Avevano il quartier generale in un bar di Via Resia, l’ultima periferia costruita a Bolzano negli anni ‘70. Un luogo di edilizia popolare, lontano dagli sfarzi dei famosi portici dai negozi scintillanti, che bene rappresentano la ricchezza del Sudtirolo. Un luogo dimesso, eppure strategico, vicino allo svincolo autostradale per il Brennero che da lì porta dritti in Austria e poi fino al sud della Germania, quella Baviera dove la ‘ndrangheta ha ormai costruito una presenza stabile. È dall’anonimo bar Coffee Break che Mario Sergi gestiva tanto i cappuccini quanto una locale di ‘ndrangheta. Questa l’accusa della Direzione Distrettuale Antimafia di Trento che, con la Squadra Mobile, ha arrestato 20 persone tra il Trentino Alto Adige, il Veneto, e Platì (Calabria) lo scorso 9 giugno. Un fiorente traffico di cocaina, che imbiancava l’Alto-Adige con circa cinque chili al mese, l’attività principale del gruppo di Sergi. I narcos calabresi la acquistavano a buon prezzo, tra i 29 e i 32mila euro al chilo. Un business che – se confermato – faceva di loro una vera e propria impresa, capace di fare concorrenza alle grandi aziende lecite sudtirolesi, perchè tolti i costi e considerato il prezzo medio della cocaina al grammo la holding “Coffee Break” poteva contare su profitti tra i 150 e i 300mila euro al mese. Un “fatturato” esentasse che supera di gran lunga quello delle piccole e medie imprese sudtirolesi che si aggirano sui 38.000 euro al mese. Un fiume di cocaina per una piccola città di 100mila abitanti, ma non senza costi sociali. Parliamo di una regione già colpita duramente negli anni ‘80 dalla piaga dell’eroina, e che nell’ultimo decennio ha visto un preoccupante nuovo aumento delle tossicodipendenze. Un contesto in cui, secondo gli inquirenti e il giudice per le indagini preliminari Marco La Ganga, si sono inseriti alla perfezione i narcos aspromontani. Li ritiene pericolosi trafficanti di droga, affiliati alla ‘ndrangheta, e in grado di controllare il territorio altoatesino con la forza dell’intimidazione mafiosa e delle armi.
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Dall’Aspromonte all’Alto-Adige, la genesi di una nuova “locale” di ‘ndrangheta
Mario Sergi nasce a Delianuova, paesino arroccato sul lato tirrenico dell’Aspromonte e che cade sotto il controllo delle ‘ndrine Italiano ed Alvaro. Arrivato a Bolzano già negli anni ‘80 si dedica a piccole attività criminali, ma ha un sogno: mettere in piedi una solida struttura criminale tra la Calabria e Bolzano. Un collaboratore di giustizia racconta di come già negli anni ‘80 Sergi avesse trascorso un periodo in carcere assieme a un cugino arrestato con dell’eroina alla stazione ferroviaria di Bolzano. E proprio in carcere Sergi avrebbe elaborato il piano per allargare il suo giro, e arrivare a gestire il traffico di eroina dell’intera provincia altoatesina.
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Bolzano aveva una vasta comunità migrante calabrese, alcuni erano giunti da poco in cerca di lavoro al nord, altri erano arrivati durante il processo di italianizzazione voluto da Mussolini. E come sempre, anche la ‘ndrangheta aveva sfruttato il flusso migratorio dei propri conterranei, un po’ per dare meno nell’occhio, un po’ per assicurarsi una prima base economica con le estorsioni. Ma all’epoca si trattava di “cani sciolti”, trafficanti di eroina per lo più in proprio, senza un vero piano e senza un comando.
La svolta arriva a metà anni ‘80 da Platì: Francesco Perre, alias U Gulera, viene “attivato” a Bolzano da due colonne portanti della ‘ndrangheta dell’epoca: Domenico Agresta e Pasqualino Marando. Così racconta agli inquirenti di Torino il collaboratore Domenico Agresta detto “Micu Mc Donald”, nipote dell’omonimo boss, e divenuto il più giovane pentito della ‘ndrangheta. Era cresciuto con i racconti di come a fine anni ‘80 i suoi zii Domenico Agresta e Pasquale Marando reggessero la “locale” (unità territoriale di ‘ndrangheta) di Volpiano, in provincia di Torino, e da lì controllassero la più moderna e grande holding del narcotraffico dell’epoca.
I legami tra i Barbaro, i Papalia e i Marando di Platì
I Barbaro alias Castanu sono una potente ‘ndrina di Platì oggi egemone sull’area della cittadina e di grande influenza sul mandamento Jonico nonché in Piemonte e Lombardia. Le altre famiglie di Platì alleate ai Barbaro alias Castanu sono la famiglia Marando, che ha dato i natali al più grande narcotrafficante italiano, Pasqualino Marando, pioniere del traffico di cocaina dall’America Latina. Pasqualino viene ucciso nel 2001 in una faida, il suo corpo mai ritrovato. Ucciso per una faida con la famiglia della moglie, come suo fratello Ciccio, altro narcos di spicco. Entrambi vivevano tra Platì e Volpiano, cittadina piemontese diventata per loro roccaforte.
