella, rappresentante sindacale provinciale della Fns Cisl a Vicenza.

Con una richiesta di accesso agli atti, IrpiMedia ha domandato al Ministero di poter visionare il documento di analisi del completo antifiamma del 2018 inclusivo del nome del laboratorio che aveva eseguito l’analisi e della società produttrice. Dal Foia sono emersi due nomi: Alfredo Grassi Spa e il Centro Tessile Cotoniero ed abbigliamento Spa (Centrocot). Entrambe le aziende si sono opposte alla nostra prima richiesta di accesso: la prima, per questioni di interessi economici e commerciali – la divulgazione della composizione del completo, secondo la Grassi, avrebbe rappresentato «un ingiustificato aiuto e vantaggio competitivo nello sviluppo tecnico degli altri operatori che sarebbero in grado di raggiungere senza alcuno sforzo i risultati ottenuti negli anni dalle nostre attività di ricerca» – la seconda perché impossibilitata a divulgare copia dei rapporti di prova in quanto di proprietà del cliente. Grazie a un riesame, siamo riusciti comunque a ottenere la tabella con dati relativi alla percentuale di Pfas presente nel completo antifiamma – certificata dal Centro Cotoniero – che coincidono con quanto comunicato dal Ministero.

Il rapporto di prova su un completo anti-fiamma del 2018 appartenente alla Grassi Spa. Le analisi sono state realizzate dal Centro Tessile Cotoniero ed abbigliamento Spa e inviateci dal Ministero in risposta a una richiesta di accesso agli atti

Nella tabella fornita dal Centro Tessile Cotoniero si nota che Pfos e Pfoa, i due composti più tossici, sono espressi in una unità di misura diversa da quella utilizzata per l’analisi degli altri Pfas. Secondo chimici esperti ascoltati da IrpiMedia queste due unità di misura in un’unica tabella sarebbero insolite, dato che normalmente i laboratori chimici accreditati rilasciano risultati su sostanze analizzate con la stessa unità di misura. Abbiamo chiesto spiegazioni al centro certificatore, ma non sono arrivate risposte.

Alfredo Grassi Spa e Centro Tessile Cotoniero ed abbigliamento Spa

La Grassi Spa è un’azienda di Busto Arsizio (Varese) nata nel 1925 come produttrice di tessili tecnici. Attualmente la sede principale si trova a Lonate Pozzolo, sempre in provincia di Varese, ma nel tempo sono nate diverse sedi internazionali in Francia, Romania, Tunisia, Spagna, Albania. I loro indumenti vantano diverse certificazioni che dovrebbero garantire la sicurezza di chi li indossa. Anche per questo motivo e per criteri strettamente economici, gran parte delle gare d’appalto per la fornitura di completi antifiamma dei vigili del fuoco italiani vengono vinte dalla Grassi, che di fatto ha una sorta di monopolio. «Basta prendere le etichette e l’etichetta Grassi è largamente la più diffusa tra gli indumenti dei vigili del fuoco», dice a IrpiMedia Riccardo Boriassi. Tutti i vigili intervistati possiedono tute di questa azienda. La Grassi non ha risposto alle nostre domande riguardo la sicurezza dei Dpi da loro prodotti e la quantità di Pfas che contengono e/o rilasciano. Dalla schede tecniche degli indumenti da noi visionate, non è possibile risalire a queste informazioni.

Dettaglio di un pantalone anti-fiamma prodotto dalla Grassi Spa – Foto: IrpiMedia

Dettaglio di una giacca anti-fiamma prodotto dalla Grassi Spa – Foto: IrpiMedia

Il Centro Tessile Cotoniero ed abbigliamento Spa è invece l’azienda autorizzata da Accredia e quindi dal Ministero per dare, ai prodotti della Grassi e delle altre aziende tessili, le certificazioni utili per poter immettere nel mercato i loro prodotti o presentarli alle gare d’appalto ministeriali. Di proprietà per la gran parte della Fondazione del Tessile Italiano, è stata fondata per sostenere le aziende che compongono l’intera catena nel settore tessile e abbigliamento, fornendo servizi altamente specializzati, dal tessile tradizionale ai tessili tecnici. Svolge attività tecniche quali test di laboratorio, ricerca, supporto tecnico, sperimentazione e formazione.

Mentre l’Amministrazione centrale non ha provveduto con verifiche indipendenti e approfondite e ha lasciato che l’allarme Pfas cadesse nel vuoto, IrpiMedia ha fatto analizzare una giacca antifiamma del 2014 prodotta dall’azienda Grassi, di cui è venuta in possesso. Abbiamo inviato la giacca negli Stati Uniti, proprio al professor Graham Peaslee, che si è offerto di condurre l’analisi per noi e ha effettuato la misurazione della quantità totale di fluoropolimeri presenti nel giaccone italiano. La sua risposta è estremamente preoccupante:

«(In generale, nda) i tessuti costruiti con fluoropolimeri presentano un valore di fluoro totale di circa 50.000 ppm (parti per milione) o superiore, ciò equivale a circa il 5% di fluoro sulla superficie. La barriera anti umidità interna dei dispositivi di protezione è in genere realizzata in Ptfe che, quando lo misuriamo, restituisce concentrazioni di fluoro totale superiori al 20-30%. I vostri ricambi italiani sembravano avere questi valori di fluoro totale identici a quelli dei ricambi che abbiamo misurato negli Stati Uniti e in Australia».

