#PiratiDelMediterraneo
Lorenzo Bagnoli
Il 13 aprile 2020 era il lunedì di Pasquetta. All’ora di pranzo la Armed Force Malta, la marina militare maltese, ha diffuso un messaggio telex a tutte le imbarcazioni che stavano navigando nella zona di Search and rescue (Sar) dell’isola. Si chiama Sar l’area marittima sotto la responsabilità di un Paese rivierasco per il coordinamento delle operazioni di salvataggio di chi rischia il naufragio. Questa responsabilità è ratificata agli Stati dall’International Maritime Organization, l’agenzia Onu che si occupa di navigazione, a patto che sottostiano ad alcune convenzioni internazionali. «Tutte le navi che transitano nell’area devono tenere alta la guardia e assistere se necessario», recitava il messaggio. Alcuni gommoni con a bordo in tutto 64 migranti partiti da Garabulli, 50 chilometri a est di Tripoli, stavano affondando. Nel messaggio le autorità maltesi aggiungevano che non avrebbero permesso lo sbarco sull’isola a chi avesse recuperato i migranti, a causa delle restrizioni Covid.
Durante quel naufragio, avvenuto a 25 miglia dalle coste di Lampedusa, sono morte in tutto dodici persone. Sono le vittime di quella che verrà poi ricordata come “strage di Pasquetta”. Gli altri 52 naufraghi sono stati riportati in Libia, nel centro di detenzione di Tariq al Sikka a Tripoli, riporta il Times of Malta. Quest’ultimo viaggio verso il Paese nordafricano costituisce un respingimento, contestato da organizzazioni umanitarie e politiche. Sia in Italia sia a Malta sono in corso delle indagini per accertare le responsabilità del naufragio e la violazione delle convenzioni internazionali in materia di asilo politico.
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A coordinare lo scambio di informazioni tra le autorità maltesi e quelle libiche è stato Neville Gafà, ex membro del gabinetto del primo ministro maltese fino a gennaio 2020. Primo ministro era il suo amico di sempre Joseph Muscat, costretto a dimettersi a seguito delle rivelazioni che hanno accostato membri del suo staff all’imprenditore ritenuto mandante dell’omicidio di Daphne Caruana Galizia, Yorgen Fenech. Neville Gafà ha precisato a IrpiMedia di aver agito «come consulente esterno», per conto del gabinetto del primo ministro, che all’epoca era già Robert Abela, il successore di Muscat. Da quando Abela è al governo, tuttavia, Gafà non ha più ricoperto incarichi pubblici. È stato scelto come consulente «perché tra il 2014 e il 2020 ho continuato a viaggiare e ho mantenuto le relazioni diplomatiche tra Malta e Libia».
Secondo Gafà l’operazione di salvataggio (a suo parere è scorretto chiamarlo «respingimento») «è avvenuta nelle acque libiche». Dal 2016 prima l’Italia poi l’intera Unione europea hanno finanziato la creazione di un centro di coordinamento delle operazioni di salvataggio in Libia. I centri di coordinamento, la cui sigla in inglese è Mrcc, sono responsabili della gestione pratica del salvataggio all’interno della zona Sar di loro competenza. L’effettiva esistenza e capacità d’intervento del Mrcc di Tripoli è stata contestata da organizzazioni internazionali come l’Associazione studi giuridici per l’immigrazione (Asgi) secondo cui in pratica ogni recupero in mare dei guardacoste libici è un respingimento per conto delle autorità europee che li finanziano.
«Il mio unico scopo era riportare i migranti a terra sani e salvi», dichiara Gafà, che difende l’operato della guardia costiera libica e ritiene che chi critica la gestione dei centri di detenzione «dovrebbe andare a vedere con i propri occhi come i migranti sono trattati». Di fronte ai giudici maltese che lo hanno sentito nell’ambito del processo scaturito a seguito della strage di Pasquetta, Gafà ha aggiunto di aver condotto altre operazioni simili: solo tra luglio 2018 e gennaio 2019 53 migranti sono stati riportati in Libia con le stesse modalità.