Un’altra famiglia alleata è quella dei Papalia, particolarmente attiva a Milano e provincia. Anche i Perre e gli Agresta sono due famiglie di Platì che storicamente operano assieme ai Marando e sono alleate dei Barbaro. Le famiglie Barbaro e Papalia di Platì si sono entrambe insediate nei comuni ad ovest di Milano, Buccinasco, Corsico e Trezzano sul Naviglio che lentamente divennero quella che oggi viene considerata una vera e propria colonia, detta “la Platì del Nord”, per poi allargarsi successivamente anche nelle aree limitrofe. Da allora, le due famiglie si sono praticamente unite in un unico clan (noto come Barbaro-Papalia e legato a Domenico Barbaro l’Australiano), capace, dagli anni Settanta, di resistere alle numerose inchieste e riorganizzarsi ogni volta.
Così Perre si darà da fare, e troverà anche un luogotenente per portare avanti il traffico di eroina: Mario Sergi. Il duo potrà così operare all’interno di un contesto preciso, e le azioni criminali non avverranno più in modo spontaneo e casuale ma all’interno di un piano specifico, discusso di volta in volta con la “casa madre” di Platì e con il nucleo di narcos operanti da Volpiano. È infatti da lì che Pasquale Marando dirige il suo impero alla Escobar, e grazie alle alleanze con i trafficanti turchi e pachistani rifornisce di eroina tutta Europa, compresa la Bolzano gestita dal suo “clan dei calabresi” – così veniva chiamato dagli inquirenti dell’epoca il gruppo guidato da Perre e Sergi.
Qualcuno però se ne accorge. Il 13 febbraio 1992 le Procure di Trento e Bolzano concludono la prima indagine sulla ‘ndrangheta in Trentino Alto-Adige togliendo il velo su un fiorente traffico di droga e di armi e arrestando 46 persone. Tra gli arrestati, ve ne sono anche alcuni coinvolti nel sequestro di Carlo Celadon, il 19enne veneto tenuto prigioniero in Aspromonte per oltre 800 giorni a fine anni ‘80.
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Il 13 febbraio 1992 le Procure di Trento e Bolzano concludono la prima indagine sulla ‘ndrangheta in Trentino Alto-Adige togliendo il velo su un fiorente traffico di droga e di armi e arrestando 46 persone
Quando nel 1994 vengono condannati, Mario Sergi non può crederci. Aveva costruito bene la sua copertura, essendo socio in ben quattro imprese edili e in un bar stando ai dati della camera di commercio. Alla lettura della sentenza in aula, Sergi sbraita e minaccia l’intero collegio giudicante. «Quando il Presidente ha letto il dispositivo di sentenza, Sergi dalla gabbia ha iniziato a minacciarci in calabrese stretto», ricorda l’allora giudice, oggi in pensione, Margit Fliri. Era la prima volta che a Bolzano si svolgeva un processo con mafiosi alla sbarra, e per il quale era stata fatta appositamente costruire una gabbia. I giudici istruttori di Palermo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano stati uccisi due anni prima, e l’Italia di quegli anni aveva ancora ben in mente l’eco della strage di Capaci. Le minacce di Sergi però non serviranno a molto, ma nei venti anni successivi passati in carcere avrà modo di pensare a come riorganizzare la “locale” di Bolzano una volta fuori.
Nel 2012 infatti Mario Sergi torna libero e torna a Bolzano. Come ha potuto verificare IrpiMedia sei mesi dopo aprirà con altri tre Sergi e un cittadino albanese una cooperativa edilizia a Bolzano a cui tre anni dopo seguirà l’inaugurazione di un’altra impresa edile e dal 2018 il bar Coffee Break. Quello che, secondo l’accusa, diventerà il quartier generale per il traffico di droga del gruppo guidato – proprio come negli anni ‘90 – da Sergi con Ciccio Perre U Gulera. «Ben presto – si legge nelle carte dell’inchiesta “Free Land” – Sergi riprende le redini del traffico di sostanze stupefacenti, in particolare cocaina, giovandosi dell’apporto dei suoi sodali, in gran parte a lui gerarchicamente sottoposti».