Secondo queste dichiarazioni, le tute italiane potrebbero quindi contenere diversi tipi di Pfas, come le tute statunitensi e australiane che, secondo Peaslee, possiedono una quantità di Pfoa pari a 2,18 ng/g.

I documenti inviati dal professore specificano che la barriera anti-umidità «è stata sigillata tra lo strato esterno e quello termico, tranne che all’estremità del polso, dove sporgeva in modo da essere probabilmente a contatto con la pelle del polso». In quella zona, Peaslee ha rilevato un valore estremamente alto di fluoro, fuori scala, quindi non misurabile dal suo laboratorio.

Graham Peaslee analizza un completo anti-fiamma consegnato da IrpiMedia per rilevare la presenza di Pfas sulla superficie esterna e interna della tuta
Graham Peaslee analizza il polsino del completo anti-fiamma consegnato da IrpiMedia, dove la barriera anti-umidità sporge e sarebbe a contatto con la pelle del pompiere. In questa zona, Peaslee ha rilevato un valore estremamente alto di fluoro

I dati del Ministero e quelli di Peaslee mostrano alcune divergenze. Uno dei due esperti consultati ci ha spiegato che «l’americano dà dei numeri puntuali, mentre il Ministero (tramite le prove del Centro Tessile Cotoniero, nda) non ha indicato un valore specifico».

Non avendo a disposizione una concentrazione specifica come quella inviataci dal professore americano, abbiamo fatto convertire dall’esperto i dati di Peaslee con quelli arrivati dal Ministero, riconducendoli a una stessa unità di misura. Per farlo abbiamo utilizzato la dimensione della superficie della tuta segnalata in una delle schede tecniche dei completi antifiamma della Grassi (210 g/m2). I risultati ottenuti mostrano che la tuta fatta analizzare da IrpiMedia ha una quantità di Pfoa quattro volte maggiore rispetto alla soglia comunicata dal Ministero, e di sedici volte maggiore per il Pfos. Va specificato che la tuta da noi analizzata era stata già utilizzata da un pompiere – e quindi una certa quantità di Pfas potrebbe averla raccolta durante un intervento – mentre la tabella fornitaci da Roma fa probabilmente riferimento ad analisi svolte su una tuta vergine, mai contaminata.

La dimensione della tuta, inoltre, potrebbe essere differente e la nostra quindi è solo una stima, ma i dati che emergono dovrebbero quanto meno chiedere analisi più approfondite alle aziende produttrici dei completi anti-fiamma e a chi le certifica come sicure. È possibile che i pompieri siano a contatto con un’alta quantità di Pfas, ma il Ministero non è stato in grado di fornire quelle analisi che IrpiMedia ha provato a realizzare, né di spiegare i risultati ottenuti dal Centrocot. Possiamo sperare che dal 2014 – anno della tuta fatta analizzare da IrpiMedia – al 2018 – anno di produzione della tuta visionata dal Ministero – nel frattempo i tessuti siano stati aggiornati e la percentuale di Pfas sia scesa, ma non abbiamo certezze: né il Ministero, né la Grassi Spa, hanno risposto alle nostre domande.

I pompieri intervistati, comunque, garantiscono che non è mai stata richiesta una sostituzione complessiva e su base nazionale dei completi antifiamma: «Tutto quello che effettivamente è stato fornito dopo il 2018 è in aggiunta ai capi, senza indicazione a non usare i precedenti», sostiene Riccardo Boriassi.

La sostituzione degli indumenti avviene su richiesta del singolo pompiere, quando ritiene che questi siano logori. Attualmente quindi, alcuni pompieri potrebbero avere ancora in dotazione completi antifiamma del 2014, ma anche precedenti. Paolo Zanarella della Fns Cisl spiega: «I magazzini centrali fanno gli appalti e li acquistano (i completi antifiamma, nda), per poi essere assegnati ai comandi. Per quanto riguarda il comando, dobbiamo dire quanti ne abbiamo usurati, dopodiché dobbiamo fare richiesta e ci arriva solo un numero stretto necessario per fare le sostituzioni. Però non c’è mai stata una sostituzione in toto, per dei componenti che fanno male, per cui ci hanno detto li togliamo e vi mandiamo questi nuovi. Anche perché se ritorniamo alla risposta dell’Amministrazione per loro va bene così».

La cura dei propri Dpi, aggiungono quasi tutti gli intervistati, è responsabilità del singolo, sia per la pulizia, che per la conservazione e l’eventuale sostituzione. I singoli Dpi, inoltre, secondo le schede tecniche, possono resistere solo a un certo numero di lavaggi, preservando le loro qualità, ma le testimonianze raccolte ci dicono che il conteggio dei lavaggi non viene fatto sempre e quindi le tute anti-fiamma potrebbero essere utilizzate anche quando non più sicure. Molti assicurano di non sapere quanti lavaggi ha effettuato il proprio completo.

