#NdranghetaInSardegna
Cecilia Anesi
Raffaele Angius
«Per sbloccarlo devi scrivere “pecora”», dice Giovanni Giorgi. Il fratello, Francesco, sta armeggiando con un telefono cifrato che si è procurato a Barcellona. «Perchè stai nascondendo qualcosa? Lo so cosa scrivi…», commenta divertita la cognata che assiste alla scena. Sembra un’allegra riunione di famiglia quella che si è tenuta ad agosto del 2018 in un appartamento di via Kennedy ad Alghero, cittadina nel nord-ovest della Sardegna. Il trio è in attesa che Pietro – un caro amico – li raggiunga: «Mi ha scritto che si sta alzando». Ma lungi dall’essere una gioviale rimpatriata, è in realtà una riunione tra narcotrafficanti ospitata da Giovanni Giorgi, che non può mettere piede fuori di casa perché ai domiciliari.
Giorgi è a capo della famiglia Boviciani di San Luca, noti narcotrafficanti della ‘ndrangheta calabrese. Dopo alcuni anni nel carcere di Alghero per traffico di droga, è lui stesso a chiedere e ottenere i domiciliari nella Barceloneta sarda. Piuttosto che tornare in Calabria, Giorgi preferisce restare sull’isola, dove può contare su una domanda stabile di droga e dalla quale dirige gli affari grazie alla rete di fratelli che, strategicamente, vivono nel nord Europa.
Ad avere i contatti per la distribuzione della droga in Sardegna è Pietro Parisi e l’incontro a casa dei Giorgi, ad Alghero, servirà proprio a parlare d’affari. Originario di Natile di Careri – minuscolo paesino dell’Aspromonte stretto tra Platì e San Luca, da cui provengono alcuni dei più importanti narcos di sempre. Parisi è ormai un sardo naturalizzato, pur senza aver mai perso il legame con quel minuscolo paesino dell’Aspromonte.
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Pietro è figlio del più famoso Antonio Parisi che, stando alle dichiarazioni del pentito Rocco Varacalli, sarebbe a capo dell’omonima ‘ndrina di Natile, parte della società Maggiore di Natile di Careri con la dote di “Santa”: una delle cariche più alte della ‘ndrangheta.
Come già raccontato da IrpiMedia e Indip, alla fine degli anni ‘90 Pietro Parisi ha un ruolo chiave nella creazione di una delle prime reti organizzate del narcotraffico sardo, interrotta nel 2001 dall’indagine San Gavino dei carabinieri del Raggruppamento operativo speciale (Ros) di Cagliari. Condannato nel 2003, sconta la pena ma torna a trafficare tra Calabria, Sicilia e Sardegna.
A rivelare il legame tra Giovanni Giorgi e Pietro Parisi è l’indagine Platinum della Dia di Torino e della polizia tedesca, che dal 2016 ha tracciato la rete del narcotraffico dei Boviciani in Europa e le alleanze che questi avevano costruito con alcune delle più potenti famiglie di ‘ndrangheta, nonché con trafficanti rumeni, albanesi e turchi. A maggio 2021 vengono eseguiti 32 arresti tra Italia e Germania. In manette finiscono anche Giovanni Giorgi, Pietro Parisi e la rete di sardi che riforniva l’isola con fiumi di cocaina. L’indagine rivela inoltre che il clan Boviciani aveva stabilito il quartier generale ad Alghero, dove alcuni dei suoi più prominenti membri scontavano pene in carcere o ai domiciliari.
Il salotto buono
Mentre è ai domiciliari, Giovanni Giorgi si procura cocaina purissima dal broker della ‘ndrangheta di San Luca Giuseppe Romeo – alias il “Nano” – che la fa arrivare dall’America Latina attraverso Barcellona o Civitavecchia. È la cocaina più pura, che Giorgi riserva in grandi quantità all’amico e sodale Pietro Parisi. «Questione di qualche giorno vedete che la piega (ovvero la fornisce, ndr)», dice Giorgi a Parisi commentando le forniture di Romeo. Quest’ultimo risponde: «Piega là sotto come come… mancu li cani (come a dire che ne ha sempre molta a disposizione, ndr)».