La condanna del comandante di Asso28 e le polemiche sui centri di detenzione
Per la prima volta un tribunale italiano ha condannato il comandante di una nave privata per aver riportato dei naufraghi – potenziali richiedenti asilo – in Libia. Lo riporta Avvenire il 14 ottobre. La sentenza è del tribunale di Napoli e la nave coinvolta è la Asso28, rimorchiatore che lavora alla piattaforma petrolifera Sabratha controllata dalla Mellitah Oil & Gas, società compartecipata da Eni e Noc, la società petrolifera nazionale libica. L’episodio è avvenuto alla fine di luglio 2018: la Guardia costiera libica ha coordinato un’operazione di salvataggio nei pressi della piattaforma. Il recupero dei 101 naufraghi coinvolti è stato svolto da Asso28, la quale poi era stata costretta a consegnare i migranti ai guardacoste libici, i quali poi li avevano riportati indietro. Le motivazioni spiegheranno come mai il comandante è stato ritenuto colpevole, nonostante fosse stato costretto.
Una volta riportati in Libia, i migranti vengono detenuti nei centri che dipendono dal Direttorato per combattere l’immigrazione irregolare, organismo affiliato al Ministero dell’Interno del governo di Tripoli. Se le organizzazioni umanitarie internazionali considerano questi centri dei luoghi di tortura, alcuni pubblici ufficiali in carica e non come Gafà li considerano invece pienamente legittimi e riconosciuti dalla comunità internazionale. «L’organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) sta facendo un lavoro eccellente in Libia e non si può dire da un lato che lavorano bene e dall’altro dichiarare che le condizioni nei centri sono disumane», ha dichiarato Gafà a IrpiMedia.
In realtà però l’Oim, come le Nazioni unite da cui l’agenzia dipende, non considera la Libia un porto sicuro proprio per le condizioni in cui versano i migranti. L’agenzia non è poi responsabile dei centri, ma è presente ai punti di sbarco per offrire primaria assistenza ai migranti fino al momento in cui vengono trasferiti nelle strutture di detenzione. L’Oim ritiene la detenzione dei migranti «arbitraria» e definisce le condizioni di prigionia «inaccettabili e disumane».
La flotta fantasma
È stata un’inchiesta del quotidiano Avvenire, svolta in contemporanea anche da Guardian e New York Times, a scoprire che il respingimento – illegale secondo la Convenzione di Ginevra sui diritti umani – non è stato condotto dalla Guardia costiera libica, come accade di solito, ma da un peschereccio partito da Malta senza nome e senza codice Imo, il numero identificativo di tutte le navi al di sopra di una certa lunghezza, entrambi cancellati con una mano di vernice.
La nave fantasma con i 52 superstiti del naufragio diretta in Libia è la Dar Al Salaam 1, un peschereccio registrato in Libia dal febbraio 2020 che secondo quanto emerso in dibattimento sarebbe stato ingaggiato «tre o quattro volte» dal governo maltese per simili operazioni. Ne è proprietaria da oltre dieci anni la società di un armatore maltese, Carmelo Grech, accusato e scagionato per contrabbando di sigarette con la Libia. Almeno dallo scoppio della rivoluzione che ha rovesciato il regime di Gheddafi nel 2011 Grech è coinvolto in diverse attività con il Paese nordafricano, anche di rifornimento di cibo e viveri, ha raccontato nel 2015 al Malta Independent. All’epoca diceva che non sarebbe rientrato in Libia dopo essere stato arrestato con l’accusa, a suo parere inventata, di trasportare 300 mila euro in contanti. Il suo nome e il suo ruolo nella vicenda sono emersi subito, ma Grech non ha voluto rispondere ai giornalisti.
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Secondo quanto ricostruito dalle inchieste giornalistiche e in tribunale, insieme alla Dar al Salaam 1, il 13 aprile hanno lasciato il porto di Valletta anche altri due pescherecci: la Salve Regina e la Tremar, entrambi in funzione di “supporto”. Una donna intervistata dal Guardian rammenta di tre imbarcazioni e che l’equipaggio «ci ha detto di essere egiziano e di lavorare in mare per conto di Malta». Dopo l’operazione di recupero, la Tremar si è messa in attesa di istruzioni mentre la Salve Regina con a bordo acqua e cibo per i migranti ha scortato la Dar Al Salaam 1 fino alla Libia.
Armatori e comandanti collegati alla Tremar – finora poco indagati – sono riconducibili a un presunto cartello di trafficanti di prodotti petroliferi. Le imbarcazioni che hanno utilizzato sono citate nei rapporti del gruppo di esperti delle Nazioni unite che indaga sui traffici in Libia. Compaiono nelle indagini condotte dalla Procura antimafia di Catania sul contrabbando di gasolio. Questi personaggi tra loro sono legati dall’appartenenza non a una stessa associazione criminale, ma semmai a un cartello. A differenza delle associazioni, i cartelli possono essere geometrie criminali altamente conflittuali. Le varie componenti, per quanto interdipendenti l’una con l’altra, si contendono il primato sugli altri.