«Quando il Presidente ha letto il dispositivo di sentenza, Sergi dalla gabbia ha iniziato a minacciarci in calabrese stretto»
L'intercettazione
È il 2 settembre 2019 e, svelerà un’intercettazione ambientale, i due discutono di traffico di droga verso il nord. «Questo vuole prendere da qui e portarla su», dice Papalia. «Se il prezzo è buono lassù riesco a piazzare», risponde Sergi. Nel corso della conversazione Sergi affronta anche il tema di ritardi nel pagamento: «Io volevo andare anche dalle parti di Verona», racconta a Papalia, «perchè li qualcosa c’è pure già…gliela portiamo là e vengono e se la prendono loro». «Ma pagano questi qui?», vuole sapere Papalia. «Pagare ce la pagano…è probabile che non ce la pagano subito…questo è il problema…loro ti dicono…un mese…e i soldi te li porto»
I rapporti tra Mario Sergi e Rocco Papalia sono di grande interesse per gli inquirenti, che considerano il secondo contabile della cosca di Delianuova e depositario della cosiddetta “bacinella”, ossia la cassa comune in cui confluiscono i proventi della ‘ndrina che vengono utilizzati ad esempio per il sostentamento dei familiari degli affiliati in carcere. Un aiuto a cui non si è sottratto Mario Sergi che, stando all’accusa, avrebbe inviato somme di denaro proprio alla “bacinella” gestita da Papalia. In cambio un riconoscimento importante: Sergi viene invitato alla riunione nella quale sarebbe stata conferita la carica di capo della cosca Italiano-Papalia, contesa tra i cugini Rocco e Saverio Papalia.
Gli inquirenti ritengono quindi che Sergi sia espressione diretta della ‘ndrina di Delianuova e che per essa, e per i platioti rappresentati da Perre, curi il traffico di droga in Trentino-Alto Adige. Un flusso bianco che toccava anche il Veneto e che puntava a espandersi ancora grazie a contatti diretti con la Colombia e con chi «ha in mano il porto, il porto di Gioia Tauro», come emerge dalle intercettazioni.
Una “locale” distaccata di ‘ndrangheta per funzionare deve riuscire ad operare il controllo sul territorio. A questo, secondo gli inquirenti, servivano le armi – detenute illegalmente – che i poliziotti hanno poi trovato e requisito durante l’indagine. Le trovano ancora al bar Coffee Break di via Resia dove le armi venivano chiamate «amaro del capo».
Un flusso bianco che toccava anche il Veneto e che puntava a espandersi ancora grazie a contatti diretti con la Colombia e con chi «ha in mano il porto, il porto di Gioia Tauro»
D’altronde Sergi deve potere incutere timore. A febbraio 2020, ricostruiscono gli inquirenti, l’uomo convoca presso il Coffee Break tre uomini di etnia sinti che avevano rubato all’interno del locale di una sua cliente. Sergi li minaccia, i tre delinquenti si scusano, promettono di risarcire la malcapitata e promettono anche di non farlo mai più.
L’ordinanza di custodia cautelare “Freeland” dei pm Sandro Raimondi e Davide Ognibene non esplora il modo in cui la ‘ndrangheta di Delianuova e Platì a Bolzano abbia reinvestito i proventi delle presunte attività criminali, ma sono i nomi degli arrestati più giovani a suggerire un indizio.
Uno degli arrestati, un giovane classe 1988 nato a Bolzano che vanta un cognome importante nel mondo della ‘ndrangheta, aveva un ruolo marginale, faceva da autista a Sergi e gli nascondeva una pistola. Eppure, IrpiMedia ha verificato come il ragazzo sia titolare dell’impresa “I frutti della Calabria” che a Bolzano movimenta frutta e verdura fresca. Proprio il tipo di attività commerciale che il gruppo di Sergi avrebbe utilizzato almeno una volta per muovere un carico di droga. Il ragazzo sui social è “amico” di un altro giovanissimo arrestato in Freeland, titolare di un’impresa di lavori elettrici ed energie rinnovabili attiva tra Bolzano e la Calabria e un frantoio di olio d’oliva nella Piana di Gioia Tauro.
Al momento le indagini non hanno chiarito se le imprese degli arrestati fossero una copertura per altre attività, ma la storia scritta da altri procedimenti di ‘ndrangheta insegna che sono queste le tecniche predilette per muovere i carichi di droga e per riciclare i proventi. I due giovani, tramite i loro legali, hanno dichiarato di volere «attendere gli interrogatori» prima di rilasciare commenti sulla linea difensiva.
«Con l’operazione Freeland ci siamo detti: vuoi vedere che ci volevano questi venti arresti per poter parlare di mafie, nonostante abbiamo a che fare con persone che operavano in regione dagli anni ‘90?», dice a IrpiMedia Chiara Simoncelli, referente di Libera Trentino-Alto Adige. «Ci auguriamo che questa operazione contribuisca anche alla nascita di una nuova consapevolezza, ad un cambiamento culturale. Perchè in Trentino Alto-Adige sembra quasi un’onta parlare di mafie sul nostro territorio».
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