Parisi vive in Sardegna almeno dal 2014, ma non cessa di fare la spola con la Calabria: da una parte allaccia rapporti con i narcos calabresi più in auge, dall’altra cura la rete di distribuzione sull’isola, avvalendosi di una rete di camion destinati al trasporto merci.
Sempre ad Alghero, per un omicidio di natura passionale è detenuto Domenico Giorgi cognato di Giovanni in quanto fratello di sua moglie Maria Giorgi (portano lo stesso cognome ma sono di famiglie distinte), che contribuisce alla causa comune della famiglia Boviciani «procacciando sul mercato sardo nuovi clienti ai quali cedere ingenti quantità di stupefacente», scrive la Direzione investigativa antimafia (Dia) di Torino.
Tra gli acquirenti – una decina in tutto – c’è il trentenne cagliaritano Stefano Sanna, che Giovanni Giorgi conosce durante una comune detenzione in carcere. I due diventano amici, o quantomeno costruiscono un rapporto privilegiato, dal momento che, sull’acquisto della cocaina, Giorgi pratica a Sanna un prezzo di favore: 42 mila euro al chilo contro i 48 mila che pagano altri acquirenti.
Al fine di tenersi aggiornati sullo stato delle forniture, i due coinvolgono le mogli in qualità di messaggere: se la consorte di Giorgi invita la compagna di Sanna per un caffè, vuol dire che quest’ultimo può andare a ritirare la droga. Sanna ha ottimi contatti per distribuire cocaina in Sardegna, tra cui tre fratelli, titolari di un’autodemolizione, che dispongono di risorse economiche sufficienti per acquistarne in quantità.
Ma è sempre dal carcere che Giorgi si procura uno dei clienti principali a Sassari: il titolare di una scuola guida nota per avere rilasciato patenti false in cambio di somme di denaro, che vuole ricevere cocaina per venderla a Cagliari. A trasportare lo stupefacente verso il capoluogo saranno camion per il trasporto dei cavalli, perché secondo Giovanni Giorgi è un ottimo modo di nascondere l’odore ai cani: «Il rumento dei cavalli è l’unica cosa», probabilmente alludendo allo stallatico.
Il carcere è un luogo strategico per i traffici della ‘ndrangheta in Sardegna, «nonché il principale spazio di socializzazione nel quale mafie strutturate come quella calabrese stringono rapporti con la criminalità locale – certamente non altrettanto organizzata – al fine di coinvolgerla e rafforzare una struttura sul territorio», spiega Marco Zurru, docente di sociologia dei processi economici e del lavoro dell’Università di Cagliari e tra i primi a studiare il fenomeno delle narcomafie sull’isola.
Una prima emergenza riguarda il puntuale trasferimento delle famiglie dei carcerati legati alla ‘ndrangheta nei pressi delle strutture penitenziarie, da dove spesso sono in grado di offrire un supporto logistico e un continuum dell’attività criminale. Dall’altra, «chi gestisce la logistica della droga cerca fondamentalmente continuità, sicurezza e fondi per finanziare i propri traffici – prosegue Zurru – e proprio le strutture penitenziarie sono diventate cruciali nel creare rapporti di fiducia in grado di garantire questi tre requisiti. Non dovrebbe stupire se alcuni scelgono di restare vicino al carcere dove hanno scontato la pena e dove hanno costruito una rete di contatti propedeutica a continuare l’attività criminale».
Il consulente finanziario
Tanto è vasta la rete di distribuzione che fa capo ai Boviciani che Giorgi e Parisi devono presto affrontare il problema della quantità di contanti – soprattutto di piccolo taglio – che devono essere puliti e reinvestiti in altra droga. Le banconote che vengono regolarmente portate a Giorgi nell’appartamento dove è ai domiciliari, come detto in via Kennedy ad Alghero, sono talmente tante che neanche le macchine contasoldi risultano più affidabili.
«L’ho usata tre o quattro volte, da quando l’ho comprata nel giro di 20 giorni ho perso 800 mila euro», commenta Giorgi, che per riordinare il malloppo – ci sono anche banconote da 5 e 10 euro – chiederà aiuto perfino al figlio tredicenne.