Dal 2015 appartengono al cartello imprenditori che le procure italiane ritengono abbiano collaborato con uomini di cosa nostra e, secondo gli ultimi sviluppi investigativi, di ‘ndrangheta e camorra. «Non ho mai incontrato Amer Abdelrazek, non lo conosco», ha dichiarato il consulente del governo maltese Neville Gafà a IrpiMedia. Ha precisato che non era suo compito individuare imbarcazioni private da coinvolgere nell’operazione di salvataggio.
L’omicidio di Daphne Caruana Galizia
Daphne Caruana Galizia è stata uccisa da un’autobomba il 16 ottobre 2017. Tra 2015 e 2016 ha scritto della faida che si era scatenata tra i trafficanti di gasolio di Malta. Gli esecutori materiali dell’omicidio provengono da un milieu criminale locale, sul quale ha indagato un gruppo di polizie internazionali coordinate da Europol. A questo ambiente appartengono anche diversi contrabbandieri di prodotti petroliferi. Imputato in qualità di mandante dell’omicidio è l’imprenditore maltese Yorgen Fenech.
Questo cartello, come ricostruito nelle precedenti inchieste di IrpiMedia, nasce a un livello quasi innocente, dagli scambi di gasolio fra pescatori maltesi e nordafricani: i secondi avevano a disposizione relativamente piccole quantità di gasolio per rifornire i primi a prezzi stracciati. I pescatori maltesi hanno così cominciato a portare a terra un secondo carico, oltre al pescato, che può essere rivenduto sull’isola.
Dopo la caduta di Gheddafi nel 2011, la Libia ha cominciato ad avere grandi quantità di gasolio internazionale venduto con sussidi per renderlo conveniente sul mercato interno: per quanto ricco di petrolio, lo Stato libico dispone di pochissime raffinerie. La misura, pensata come emergenziale, è ancora attiva, per quanto il capo del Governo di unità nazionale Abdelhamid Dabeiba abbia messo in piedi a marzo 2021 un comitato per provare a pensare un’alternativa ai sussidi. Il gasolio sussidiato, infatti, quando è rivenduto all’estero da contrabbandieri dà degli enormi margini di profitto. È un mercato parallelo, dove la società petrolifera libica, la Noc, non incassa nulla. Nel 2018 il presidente della Noc, Mustafa Sanalla, stimava tra il 30 e il 40% il gasolio libico perso nel mercato nero.
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L’affare si è trasformato in un business transnazionale con l’ingresso in scena di un duo di imprenditori con contatti e le competenze nel settore petrolifero: Darren e Gordon Debono, omonimi ma non parenti. È improprio chiamarli “soci” o “partner commerciali”: «La verità è più vicina al contrario», ha dichiarato ai giornali maltesi a marzo 2021 Gordon Debono attraverso i suoi legali, sporgendo querela contro i giornali maltesi che lo definivano «associato» a Darren Debono.
Il tribunale di Catania, nell’ottobre 2017, ha ordinato l’arresto per entrambi gli imprenditori, insieme a una rete di broker petroliferi, agenti marittimi, armatori, comandanti, affiliati a milizie libiche, con l’accusa di traffico internazionale di gasolio, venduto in Italia senza pagare le accise. Il processo a loro carico è ancora in corso.
Tutte le indagini citate nell’articolo
Il sistema criminale, secondo le ipotesi degli investigatori, è tuttavia sorto con la loro collaborazione. Gordon aveva a disposizione le petroliere, le società di trading e i grossisti di prodotti petroliferi (soprattutto in Italia); Darren era invece in ottimi contatti con i fornitori libici e disponeva in Libia di una flotta di pescherecci e bettoline. Il 24 novembre 2020 i due, insieme ad altri soci, sono stati arrestati (e in seguito rilasciati su cauzione) nell’ambito dell’operazione Proteus, coordinata da Europol. Sono accusati di avere riciclato il denaro proveniente dal traffico di carburante attraverso una rete di professionisti e avvocati. Sono stati rinviati a giudizio in procedimenti diversi a Malta, entrambi ancora alla lora fase istruttoria, durante la quale la pubblica accusa può continuare a raccogliere prove.
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Lorenzo Bagnoli