È difficile, inoltre, che un pompiere possieda più di un ricambio dei propri completi da intervento: «È frequentissimo che i vigili neo assunti non abbiano nemmeno un ricambio, cioè se dovessero mandare a decontaminare e o a lavare in maniera approfondita quel capo, non possono più effettuare interventi perché non hanno nemmeno un capo di sostituzione», spiega Boriassi. Molti potrebbero quindi dover utilizzare, durante una giornata, lo stesso indumento in diversi interventi, senza avere fatto la decontaminazione richiesta. A questo si aggiunge un altro problema: qualche pompiere, proprio per l’assenza di ricambi, decide di lavare a casa il proprio completo, così da ridurre i tempi. In questo modo, però, il Dpi potrebbe essere pulito senza attuare le corrette procedure di decontaminazione e di mantenimento delle sue proprietà, cosa che avviene nelle lavanderie specializzate.

Mancanza di alternative e di norme più stringenti

Grazia Cerini, Consigliere delegato e Direttore generale del Centrocot, ritiene che al momento per i completi anti-fiamma non ci siano alternative valide quanto i Pfas che, seppur nocivi, garantiscono ai pompieri la protezione dal fuoco. Lo conferma anche Marco Colli, responsabile Prove, ispezioni e certificazioni Dpi dello stesso centro certificatore, che racconta a IrpiMedia come già la sola sostituzione dei Pfas più nocivi con quelli non ancora vietati abbia fatto segnalare un peggioramento delle qualità dei completi. I nuovi Pfas rendono il Teflon meno resistente, vittima delle alte temperature e dei lavaggi: «Il trattamento (sugli indumenti dei pompieri, nda) permane meno sulla superficie, quindi con i lavaggi tende a scomparire e la protezione non è più data come all’origine. I Pfas sono l’unica strada per dare questo tipo di protezione agli indumenti dei vigili del fuoco, perché sono indumenti che proteggono da tanti rischi: calore, fuoco, contatto con l’acqua, agenti chimici», spiega Marco Colli, secondo cui la gran parte dei completi che analizzano – indipendentemente dall’azienda produttrice – perde le sue qualità protettive dopo solo 25 lavaggi.

Il Centrocot rilascia sia le certificazioni europee obbligatorie sia quelle volontarie, come la OEKO-TEX® Standard 100 – posseduta anche dalle tute della Grassi – che fissa criteri più stringenti rispetto alle norme europee e stabilisce un limite massimo di Pfas pari a 250 µg/kg. Limite che, secondo i dati arrivati dal professore americano, potrebbe essere stato superato dalle tute utilizzate dai vigili del fuoco italiani almeno fino al 2014. Dal primo trimestre del 2023, l’OEKO-TEX ha comunque stabilito un divieto generale all’uso di Pfas nei tessuti che possiedono la certificazione Standard 100. Le tute anti-fiamma dell’azienda Grassi andrebbero quindi rianalizzate prima di concedere di nuovo questa certificazione volontaria, che garantisce anche punti aggiuntivi per l’aggiudicazione delle gare d’appalto.

La certificazione europea per i Dpi prevede invece di verificare solo se il dispositivo protegge o non protegge – nel caso dei vigili del fuoco da fiamme e sostanze tossiche – se possiede il giusto pH e se rilascia ammine aromatiche cancerogene, vietate per legge, ma non dice nulla riguardo ai Pfas. Manca quindi una direttiva europea, obbligatoria, che controlli l’utilizzo di Pfas nei Dpi dei pompieri.

L’esposizione ai Pfas per i pompieri è un tema che è stato comunque affrontato dal 2020, in risposta a un regolamento europeo che ha vietato l’utilizzo di Pfoa nelle schiume anti-incendio. I pompieri intervistati sostengono che in Italia le schiume siano state sostituite con schiume prive di Pfas, ma è impossibile verificare se la sostituzione abbia interessato tutto il territorio nazionale in quanto la competenza era dei singoli comandi regionali e dal Ministero non hanno risposto alle nostre domande. In alcuni comandi, comunque, le vecchie schiume potrebbero essere utilizzate ancora per le esercitazioni interne e gli automezzi potrebbero non essere stati bonificati accuratamente per evitare che le nuove schiume venissero contaminate. I pompieri quindi potrebbero ancora essere esposti ai Pfas anche tramite i vecchi schiumogeni o tracce di questi, oltre che per mezzo delle tute. Un’indagine più approfondita sull’esposizione dei vigili ai Pfas, e sulle eventuali conseguenze che questi possono aver causato sui pompieri, diventa sempre più urgente.

CREDITI

Autori

Francesca Cicculli
Laura Fazzini

Editing

Giulio Rubino

Foto di copertina

SOPA Images/Getty