È così che al cognato di Giorgi, Domenico, torna in mente una conoscenza che potrebbe risultare utile, fatta anche questa nell’unico salotto che conta davvero nella città costiera: il carcere. Si tratta di Vincenzo Smimmo, imprenditore 54enne originario della zona con precedenti per reati contro il patrimonio, fiscali e fallimentari.
«Ufficialmente non possediamo nulla, neanche i vestiti che abbiamo indosso», spiega Giorgi a Smimmo, che lo è andato a trovare nell’appartamento di via Kennedy. Eppure di soldi ce ne sono tanti, troppi, che devono essere ripuliti in modo da non essere riconducibili alla loro reale provenienza. L’espediente consiste nell’acquisire un bar ad Alghero per il quale Smimmo organizza uno stratagemma: la cognata di Giorgi acquisterà la licenza commerciale usando quattro cambiali da cinquemila euro l’una e un prestito fittizio firmato dallo stesso Smimmo.
Come verificato da IrpiMedia e Indip, a marzo del 2019 una cooperativa di Porto Torres, la Mgm Service, cede l’attività del bar “A’ Nse’ Pub” di via Mazzini – a due passi dal centro di Alghero – alla cognata di Giovanni Giorgi, Iolanda. Suo marito, Domenico Giorgi, sta scontando una pena nella casa di reclusione ad appena due traverse da lì e ha bisogno di un’attività commerciale a cui chiedere l’affidamento in prova.
Ma Giovanni Giorgi, che finanzia l’apertura del bar, ha perfettamente chiaro a cosa serva, oltre al piano per l’affidamento del parente carcerato. «Se giornalmente fa 200 euro lui farà scontrini fino a 600-700 euro al giorno, così anche se a fine anno dovrà pagare 15 o 20 mila euro di tasse, le paga, così almeno dichiara». Uno stratagemma che permetta di dimostrare l’esistenza di un reddito legalmente ottenuto e si possa avere un’attività, quella del bar, necessaria a immettere nel circuito pulito una parte dei soldi del narcotraffico sardo. In una conversazione di settembre 2019 emerge il totale disinteresse della donna per le sorti del bar, e quanto sia Giovanni Giorgi a tirarne le fila: tanto da decidere di chiuderlo dopo avere scoperto una microspia nella propria abitazione.
Smimmo dal canto suo sembra sapere benissimo con chi ha a che fare, e anzi si rivelerà prezioso in quanto può contare su talpe in tutta l’isola, «sia nella Finanza che nei carabinieri», che lo informano su eventuali indagini sul suo conto o quello dei suoi clienti. Sarà proprio lui a mettere in guardia Giorgi rispetto a possibili microspie che il calabrese non aveva sospettato ci fossero fino a quel momento.
A maggio 2019 Smimmo torna a trovare Giorgi nell’appartamento di via Kennedy per metterlo in guardia. Racconta di aver assistito a una conversazione tra due donne, una delle quali è un’infermiera nel carcere di Bancali, a Sassari, e sarebbe fidanzata con un carabiniere del Ros di Alghero. Origliando sente dire che i carabinieri starebbero «addosso al giro di calabresi e napoletani, sul giro di droga», insomma starebbero facendo delle indagini e dei controlli proprio in quei giorni e per questo «ho anche evitato di venire [a trovare Giorgi] …e so che ho il telefono sotto controllo».
«Stai in campana», Smimmo avverte Giorgi, perché gli inquirenti stanno «prestando moltissima attenzione a questa sorta di spartizione di territorio tra napoletani e calabresi per lo spaccio di droga su Alghero come base operativa» e quindi, ne deduce Smimmo, Giorgi che è «un calabrese» potrebbe essere indagato.
Giorgi non sembra troppo preoccupato in quanto, essendo ai domiciliari, è convinto di non essere monitorato. Ma è proprio questa la preoccupazione di Smimmo, in affidamento per i suoi precedenti, che lo ammonisce: «Come hanno visto che io venivo qua, la prima cosa che è stata fatta è capire chi ero e perché venivo». Anche il semplice contatto potrebbe destare sospetti.
«Che poi io non posso venire qua, […] io e te non ci possiamo frequentare… questa è la realtà dei fatti, poi è chiaro che non ho mai fatto delitti no… però cazzo capisci… e questa è la realtà in in Italia purtroppo», spiega Smimmo.
Ma Giorgi è più interessato ad avere notizie rispetto alla sua richiesta per ottenere la scarcerazione dei domiciliari e un affidamento in prova ai servizi sociali. È preoccupato perché il bar di Porto Torres che avrebbe dovuto assumerlo nel frattempo ha chiuso. Ma Smimmo ha un asso nella manica: «La richiesta te la possiamo fare anche noi», dice, aggiungendo che «Domenico (Giorgi, che è in carcere ma vorrebbe ottenere la semilibertà, ndr) aspetta anche un incontro con il vescovo per prendere dei terreni per la cooperativa…».
A quale cooperativa faccia riferimento Smimmo non è dato saperlo e non è stato possibile chiederglielo. Tuttavia, come accertato da IrpiMedia e Indip, l’imprenditore risulta all’epoca fondatore dell’impresa sociale Noi di Dentro e Anche No, con sede a Porto Torres e avviata due mesi prima della conversazione con Giorgi. La cooperativa indica di occuparsi proprio di “accompagnamento e orientamento all’inserimento lavorativo” e Smimmo ne è stato consigliere dal 28 aprile 2019. Alcuni mesi dopo cede la posizione alla moglie, non figurando più all’interno della struttura societaria. Contattato da IrpiMedia e Indip, Smimmo non ha potuto commentare in quanto è ancora in carcere.
In passato sua moglie ha avuto un ruolo anche nella società Cala Polt Agra, con la quale è finito nei guai per fatture false. Il procedimento si era concluso con la prescrizione. La signora, anch’essa consulente finanziaria, continua a operare con due società di consulenza amministrativa, una a lei intestata – nella quale si avvicendano soci sardi e campani – e un’altra intestata ai tre giovani figli.
Il partner di Smimmo in Sicilia, Giuseppe Ciriacono
di Simone Olivelli
La rete di aziende e conoscenze di Vincenzo Smimmo, imprenditore 54enne di Cagliari, è vasta e arriva anche in Sicilia. A dirlo sono i dati registrati nelle Camere di commercio delle due isole. A inizio anni Duemila, Smimmo entra in società con Giuseppe Ciriacono, nativo di Acate (Ragusa) e anche lui oggi 54enne. Ad aprile 2003, costituiscono la Sicilia Luce, società di consulenza con un capitale versato di tremila euro che poco più di un anno dopo migra da Caltagirone (Catania) ad Alghero, in provincia di Sassari.
Il passaggio di sede coincide anche con il cambio di nome: la Sicilia Luce diventa Building & Construction, pur mantenendo sostanzialmente inalterato l’oggetto sociale e la ripartizione delle quote: due terzi a Smimmo, la restante parte a Ciriacono. Il nome di quest’ultimo compare anche nella storia di un’altra avventura imprenditoriale di Smimmo: la Cala Polt Agra, società di costruzione finita nel 2010 al centro di un’inchiesta della guardia di finanza per false fatturazioni che portò all’arresto del 54enne cagliaritano (la vicenda giudiziaria si concluse con la prescrizione).
Nello stesso periodo in cui nasce Sicilia Luce, Ciriacono viene infatti nominato direttore tecnico di Cala Polt Agra. Imprenditore capace di affermarsi nel mondo dei lavori pubblici, Ciriacono a oggi è incensurato. Negli ultimi anni, tuttavia, su di lui si sono accesi i riflettori delle procure. Nel 2018, è finito insieme all’allora vicesindaco di Caltagirone e ad altri soggetti, uno dei quali legati alla criminalità organizzata, al centro di una storia su presunte pressioni compiute ai danni di un dirigente del Comune, per condizionare l’affidamento del servizio di pulizia delle caditoie.
L’anno successivo, Ciriacono viene arrestato per corruzione: la procura di Catania stavolta lo accusa di avere pagato tangenti a due funzionari di Anas, per ottenere la garanzia di non ricevere contestazioni nella manutenzione del verde sull’autostrada Catania-Siracusa. Per questa vicenda, fa sapere il legale di Ciriacono, Christian Parisi, l’imprenditore ha ottenuto la «sospensione del processo e la messa alla prova».
Risale però a giugno scorso l’accusa più grave: il 54enne viene arrestato in un blitz dei carabinieri nell’ambito dell’inchiesta Agorà della Dda di Catania. La misura cautelare in seguito è stata revocata, ma le accuse restano pesantissime: concorso esterno in associazione mafiosa. L’imprenditore sarebbe legato ai La Rocca, famiglia legata a Cosa nostra, il cui capostipite, Ciccio, è morto a fine 2020, dopo essere stato tra i detenuti al 41-bis scarcerati nei primi mesi della pandemia.
All’antivigilia di Natale 2020, Ciriacono presenziò alle esequie del boss nonostante per ordinanza della questura di Catania i funerali avrebbero dovuto svolgersi in forma privata, riservati alla famiglia. «Ciriacono» invece «si intratteneva con i familiari di La Rocca, presenziando anche alla tumulazione del feretro», ha scritto il giudice.
Per la procura, sul conto di Ciriacono ci sarebbero elementi a sufficienza per ritenerlo l’imprenditore di riferimento di Gianfranco La Rocca, l’erede del boss. «È in buoni rapporti – ha dichiarato ai magistrati il collaboratore di giustizia Alfredo Palio – Prende gli appalti del Comune di Caltagirone e poi distribuisce il denaro a La Rocca attraverso fatture».
Stando agli atti dell’indagine, Ciriacono si sarebbe messo a disposizione della famiglia mafiosa anche per ottenere il pizzo da un’impresa aggiudicataria dell’appalto sui rifiuti, il cui titolare sarebbe stato propenso a denunciare le richieste di estorsione. Per aggirare il problema, Ciriacono, dopo avere lavorato per ottenere un subappalto, avrebbe sovrafatturato le prestazioni della propria ditta con la complicità del capocantiere. Con imprese attive nei settori di pulizia, movimento terra, costruzioni e manutenzione, Ciriacono avrebbe contribuito al rafforzamento economico della famiglia mafiosa, sfruttando anche «contatti con politici e funzionari pubblici».
L’amministratore della Noi di dentro è don Mario Ildefonso Chessa, un prete con un passato in Lotta Continua, finito agli arresti domiciliari nel maggio del 2022 con l’accusa di aver consegnato un telefono a un detenuto del carcere di Alghero, nel quale era cappellano dal 2013. Secondo l’indagine della penitenziaria, il prete avrebbe portato anche altri oggetti non consentiti a una serie di detenuti «in cambio di interessenze di varia natura».
Pochi giorni dopo il primo avvertimento, a maggio 2019, Smimmo torna da Giorgi per informarlo nuovamente. Secondo quanto avrebbe appreso, a investigare sui Boviciani non sarebbe soltanto il Ros, ma anche il Gruppo d’investigazione sulla criminalità organizzata (Gico) della Guardia di finanza di Catanzaro, su delega del procuratore capo Nicola Gratteri. Quello che né Smimmo né Giorgi immaginano, in realtà, è che su di loro sta per piombare la Dia di Torino che, con l’operazione Platinum, ha ricostruito il vasto giro di narcotraffico dei Boviciani in mezzo mondo, grazie proprio alle cimici piazzate nell’appartamento di Alghero. Giorgi pensa di essere invisibile, ristretto ai domiciliari, ma il continuo via vai di parenti calabresi non passa inosservato. Chi indaga la ‘ndrangheta sa di doverne seguire proprio i legami familiari, ed è così che si arriva fino alle carceri della Sardegna, prima, e alla sua economia poi.
Una ‘ndrangheta, quella dell’Aspromonte, che in Sardegna c’è, prima di tutto grazie alle carceri, silenziosa, invisibile ma già infiltrata nel tessuto economico. Con occhi e orecchie da tutte le parti, mentre chi prova a combatterla si trova a scalare una montagna, aspra, ardua e ombrosa. Proprio come l’Aspromonte. O il Supramonte.
CREDITI
Autori
Cecilia Anesi
Raffaele Angius
Ha collaborato
Simone Olivelli
Editing
Giulio Rubino
Pablo Sole